La catastrofica serie d’inondazioni che plasmò la genesi dell’America settentrionale

“Il mio unico rimpianto, Joseph, è che questo fatidico momento non finirà nei libri di storia.” Il Prof. J. Harlen Bretz, scienziato indipendente, si voltò verso l’esimio collega che rappresentava il Servizio Geologico degli Stati Uniti, puntando il dito verso la strana conformazione del paesaggio. I due, recentemente scesi dalla Jeep che avevano noleggiato per la spedizione, si trovavano in qualche punto non meglio definibile del contorto e irregolare deserto noto come channeled scablands, situato nella parte orientale dello stato di Washington, Pacific Northwest. La terra “segnata” e “scanalata” che da quel momento avrebbe potuto anche essere chiamata misteriosamente “ingombra”. Joseph Pardee, l’antico collega e rivale professionale dello studioso, era rimasto per una volta del tutto privo di argomenti con cui controbattere. Mentre osservava dal basso, ai margini della sua stessa ombra, il più eccezionale cumulo di sedimenti della sua intera carriera. Ghiaia, sassi e pietrisco, posti da una qualche misteriosa forza a formare la gibbosità collinare di affioramento carsico, che sarebbe stato capace di raggiungere l’ultimo piano di un grattacielo. Il chiaro residuo del passaggio pregresso di un torrente, ma capiente e rapido almeno 10 volte il corso familiare del fiume Mississippi. “È tutto vero! Adesso dovranno crederti, Bretz. Nessuno potrà più negare l’evidenza.” Dodici anni, trascorsi ad osservare mappe topografiche e resoconti di prospezione. Dopo tutto, nel 1910 non esistevano i satelliti e neppure le precise misurazioni al LIDAR usate per creare precise mappe tridimensionali di un’intera regione. Ma soltanto gli occhi per osservare, le mani per tracciare nuovi resoconti e la mente in grado di raggiungere le conclusioni finali. Giusto? Sbagliato? Forse contrario alla dominante visione dell’uniformitarianismo, secondo cui i processi del mutamento terrestre furono sempre costituiti dal ripetersi di lenti, ed ancora osservabili processi di mutamento. Eppure così drammaticamente prossimo alla linea insuperabile degli argomenti, oltre cui nessuno avrebbe più potuto avere il coraggio di confutarlo. Bretz era estatico. Pardee, in qualche modo, sollevato. Nel Pacific Northwest all’epoca dell’ultima grande glaciazione intercorsa tra i 14.000 e 12.000 anni a questa parte, bradipi giganti e mastodonti dalle zanne acuminate erano stati spazzati via attraverso una versione pienamente dimostrabile della devastante inondazione biblica o leggendaria. Durante cui molte migliaia, e migliaia di chilometri quadrati si erano trasformati nel reticolo di scorrimento non tanto di una pluralità di fiumi, bensì un letterale oceano di tipo transitorio, che nel giro di qualche anno sarebbe defluito all’interno del Pacifico lasciando tracce fin troppo evidenti del proprio avvenuto periodo d’esistenza. Una lunga opera di studio, e un’irto tentativo di convincimento del mondo accademico delle prestigiose università note come Ivy League, avevano condotti due principali sostenitori dell’ipotesi a un fondamentale disaccordo, relativo all’origine di quel fenomeno: l’area presso l’antico fiume parzialmente inaridito del Gran Coulee, in prossimità di Spokane, secondo Bretz, piuttosto che una non meglio definita parte del proprio nativo stato del Montana, nell’opinione di Pardee. Finché la collocazione dei nuovi depositi scovati nelle scablands avevano portato i due convenire, gradualmente, nella nascita del grande cataclisma a partire dal lago glaciale di Missoula, alle radici della gola del fiume Columbia. Dove a partire da quel momento, avrebbero focalizzato i propri sforzi di approfondimento.

