Lo strumento meccanico che permetteva ai cosmonauti di ritrovare la via di casa

Attraverso il circuito delle aste d’antiquariato, oggetti di ogni tipo, foggia e dimensione cambiano continuamente di proprietario. Alcuni di essi, trasformati in simboli del lusso o soprammobili pregiati, perdono il significato originale per cui erano stati costruiti. Per altri è impossibile, semplicemente perché la loro stessa essenza simboleggia un’Era, una particolare serie di circostanze o un’impresa estremamente significativa nella storia dell’umanità. Se poi l’ultimo recipiente di un particolare esempio di quest’ultimo frangente, per notevole fortuna collettiva, dovesse essere un divulgatore scientifico e/o tecnologico, potrebbe palesarsi l’opportunità di dare un senso al sentito dire collettivo. Plasmare e ottimizzare ciò che in molti pensavamo di conoscere. Ma l’estetica non sempre guida, in modo puntuale, ciò che si presume fino all’effettiva verità del passato. Famosa era l’immagine, nel caso specifico, di Konstantin Feoktistov, Alexey Leonov o Valentina Tereshkova ai comandi delle rispettive astronavi, durante il delicato processo di rientro nell’atmosfera terrestre; intenti ad osservare, con sguardo estremamente concentrato uno strumento, consistente nel mappamondo del nostro pianeta intento a ruotare con ritmo e rapidità variabile, mentre i numeri con le coordinate e la velocità di movimento cambiavano rapidamente sul pannello antistante. Si trattava, essenzialmente, di un rudimentale sistema di navigazione inventato e costruito per la prima volta nel 1964 per la missione Voskhod 1, capace d’indicare il nadir (posizione corrispondente sulla superficie) in un dato momento e durante l’intero processo di manovra orbitale, al fine di permettere al pilota di pianificare l’eventuale accensione manuale dei retrorazzi. Questo perché la dottrina spaziale sovietica, contrariamente a quella statunitense, prevedeva che la stragrande maggioranza degli input di manovra fossero pre-determinati al momento del lancio ed ottimizzati via radio dal controllo di terra. Benché i cosmonauti a bordo potessero e dovessero, occasionalmente, effettuare delle necessarie variazioni a causa d’imprevisti momentanei o significativi. Ed era su questo che verteva buona parte del loro lungo addestramento, incluso il capitolo concentrato sull’utilizzo del dispositivo INK (Индикатор Навигационный Космический – Indicatore di Navigazione Spaziale) successivamente soprannominato, in breve, “Globus”. Un oggetto leggendario sotto numerosi punti di vista, costituendo uno degli esempi maggiormente pratici e avanzati di un computer meccanico, ovvero privo di altra capacità di elaborazione dei dati che quella offerta da una serie di complessi ingranaggi, molti dei quali creati ed interconnessi da loro in maniera precedentemente e successivamente sconosciuta all’ingegneria moderna. Per la prima volta visibili grazie alla trattazione offerta dallo studioso di storia dell’informatica Ken Shiriff ed il suo collega e tecnico riparatore CuriousMarc, il cui video incuso poco sopra mostra la maniera in cui i due si sono applicati nel riparare un esemplare del suddetto dispositivo acquisito molto probabilmente a caro prezzo, ma con alcune ammaccature ed il cui elemento principale completamente aveva smesso completamente di effettuare la rotazione per cui era stato originariamente costruito. Un problema destinato ad essere risolto fortunatamente senza eccessive difficoltà, permettendo di mostrare nel contempo il contenuto della misteriosa scatola rettangolare di alluminio…

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L’enorme distruttore che costituisce il nucleo più potente mai osservato dall’uomo

