Seimila buchi nella valle del Pisco: nuova luce sul più misterioso dei monumenti precolombiani

Costituisce un ambito studiato in sociologia, il modo in cui i parlanti di un determinato sistema di comunicazione possono essere influenzati da quest’ultimo nell’elaborazione dei propri processi di ragionamento. Così i nativi delle lingue agglutinanti sono stereotipicamente predisposti ad un’impostazione tecnica, gli idiomi flessivi producono in media un maggior numero di poeti, quelli dalle caratteristiche isolanti si prestano a mestiere nella comunicazione internazionale con i propri vocabolari che tendono a diventare un territorio di scambio. Pensate, a tal proposito, all’inglese. Ciò che si tende ad apprendere quando ci si avvicina ad un contesto linguistico radicalmente differente dal nostro, come le regioni dell’Asia Orientale, è che anche la scrittura può avere un ruolo: sarebbe assai superficiale, a tal proposito, ignorare l’effetto nello sviluppo del cervello dimostrato dalla necessità di apprendere in modo mnemonico svariate migliaia d’ideogrammi fino al termine del proprio percorso educativo di secondo grado. Riesce molto più difficile, d’altronde, immaginare in che maniera potesse funzionare un contesto umano in cui l’annotazione di cifre o dati poteva avvenire soltanto mediane l’impiego di metodi che oggi chiameremmo di un tipo assolutamente non-convenzionale. Vedi l’utilizzo funzionale nell’ambito geografico andino e sudamericano, diffuso ancora nel sedicesimo secolo, del sofisticato sistema di nodi noto come quipu, istituzionalmente raccolto all’interno di ghirlande o collane destinate a risultare esclusivo appannaggio delle caste amministrativa e sacerdotale. Uno strumento i cui limiti non sono oggi del tutto noti, ma la cui declinazione forse più incredibilmente fuori misura fu scoperta per la prima volta 1933, grazie a una fotografia di Robert Shippee scattata nella valle peruviana di Pisco, non lontana dalla celebre piana di Nazca, destinata ad essere pubblicata sul National Geographic colpendo l’immaginazione di molti. Durante un’epoca per nulla casuale poiché successiva all’invenzione del volo a motore, necessario non soltanto al fine di ammirare, bensì persino rendersi conto dell’esistenza di una simile meraviglia dell’ingegneria primitiva. Fu questa l’introduzione alla coscienza collettiva dei moderni del cosiddetto Monte Sierpe alias Cerro Viruela. Con riferimento ad una “serpe” in quanto percorso da un sinuoso susseguirsi di precisamente reiterate modifiche antropogeniche al brullo paesaggio riservatogli dalla natura. Ed al “vaiolo” (viruela) poiché tali modifiche sono costituite, in parole povere, da buchi scavati e qualche volta rivestiti di mattoni del diametro di 1-2 metri e la profondità massima di 1 metro. Per la cui spiegazione innumerevoli teorie si sono susseguite nel corso dell’ultimo secolo. Ma che a dirimere in maniera potenzialmente risolutiva, giunge oggi un nuovo studio di archeologi dell’Università di Cambridge, coadiuvato dall’impiego di sistemi di approfondimento chimico e biologico del sostrato latente…

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Il dinosauro volante di Barling, triplano costruito per affondare una corazzata

