Il ruolo delle spine nella dieta del dromedario

Nella carriera operativa di una nave del deserto, c’è sempre un momento in cui si approda nel porto, per fermare la sala macchine e procedere al rifornimento. Osservare un dromedario che si rifocilla: non è forse questa, la massima aspirazione di chicchessia? Tra gli uomini che vivono in mezzo alle sabbie della penisola d’Arabia esiste un detto: “Se un cammello mette il muso nella tenda, presto entrerà con tutto il corpo”. Il che vorrebbe rappresentare, in determinati contesti, una notazione sulla fantastica testardaggine di questa intera genìa di animali, ovvero la loro capacità di dimenticare tutto, incluso il padrone e se stessi, se soltanto qualcosa suscita un lieve interesse, anche per un attimo cruciale nell’economia di giornata. Ciò che riesce ad appassionare simili creature, del resto, esula largamente dalla cognizione della cosiddetta normalità, almeno per quanto ci è dato di concepirla attraverso le nostre semplici cognizioni di umani. Ecco, dunque, un altro ritaglio di sapienza popolare: “Sei ciò che mangi”. Chi non ha presente, ad esempio, la strana mentalità e l’astruso comportamento delle capre, note onnivore capaci di digerire qualsiasi cosa, dai sigari cubani ai tappetini pelosi dell’Ikea! Ma è tutt’altra storia, persino rispetto a questo, la prassi alimentare di questi gobbuti camminatori del Medio Oriente. Come sa molto bene questa YouTuber, nota con il nome internettiano di “Camels and Friends” la quale pubblica, a partire dal 2009, un vasto ventaglio di video relativi al suo ranch, dove vive con due dromedari, uno struzzo, un emu, un gregge di pecore, un lupo e una vasta gamma di cani, inclusa una coppia di favolosi levrieri borzoi. Il tutto, sullo sfondo di uno scenario che fa pensare più che altro agli stati più secchi del Nordamerica, dove la vegetazione più tipica non è esattamente del tipo gradito agli erbivori, vista la netta penuria di foglie, in forza di un’ampia preminenza della più tipica arma vegetale: la spina. Così dev’esserci stato un momento, nella carriera pregressa di questa custode di variegate creature, in cui ella deve aver pensato: “Pianterò dei fichi d’India ai confini del mio giardino.” O forse ancor più probabilmente, il vento e gli uccelli avranno portato fin lì i semi. Eppure nessuno, tra noi, sarebbe stato capace di aspettarsi la piega successiva che avrebbero preso gli eventi.
La telecamera riprende il tutto da distanza estremamente ravvicinata, per meglio darci l’occasione di comprendere la portata di ciò che stiamo vedendo. O forse per evitare che gli spettatori, naturalmente diffidenti, sospettino alterazioni digitali alla sequenza effettiva degli eventi. I quali mostrano, senza interruzioni né cambi d’inquadratura, la maniera in cui uno dei succitati esseri risponde all’unica chiamata impossibile da rifiutare: quella relativa all’acquisizione di nutrimento. Proprio così, signori: il dromedario sconosciuto, nel ranch dalla collocazione incerta, sotto la supervisione della padrona senza nome, abbassa il collo ed allunga le sue labbra dalla straordinaria capacità di manipolazione, fin dentro la ciotola posta dinnanzi al suo recinto. All’interno della quale trova posto una dozzina abbondante di pale, le particolari strutture tipiche dell’Opunzia Messicana, da queste parti soprannominata prickly pear (pera spinosa) che fu in grado di diffondersi, successivamente all’epoca delle grandi esplorazioni, fino al sub-continente che oggi gli presta il nome. Il che è in realtà piuttosto logico: stiamo parlando, in effetti, di una pianta straordinariamente prolifica ed invasiva. Chi mai esiterebbe, potendo farlo, a farne fuori una parte per includerla nella dieta del proprio famelico dromedario? Mentre quello mastica, dunque, la telecamera si sposta dai diversi lati, al fine di meglio mostrare quello che sta accadendo. Le rigide spine, lunghe fino a 15 centimetri, fuoriescono dai lati della mobile bocca, mentre almeno una parte, all’apparenza, minaccia di penetragli dolorosamente il palato. Eppure la bestia sciagurata non sembra affatto intenzionata a sputare l’inusitato spuntino, il cui corpo verde centrale, gradualmente, svanisce dietro i suoi incisivi da erbivoro in configurazione prognata. E il dromedario mastica, mastica ancora, mentre le punte dei pugnali che sta fagocitando fuoriescono occasionalmente ai lati delle massicce labbra dall’aspetto naturalmente morbido, minacciando apparentemente la realizzazione di un’ampia gamma di piercing involontari e indesiderati. Eppure, la realtà è sotto gli occhi di tutti: neppure una minima goccia di sangue. Possibile che questo dromedario, in realtà, fosse nient’altro che un cameldroide costruito in gomma e metallo? Possibile…

La gioia e l’estasi, l’impegno che sottintende una grande soddisfazione. Nel bocconcino di questo entusiasta erbivoro, in effetti, non c’è quasi più traccia di pianta: il suo pasto è composto ESCLUSIVAMENTE di spine.