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Lo strano fenomeno che sta lentamente ingrandendo l’oceano Atlantico

Nel 1960, il professore di geologia americano Harry Hammond Hess avanzò una proposta rivoluzionaria. Grazie all’impiego di un sistema tecnologico che aveva imparato a conoscere durante la seconda guerra mondiale, come capitano del trasporto truppe USS Cape Johnson, era riuscito a far propagare una serie di onde sonore fino al fondale del Pacifico tre le Filippine, le isole Marianne ed Iwo Jima. Così sfruttando la potenza del sonar, egli aveva scoperto l’esistenza di una serie di catene montuose in punti arbitrari dell’oceano, punteggiante di vulcani attivi dalla cima piatta, che decise di chiamare guyot. La presenza di una simile, continua emissione magmatica, aprì la sua mente a un’imprevedibile possibilità. Che non soltanto il fondale marino si stava spostando lateralmente accompagnando la deriva dei continenti elaborata dal suo collega Alfred Wegener, ma che in particolari punti (le cosiddette dorsali) esso tendeva naturalmente a separarsi. Mentre copiose quantità di flusso magmatico, spinte verso l’esterno dalla convezione termica del mantello terrestre, fuoriuscivano a colmare costantemente quel vuoto. Il che sollevava, inevitabilmente, una serie d’importanti interrogativi: se nuovo fondale tendeva ad aggiungersi riversandosi costantemente verso le vaste pianure sommerse, perché la Terra non stava diventando ogni anno più grande? E visto che le dorsali continuavano ininterrottamente il loro processo d’eruzione, dove andava a finire tutto il materiale in eccesso? Domande la cui unica riposta possibile sarebbe stata destinata a restare lungamente difficile da dimostrare, benché Hess ne avesse immediatamente intuito la possibilità. Sarebbe quindi stato il suo collega George Plafker, nel 1964, a mettere tale ipotesi in correlazione con il grande terremoto che si verificò il 27 marzo di quell’anno in Alaska, identificandolo come il probabile risultato di un fenomeno di subduzione: la tendenza di una placca tettonica ad infilarsi sotto i confini di un’altra, scendendo al di sotto e lasciando che le rocce che la compongono tornassero a circolare nel grande flusso convettivo all’interno dell’astenosfera sottostante. Il che determina, essenzialmente, il metodo attraverso cui l’intero fondo degli oceani finisce per assomigliare a un titanico nastro trasportare, in cui attraverso un intero ciclo di svariati milioni di anni, ciascun singolo granello di sabbia sarà totalmente diverso dai suoi antichi predecessori. Dal che consegue, essenzialmente, l’esistenza di due diversi tipi di dorsale oceanica, che potremmo definire “additiva” e “di sottrazione” a seconda dell’ordine operativo che determina i suoi processi d’interazione in senso perpendicolare alla superficie. L’entità dei fenomeni e le loro più profonde implicazioni, tuttavia, sono tutt’ora oggetto di lunghe disquisizioni all’interno del mondo accademico, con uno studio condotto nel 2013 da scienziati dell’Università di Lisbona pronto a giurare sulla presenza di una linea di assorbimento della crosta a largo del Portogallo, la cui più probabile funzione potrebbe essere quella di avvicinare un giorno le coste dei due continenti eurasiatico ed americano. Mentre il consenso attuale, sulla base di osservazioni effettuate a largo dell’Islanda e analizzato anche in una recente pubblicazione (Matthew R. Agius dall’università Roma Tre e colleghi presso quella di Southampton, UK) sulla rivista Nature del gennaio 2021, vede convenire gli interessati sulla teoria che il processo inverso sia continuamente in atto nel punto geograficamente denominato dorsale Medio-Atlantica, con una quantità di emissioni tale da aver generato progressivamente un accumulo di sedimenti capace di far sollevare il livello del fondale marino. Riuscendo a spiegare, finalmente, lo strano aspetto dei fondali oceanici ogni qualvolta venivano sottoposti all’osservazione mediante un ulteriore tipologia di strumenti…

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88, il numero che vola tra le fronde della giungla sudamericana