Una tavola illustrata figura nella grande sala del Museo Nazionale Aerospaziale di Washington D.C, recante la dicitura “Copyright 1921, by The Chicago Tribune”. È un fumetto in cui un uomo in uniforme dal ponte di una nave ne osserva un’altra che affonda e si lamenta: “Un bersaglio stazionario e privo di difese, eppure guarda quanto ci hanno messo a bombardarlo!” Mentre nel secondo riquadro, un aviatore in volo risponde con doppia sottolineatura: “Si, ma noi l’abbiamo affondato, giusto?” Un semplice eufemismo, banalizzato e ironico, di quello che potremmo definire come un punto di svolta nella storia dei conflitti armati umani. Giacché per la prima volta era stato dimostrato come, nel campo della guerra su larga scala, il predominio aereo potesse battere quello dei mari, abbattendo essenzialmente l’ultima barriera rimasta nella costituzione di una branca delle Forze Armate dedicata a implementare questa specifico aspetto delle operazioni strategiche contemporanee. Ciascuna delle principali potenze nazionali nella prima parte del Novecento coltivò un significativo sforzo di ricerca o vari tipi di think tank finalizzato a dare forma al cambiamento, con diverse figure chiave incaricate di dar lustro all’idea. Compito rivestito principalmente, negli Stati Uniti, dal generale Billy Mitchell, eroe decorato della Grande Guerra famoso per i suoi difficili rapporti con i capi di stato maggiore, che l’avrebbero portato di fronte alla corte marziale nella seconda parte della sua carriera. Un’avversione la cui origine potrebbe essere rintracciata proprio nel frangente oggetto delle vignette del Tribune, verificatosi nel corso del Progetto B, prova tecnica da egli pianificata consistente nell’affondamento intenzionale della corazzata tedesca catturata SMS Ostfriesland, in un’operazione condotta all’inizio di quell’anno producendo risultati che potremmo definire al tempo stesso un successo e una delusione. La seconda, in modo particolare, derivante dall’allungamento dei tempi previsti, a fino a due giorni di laboriosi tentativi a largo di Virginia Beach in Florida, tanto che i detrattori della tesi di Mitchell ormai credevano sinceramente che l’impresa non potesse riuscire. E soprattutto per il modo in cui la stampa, in breve tempo, avrebbe ricevuto aggiornamenti dai superbi collaboratori del generale, trasformando l’episodio in un’opportunità di esporre le tensioni sussistenti tra i diversi capi militari del paese. Con il suo carisma e la dialettica ben collaudata, Mitchell riuscì tuttavia a ottenere una considerevole influenza da questa vittoria, soprattutto nella cerchia di determinati ambienti politici e organizzativi. Riuscendo a ricevere il via libera nella realizzazione di quella che per tanto tempo aveva costituito un’importante aspirazione di carriera: la costruzione di un primo esempio di bombardiere strategico, il tipo d’aereo concepito per raggiungere bersagli distanti, colpirli senza alcuna possibilità di salvezza, e quindi ritornare presso la sua base ben lontana dalle linee nemiche. Operazione destinata a rivelarsi, d’altro canto, molto più difficile di quanto prospettato…

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Gli spiriti divini che duellano nel cuore delle pietre più enigmatiche della Germania settentrionale

Percorrendo le importanti strade che costeggiano la densa foresta di Teutoburgo, il viaggiatore aveva l’abitudine di perdersi in profonde meditazioni sul significato e il ruolo della vita umana nelle grandi geometrie della natura. Così sospeso tra le vaste pianure della Renania-Vestfalia e l’ombroso regno di creature non del tutto conosciute, colui che camminava lungo il sentiero Hermannsweg, dal nome di un antico capo del popolo dei Cherusci, poteva solo in parte prepararsi allo spettacolo situato ad ergersi lungo il tragitto della propria introspezione procedurale: 13 alte pietre, alcune delle quali simili a colonne, in una regione per il resto priva di evidenti formazioni geologiche spinte verso l’alto dall’ignoto regno del sottosuolo. Affioramenti di arenaria chiamati Externsteine o Rupes Picarum (Pietre delle Gazze) che compongono un complesso megalitico, la cui origine del tutto naturale non può cancellare l’evidente contributo successivo di generazioni che decisero, per ragioni largamente ignote ma conformi alle diffuse propensioni umane, di chiamarlo sacro per la propria idea di culto religioso ultraterreno. Nella maniera largamente palese grazie alle alterazioni antropogeniche della pietra numero uno, chiamata Grottenfels, scavata e decorata in multiple maniere consistenti di una vera e propria cappella interna, con altare situato sotto un arco e bassorilievi risalenti ad un momento imprecisato dell’epoca Medievale. Tra cui il più esteso e interessante, chiamato Kreuzabnahmerelief (let. “Discesa dalla Croce”) raffigura in modo allegorico diverse figure, storiche ed angeliche, che depongono Cristo dopo la sua cruenta esecuzione. Tra cui quello che potrebbe essere il fariseo Nicodemo, le cui gambe cancellate dal tempo si sarebbero trovate accovacciate, o sedute, sopra uno strano oggetto a forma di “T” ricurvo, possibilmente parte di una sedia o albero di palma. Soltanto possibilmente, a dire di alcuni. Giacché dall’epoca del völkisch, il movimento etnicista creato dai Romantici tedeschi nel XIX secolo per diventare in seguito una delle colonne pseudo-culturali del partito hitleriano, in certi ambienti fu fatta sussistere l’idea che il sito di Externsteine potesse aver posseduto un significato anteriore strettamente interconnesso ad un particolare passaggio degli Annales regni Francorum, opera storiografica dell’ottavo secolo dedicata a raccontare le molte gesta e conquiste di Carlo Magno. Dove nel capitolo dedicato alla sanguinosa crociata contro i Sassoni, si legge di come il sovrano avesse impiegato ben due giorni per abbattere l’alta colonna sacra di quei popoli pagani, incontrata per caso nei pressi di Eresburg e identificata con il misterioso nome di Irminsul. Una sorta di idolo situato sopra un’alta pietra, collegata dagli antropologi a una raffigurazione germanica dell’albero norreno di Yggdrasill, ponte di collegamento tra i diversi piani dell’esistenza. Che qualcuno avrebbe in seguito associato, a torto o a ragione, alla forma dello strano piedistallo di Nicodemo…