Per sfatare quindi una simile ipotesi, portando la nostra analisi presso lidi più conformi alle ragioni contemporanee della scienza, sarà meglio identificare ciò di cui stiamo effettivamente parlando. Ancora una volta: l’evoluzione. Per l’effetto della capacità di sopravvivere, e quindi riprodursi, dettata in maniera particolarmente diretta nella presenza di alcuni tratti specifici dell’apparato boccale e digerente. Di certo, in questo caso la connessione non potrà che essere chiara: le tre specie viventi della famiglia Camelidae, incluso il nostro amico dromedario, hanno prosperato da tempo immemore presso zone dalle caratteristiche ambientali poco accoglienti. Il che, dal punto di vista della vegetazione, non significa necessariamente assenza totale, ma una forma e caratteristiche mirate a conservare, piuttosto che spendere l’umidità. Ovvero, assenza di foglie in senso tradizionale, troppo conduttive al processo di evaporazione, sostituite molto spesso dalla più utile tra tutte le alternative: quella mirata a proteggersi, grazie a innumerevoli piccole punte acuminate, dall’aggressione reiterata di chi vorrebbe usarle per trarne immediato nutrimento. Dunque se simili animali volevano esistere, avrebbero semplicemente DOVUTO imparare a mangiare spine. E così fu.
Per chi non avesse mai visto l’interno della bocca di un cammello et similia, lasciate che ve lo dica: fatelo adesso, e avrete gli incubi per tutta la settimana. È strano come una creatura che esternamente sembra configurarsi sulla base di cognizioni da noi già acquisite (“come un cavallo, tranne che…”) si riveli a uno studio successivo come un qualcosa di straordinariamente diverso, dal punto di vista morfologico, biologico e funzionale. Già, veniamo al punto: ogni centimetro dell’iniziale apparato digerente di questi animali, inclusa quella parte che deve occuparsi della masticazione, è nei fatti ricoperta da una serie di coni appuntititi di colore rosato, noti come papille. I quali sono composti, nella loro parte terminale, da un sottile strato di cheratina, nei fatti la stessa sostanza di cui sono composte le unghie umane. Il che gli permette non soltanto di proteggere la parte interna del cammello da eventuali e spiacevoli perforazioni, ma anche di manipolare letteralmente il bolo di cibo, frantumandolo e spingendolo senza intoppi fino al primo dei tre stomaci dell’animale (panzone, reticolo e caglio). Per comprendere quindi come possa avvenire la digestione di un simile pasto, dovete considerare che il nutrimento per gli erbivori non è un’attività momentanea, seguita da un lungo periodo di preparazione fino alla prossima caccia. Bensì un vero e proprio lavoro a tempo pieno: così che ogni singolo boccone viene masticato per lunghi, lunghissimi minuti, prima di venire ingurgitato attraverso la gola puntuta della creatura. Quindi una volta raggiunto lo stadio successivo, se ancora l’ammasso non risulta scorporabile per procedere verso il secondo stomaco, esso viene rigurgitato anche una pluralità di volte, per essere masticato e sminuzzato ancora. Così che una volta che il cibo procede, per così dire, oltre, esso è ormai una poltiglia irriconoscibile e del tutto priva di potenziali armamenti. Proprio questo è il segreto per il benessere leggendario del cammello: non fare un passo finché non sei sicuro. Ma una volta che l’hai fatto, percorri quella strada fino alla fine. La natura, prima o poi, non potrà che darti ragione.

Qualcuno ha detto “alieno xenomorfo”? Beh non siamo propriamente a quei livelli (manca la lingua mordace, che salta fuori come un serpente a molla) ma credo che in pochi, a conti fatti, sarebbero disposti a farsi mordere da un cammello.

Mangiare cose che nessun altro potrebbe mangiare, andare dove i mammiferi di simili dimensioni, normalmente, periscono in pochi giorni d’inedia, sete e sofferenza. Anche questi, sono strumenti favolosamente utili dal punto di vista ecologico: poiché permettono al cammello non tanto di occupare una specifica nicchia dell’ambiente; bensì di crearla, letteralmente, da nulla.
Un po’ come aspirerebbero a fare alcuni creativi in cerca di attenzione nel vasto mare del web, i quali tentano di masticare per sfida varie piante spinose trovate in giro. Ed a cui non può che sfuggire purtroppo, per ovvie e comprensibili ragioni, l’invidiabile successo ottenuto dal dromedario e il cammello. Volete qui una rassegna di piante spinose dal mondo? Aristida pungens, Panicum turgidum, Acacia tortilis, Launaea arborescens, Balanites aegyptiaca, Trichodesma zeylanicum, Euphorbia tannensis, Eruca sativa, Trifolium species, Brassica campestris… Ciascuna di esse, assieme a molte altre, hanno fatto parte  della dieta di questi animali, attraverso le peregrinazioni effettuate dalla loro specie in giro per migrazioni spontanee ed allevamenti da parte dei sempre interessati umani. Che cosa volete che sia, dinnanzi a questo, la massa fibrosa di un semplice fico d’India? Nient’altro che un gustoso dessert. Da consumare amabilmente, in bilico sugli splendenti confini di un più vasto e solitario desért.

Le papille appuntite del cammello sono un tratto biologico che si è sviluppato spontaneamente in specie animali molto diverse, come anche questa tartaruga verde di mare (Chelonia mydas) in cui hanno il compito di proteggere la padrona dai filamenti urticanti delle meduse, impedendo inoltre a quelle più piccole di scappare, una volta che le ha ingoiate in un sol boccone.

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