La prova che la matematica non è soltanto un metodo finalizzato a incapsulare, ridurre e in qualche modo contenere la natura: in molti hanno trascorso la migliore parte della propria vita, tentando faticosamente di trovarla. I filosofi del Mondo Antico, primi a interrogarsi sulla forma materiale dell’universo. Gli studiosi dei fenomeni e gli artisti del Rinascimento. I primi utilizzatori del metodo scientifico, emersi da quel calderone d’idee e di tecniche ai princìpi dell’era moderna, che oggi siamo soliti chiamare Illuminismo. Laddove appare estremamente chiaro, per chi ha soltanto voglia di studiare il senso critico alla base della scienza, che se soltanto sparissero dal mondo i numeri con tutte quelle cifre, ciò non basterebbe a rendere impossibile un approccio logico allo studio delle cause e delle conseguenze; mediante l’attribuzione, successivamente effettuata, di un valore agli elementi di questa terra. 1, 2, 4, 6, 8, come le zampe di ciascun insieme di esseri viventi. 3, 5, 7, 9 etc, Il numero di vertici previsti nei cristalli provenienti dalla solidificazione di diversi tipi di sostanze. E al di sopra, così via a seguire: le volute di una singola spirale. Il numero di rami di un arbusto e le diramazioni di un intero fiume, i picchi che costituiscono la cima delle montagne. Le armonie del canto del passero solitario, tendenti all’infinito. Mentre per quanto riguarda quantità specifiche, ma relativamente meno elevate… Ecco, vi basterà abbassare il tenore delle vostre aspettative. Diciamo, insomma, che i vostri risultati possono sembrare un’approssimazione! Perché come tutte le strade portano a Roma, alcune operazioni sembreranno dare sempre lo stesso, identico risultato…
Ad esempio attribuiamo un numero arbitrario al nostro vecchio amico, il bruco verde come la sua foglia: 1. E sommiamo ad esso il succedersi del ritmo di un intero ciclo stagionale, ovvero 4, per giungere al numero delle nostre dita. Quindi dividiamolo per il numero di ali, elevato alle diramazioni tipiche di un gran paio di corna d’ungulato (cervo di campagna, cervo di montagna, fate un po’ voi). Una ricetta estremamente chiara, vero? Il cui totale sarà sempre 88, 89 o 90: apoteosi. E per chi non fosse pronto a crederci, basterà guardare in alto. Tra i raggi del Sole che filtrano oltre il tetto di quei rami, ove un tale Risultato ancora fluttua e vola, insinuandosi visivamente al centro esatto del nostro ragionamento. Guarda: è Diaethria, la farfalla della tribù Callicorini, particolarmente comune negli ambienti umidi del Sudamerica, ma non del tutto ignota anche in Messico e talvolta, fino in Texas, dove si spinge nel corso delle proprie esplorazioni migratorie senza un obiettivo estremamente preciso. Tranne di trovare, grazie all’uso dei suoi occhi sfaccettati, l’equivalente numero che incorpora il destino della propria stessa esistenza: chiaro segno, più di ogni altro, della compagna con cui mettersi a produrre la nuova generazioni d’uova, da attaccare sulla foglia della pianta ospite, affinché il mondo possa conoscere di nuovo il senso estetico della sua specie. E di che senso facile da fraintendere, quale eccezionale dualismo funzionale siamo qui a parlare: non molti ricordano, in effetti, quale sia il più importante tratto distintivo tra farfalle e falene. Non l’ora principale della loro attività (talvolta le prime si alzano in volo oltre il crepuscolo, e viceversa) né la quantità di colori presenti sulle loro ali (ci sono falene coloratissime) bensì il modo in cui si posano con le ali rispettivamente perpendicolari al suolo oppure parallele ad esso. Per mostrare, nel primo dei casi, lo speciale disegno nascosto al di sotto di una tanto funzionale simmetria!