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La leggenda delle pietre che ancoravano su vette caucasiche le code draconiche della Preistoria

Il mostro Illuyanka era una creatura della mitologia Ittita con caratteristiche serpentine, la cui storia è conosciuta grazie a tavolette cuneiformi ritrovate presso il sito archeologico di Hattusa e un’incisione parietale molto successiva a Malatya. Una sorta di serpente alato, simile ad un Leviatano, che venne affrontato dal dio delle tempeste, Teshub, con l’intenzione di proteggere il mondo dalla sua voracità senza fine. Sconfitto nonostante tutto dal mostro, l’immortale guerriero venne dunque privato degli occhi del cuore, rimanendo privo della possibilità di muovere di nuovo la sua guerra contro l’immane creatura. Meditando a questo punto vendetta, egli prese in moglie una donna terrestre, mettendo al mondo un figlio che avrà il nome Sarruma. Il quale crescendo, in base a una precisa profezia, si sarebbe innamorato e avrebbe preso in moglie la figlia del grande drago Illuyanka. Quindi su suggerimento di suo padre, il giorno del matrimonio costui chiese al suocero un particolare dono nuziale: gli occhi e il cuore di un dio, sconfitto tanti anni prima in un’epica tenzone. Ottenuto il proprio desiderio, ciò permise a Teshub di recuperare i propri organi, salendo nuovamente in cielo e riuscendo, in questo modo, a sconfiggere finalmente il mostro. Ma suo figlio sentendosi ingannato, non potendo tollerare il disonore dello stratagemma in cui era stato coinvolto, chiese ed ottenne a questo punto che anch’egli si togliesse la vita, ritornando in questo modo a dimorare nelle auguste sale ultramondane.
Passarono gli anni, che divennero millenni, finché il nome dell’antico Dio venne dimenticato. Quando presso il popolo di un altro lato della montagnosa striscia geografica nota come Caucaso iniziarono a comparire chiare attestazioni del ritorno di un’entità superna le cui mansioni comprendevano il controllo degli elementi. Vahagn o VahaknIl (“Coraggioso”) leggendario avversario del cosiddetto mostro di Van, drago sempiterno la cui dipartita e conseguente caduta sulla Terra avrebbe generato in seguito un cratere, destinato a diventare il grande lago omonimo in Turchia. Ma le cui scaglie e placche corazzate di pietra, venendo disperse in una pletora di traiettorie, assunsero la guisa di meteore o pietre celesti, che lungamente bersagliarono le lande oggi note come l’Armenia. Forse proprio per questo, molto prima della formazione di quel regno medievale, quando ancora le migrazioni delle genti indo-europee attendevano di assestarsi nella forma primordiale delle odierne Nazioni, tali genti caucasiche impararono a venerare macigni e monoliti, ovvero le tangibili ossa mineralizzate del mondo. Quella stessa materia prima utilizzata, in un lungo periodo a partire dall’Era Calcolitica (4.000 anni fa ca.) per la costruzione di ancestrali monumenti grosso modo coincidenti alla creazione di Stonehenge da parte dei Celti, e Göbekli Tepe nell’odierna Turchia adiacente. Chiamate per l’appunto Vishapakar, dalla parola in lingua armena che significa “drago” tali oggetti hanno lasciato sussistere in maniera parallela molte teorie non compatibili sulla loro effettiva funzione culturale. Almeno fino allo studio pubblicato all’inizio di settembre dai ricercatori Vahe Gurzadyan e Arsen Bobokhyan dell’Università di Yerevan, che ha scelto di sfruttare un approccio sorprendentemente raro nel campo dell’archeologia: l’analisi statistica di una moltitudine di reperti…

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