Tentando di considerare quale sia la presenza di maggiori dimensioni che riesce a passare inosservata, le persone comuni tendono a vagliare insetti, piccoli mammiferi, presenze notturne come pipistrelli o gufi. Mentre gli astronomi rivolgono la mente a nubi gassose o pianeti raminghi, possibilmente liberati dalla presa gravitazionale della loro stella. Semplicemente esiste un ordine di luminosità e grandezza, oltre il quale non è facilmente immaginabile l’assenza di una presa di coscienza, per il tramite di annotazione sui diari condivisi della nostra memoria. Ma che dire, invece, di tutti quei casi in cui una cosa tende ad essere fraintesa? Come quando nel 1980, durante il Sondaggio Stellare del Cielo Meridionale del telescopio ESO in Cile, a un punto luminoso tra milioni venne attribuito il numero di serie J0529-4351, tale da porlo in mezzo al novero di una delle tante tra quelle che vengono comunemente dette stelle fisse dei cieli. Benché molti siano perfettamente coscienti della maniera in cui lo splendore di un corpo ardente possa dirsi la diretta risultanza di due fattori: potenza e distanza. Così che la prima possa essere, talvolta, sottovalutata per sbaglio. Stiamo parlando in altri termini della maniera in cui l’impiego della matematica computerizzata o meglio un tipo di ragionamento automatico su parametri regolarmente imposti possa, in determinate circostanze, condurre a conclusioni errate. O “piccoli” errori della portata di sette milioni di anni luce, ovvero 15.000 volte la distanza tra il nostro Sole e il pianeta Nettuno. Questa l’effettiva ampiezza, dunque, dell’alone circostante la “cosa” che possiamo conseguentemente definire straordinariamente distante ed in funzione di ciò, antica. In quanto altrimenti, non sarebbero ancora trascorsi i 12 miliardi di anni necessari affinché la sua presenza potesse rendersi visibile anche da questo particolare distretto dell’Universo. Due fattori a dire il vero non direttamente correlati quando si considera che siamo necessariamente innanzi al tipo di oggetto cosmico chiamato tradizionalmente quasar, fin da quando nel 1964 l’astrofisico Hong-Yee Chiu ebbe la necessità di riferirsi ad un qualcosa che era Quasi una Stella, ma non Proprio. Anni sarebbero trascorsi, conseguentemente, affinché l’utilizzo di strumenti d’analisi maggiormente avanzati permettessero di comprendere di cosa stavamo effettivamente parlando: il tipo di di orizzonte degli eventi, simile ad un letterale uragano galattico, che ruota attorno ad un buco nero supermassiccio o SMBH. Categoria entro cui la massa complessiva viene misurata normalmente in milioni o miliardi di volte la nostra insignificante stella o come in questo caso, oltre 500 trilioni (milioni di bilioni o 1 milione alla terza) tale entità specifica misura. O per usare un’altra metodologia internazionalmente beneamata molti, moltissimi campi da football americano. Abbastanza a dire il vero, da farne di gran lunga l’oggetto più potente mai osservato da occhi umani…

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Cosa farete quando la cometa diabolica sfiorerà con le sue corna l’orbita del pianeta Terra?

Che l’uomo antico amasse le metafore e la creazione di similitudini eleganti, mentre quello contemporaneo cerca soprattutto di coinvolgere ed intrappolare l’inconscio ad un livello quasi istintivo, è largamente desumibile dai rispettivi criteri utilizzati per denominare le diverse tipologie di corpi celesti. Laddove il primo, pensando alle costellazioni delle stelle fisse, decise d’identificarle con i termini di animali, figure mitologiche o i personaggi del suo canone di leggende. Mentre l’ennesima questione prettamente scientifica, relativa ad un’anomalia di media rilevanza nel comportamento di una cometa di corto periodo relativamente simile a quella di Halley, ha visto accumularsi nel corso degli ultimi mesi termini come diabolica, infernale, apocalittica ed esiziale. “Grande tre volte il monte Everest” o “Più vasta di un’intera città” Con continue menzioni di corna, braccia infuocate, scie minacciose… Nonché notazioni formalmente corrette, vedi quella relativa alle multiple esplosioni verificatosi nel corso dell’ultimo anno. Che vedendo accelerare ulteriormente il bolide denominato 12P/Pons–Brooks fino alla velocità di 65.000 chilometri orari, l’ha vista perfezionare ulteriormente la propria rotta dirigendosi con fare minaccioso all’indirizzo del pianeta Terra. Il che, approcciandosi alla questione da un punto di vista meramente statistico, non basterebbe in alcun modo a incrementare il senso di pericolo che incombe sulle nostre teste. Ma poiché un’aspetto della mente umana che accomuna sia gli antichi che i moderni, da che sussiste l’intenzione pratica di approfondire e studiare il mondo, è una capacità non particolarmente sviluppata d’interpretare istintivamente le probabilità inerenti, sarebbe irrealistico non menzionare come l’intento minatorio implicito sia effettivamente riuscito, almeno in parte, a centrare il punto.
C’è d’altronde più di un mero fattore estetico nel tratto distintivo il quale, di contro, caratterizza e connota questo ricorrente ospite del nostro cielo stellato, probabilmente notato per la prima volta nel quindicesimo secolo da astronomi cinesi ed italiani, per venire in seguito scoperta formalmente solo nel 1812 dal francese Jean-Louis Pons. E poi di nuovo, in modo autonomo, nel 1884 dall’americano William Robert Brooks che costituisce la seconda parte di quel nome scevro di ulteriori connotazioni. Diversamente dall’identificativo mediatico impiegato in epoca corrente, fatto derivare dalla caratteristica in questione, consistente in una doppia coda curvilinea parallela al senso di marcia, la cui forma e orientamento ha favorito l’invenzione ed utilizzo reiterato dell’associazione con il grande maligno. Non che mucche, capre o simili creature erbivore sarebbero state meno calzanti, se ancora a qualcuno fosse parso pratico indirizzare l’associazione poetica verso una proporzione più ottimistica e tranquillizzante. Benché un tentativo, per lo meno, sia stato fatto grazie all’evocazione da parte di un gruppo di scienziati e pubblicisti (difficile capire chi sia stato il primo) di un altro oggetto cosmico dall’iconica forma di un ferro di cavallo: l’astronave cinematografica del Millenium Falcon, istantaneamente riconoscibile per tutti i fan di Star Wars. Il che d’altronde offriva molti pochi appigli, per cominciare ad approcciarsi al tema dell’effettivo funzionamento e ragion d’essere di questa insolita cometa…