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Anno 1899: la nave che sfidò le regole dello spazio-tempo

Esiste una tradizione mai ufficialmente discussa che costituisce l’unico caso in cui un’imbarcazione militare toglie temporaneamente la bandiera americana, per sostituirla con la macabra Jolly Roger: il teschio e le ossa incrociate usato dai pirati dei Caraibi, come i loro emuli di altre regioni del vasto mare. O almeno, questo afferma la diceria: che nel preciso momento in cui ci si ritrovi ad attraversare l’equatore per la prima volta (ed è praticamente impossibile, con le oltre 1.000 persone a bordo dei vascelli più imponenti, che almeno un membro dell’equipaggio manchi di una simile esperienza) ci si dimentichi temporaneamente il proprio ruolo istituzionale con il beneplacito del capitano, per dare inizio all’importante cerimonia di nomina dei nuovi shellback: ovverosia letteralmente, quei marinai che accedono finalmente alla corte di Nettuno, diventando degli “onorati crostacei” potendo finalmente porre un tale marchio sulla propria promettente carriera. Anticamente, a quanto pare, l’evento includeva veri e proprie tecniche di hazing tra cui colpire i malcapitati con delle corde bagnate o assi di legno, quando non addirittura gettarli fuori bordo e recuperarli con la massima calma, in mezzo alle onde spaventose dell’oceano esterno. E benché simili spiacevoli o pericolosi rituali siano oggi soltanto un ricordo lontano, un qualche tipo di rituale, con recite ampollose e vari tipi di commenti umoristici viene compiuto tutt’ora, più o meno rilevante a seconda della tolleranza del proprio capitano.
Varcare questa linea immaginaria che divide l’emisfero settentrionale da quello meridionale, è inutile negarlo, costituisce un momento già notevolmente significativo, in cui si passa istantaneamente dall’inverno all’estate o viceversa. Esiste però un tipo particolare di veterano-guscioduro, il cosiddetto shellback dorato, che in un momento compatibile della propria esperienza pregressa si è trovato ad attraversare un’altro fondamentale confine: quello della linea della data internazionale. Immaginate quindi di viaggiare in senso contrario alla rotazione della Terra, presumibilmente in aereo, a una velocità superiore ad essa. Ad ogni fuso orario attraversato, perderete un’ora, viaggiando idealmente indietro nel tempo. Finché, oltrepassato trasversalmente il Passaggio a Nord-Ovest tra l’Alaska e la Siberia Orientale, questo vostro guadagno dovrà essere “compensato” portando avanti di un giorno il vostro calendario. La cerimonia di nomina dei golden shellback, idealmente piuttosto rara, si verifica in realtà a seguire di un particolare tragitto: quello che separa il Canada dall’Australia. Che diagonalmente interseca, la maggior parte delle volte, l’incrocio esatto tra equatore e linea della data, facendo dei suoi veterani non più meri sicofanti, bensì veri e propri compagni onorati della corte del dio dei Mari. Ma se ora vi dicessi che l’attraversamento, maggiormente significativo nella storia, di questo punto saliente sulle mappe non è in realtà stato compiuto dai fieri depositari di tale nomina, bensì da una nave civile a vapore, alla soglia dell’inizio del secolo scorso e come orgogliosamente testimoniato dalla quasi totalità dei suoi passeggeri?
Sto parlando della SS Warrimoo (dal nome di un villaggio nell’Australia meridionale) il cui capitano ricevette, nel giorno esatto del 31 dicembre 1899, una nota strano appunto del suo vice, esperto utilizzatore di cronometro marino e sestante. “Signore, mi ascolti. Anche in assenza di un dispositivo di geolocazione fatto funzionare mediante il segnale di un carro magico nei cieli, sono riuscito a determinare che la nostra posizione in relazione al preciso momento storico ci permetterebbe, volendo, di diventare l’Alfa e l’Omega dei sette mari…” John Phillips, fresco di nomina da parte della neozelandese Union Company, ci pensò soltanto per qualche secondo. Quindi, con un ghigno fanciullesco, diede l’ordine al timoniere di alterare lievemente la rotta, verso l’inseguimento di un sogno.

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