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Le alterne vicissitudini del cratere meteoritico meglio conservato al mondo

È sorprendente pensare come, nonostante i letterali milioni di anni prima che l’atmosfera assumesse le caratteristiche necessarie a far vaporizzare la stragrande maggioranza dei corpi estranei provenienti dal vuoto cosmico, fino al 1891 gli scienziati non fossero riusciti ad individuare un singolo impatto meteoritico pregresso sulla superficie dell’intero globo terrestre. Ed il modo in cui, affinché potessero riuscirci, sarebbero servite le circostanze pressoché perfetto di un singolo luogo d’impatto rimasto miracolosamente privo di vegetazione, processi d’erosione o precipitazioni eccessivamente intense. Laddove non sussiste alcuna possibilità, istintivamente, di fraintendere la forma e l’effettiva origine di questo buco largo 1,186 Km nel paesaggio situato ad ovest di Winslow, nel deserto settentrionale dell’Arizona. Il suo bordo preminente, che forma una barriera circolare contro il vento. La presenza di uno strato di terreno e rocce dal colore differente rispetto agli immediati dintorni. E ad un’analisi più approfondita, la sostanziale inversione dei sostrati geologici del sottosuolo, essendo stati rimescolati, per l’appunto, da un cataclisma di derivazione ragionevolmente chiara vecchio di “appena” 50.000 anni. Al punto da giustificare l’adozione del tutto informale, fin dalla sua inevitabile scoperta in era coloniale, del toponimo Meteor Crater. Eppure dopo l’originale parere positivo espresso dallo studioso di mineralogia Albert E. Foote, che aveva analizzato alcuni campioni raccolti in-situ, a novembre di quello stesso anno catartico si sarebbe palesato il contraddittorio di una figura maggiormente rinomata, quel Grove Karl Gilbert, capo del Servizio Geologico Statunitense, che concentrandosi sull’assenza di un campo magnetico dovuto alla presenza di grandi corpi metallici identificò il cratere come la risultanza di un evento vulcanico, analoghi a quelli ritenuti all’epoca come l’origine della particolare conformazione del suolo lunare (Ipotesi che paradossalmente, proprio egli stesso avrebbe in seguito smentito per quanto riguardava il nostro satellite notturno). Detto questo, come avviene in qualsiasi altro tipo di circostanza, non tutti si affrettarono a cambiare i propri preconcetti acquisiti. Uno dei quali, l’agente del Servizio Forestale Samuel Holsinger, si ritrovò a parlare casualmente nel 1903 con l’ingegnere minerario originario di Philadeplhia Daniel Moreau Barringer che aveva fatto la sua fortuna con la miniera di Pearce, nella contea di Cochise. Il quale al sentir parlare di una possibile ingente quantità di metalli utili al di sotto di un luogo isolato e privo di recinzioni pre-esistenti, approdò immediatamente sulle sponde di un’ambiziosa idea: acquisire dal governo i diritti di sfruttamento minerario dell’intera zona del Canyon Diablo incluso il cratere, cominciando a perseguire l’opportunità di riportare in superficie un tesoro. Peccato egli non potesse conoscere, come chiunque altro nella propria epoca, il tipico ed inevitabile destino di qualsiasi meteorite in grado di oltrepassare l’atmosfera terrestre…

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