Esiste all’insaputa di molti una precisa origine mitologica del popolo dell’Isola Verde, profondamente ispirata ai testi religiosi dell’epoca medievale. Redatto da una pluralità di autori dall’identità ignota, il Lebor Gabála Érenn (“Libro della Presa d’Irlanda”) narra dei sei gruppi di coloni che s’insediarono attraverso i secoli su questa terra, tra cui figurano i potenti Tuatha Dé Danann, druidi o stregoni destinati in seguito ad ascendere allo status primordiale di divinità pagane. Ma è la vicenda della quarta etnia in questa cronologia non del tutto verificabile, quella dei Fir Bolg, ad aver più lungamente colpito ed affascinato gli studiosi, grazie alla preponderanza di testimonianze archeologiche possibilmente riconducibili alla loro pregressa esistenza. Nel testo si narra dunque di questo popolo perseguitato a seguito della sconfitta dei predecessori Nemed ad opera degli agguerriti Fomori, e di come un gruppo sopravvissuto di appena 30 capi tribù fuggirono verso la Grecia, dove sarebbero rimasti per 230 anni fino a un’epoca grosso modo corrispondente a quella dell’Esodo Israelita. Per poi tornare finalmente alla loro nordica versione della Terra Promessa, che avrebbero nuovamente abitato suddividendola in cinque provincie. Ed in effetti molti sono i cathair o dún capaci di giungere ragionevolmente intatti fino ai nostri giorni, le loro fortezze circolari costruite principalmente con la tecnica dei muri a secco, da cui le disparate tribù avrebbero governato, non disdegnando di tanto in tanto di farsi la guerra. Ma c’è un luogo in particolare, situato sul bordo estremo di una tale civiltà a cavallo tra l’epoca del Bronzo e quella del Ferro, per cui aver partecipato direttamente a un conflitto sembra particolarmente improbabile. Chi avrebbe mai cercato di conquistare, d’altronde, l’isola costiera di Inishmore (antico irlandese: Árainn) erboso zoccolo calcareo formatasi nel Carbonifero, priva di particolari vantaggi paesaggistici o vantaggiose fonti d’irrigazione… Eppure sussistono ben pochi dubbi su come nel novero dei complessi militari in questione, nessuno raggiunga la grandezza, possenza e grandiosità monumentale di Dún Aonghasa dalla triplice cinta muraria che copre un territorio di ben sei ettari, la cui collocazione in cima a una scogliera situata a 100 metri sopra il mare è bastata a renderlo una delle mete turistiche più amate di tutto il paese, particolarmente tra le foto “da Instagram” in cui ci si avvicina con sprezzo del pericolo al ciglio del burrone, accantonando momentaneamente qualsivoglia remora o timore innato per le altezze vertiginose. Il che tende ad appiattire, tra i visitatori, la meditazione approfondita su un qualcosa che non può essere spiegato pienamente tramite l’approccio accademico che tende a trarre solide basi dalla convenzione…
popoli
Guide scanalate o rampe di lancio? Approccio alternativo all’arceria grazie all’impiego del solenarion
Giunte presso la fertile confluenza tra i fiumi Tigri e Khosr, le potenti armate bizantine di Eraclio si schierarono in maniera ordinata di fronte alle porte dell’antica capitale assira, Ninive. Diversamente dall’assedio subìto l’anno prima dalle spesse mura di Costantinopoli, il tipo di conflitto che ci aspettava in questo caso sarebbe stato dinamico, violento e considerevolmente più breve. Nessuno tra i membri della classe al comando dei Sasanidi, meno che mai lo Scià Cosroe II, soprannominato “il Vittorioso” si era mai aspettato che la guerra raggiungesse queste sacre sponde. Ed in effetti già giravano le voci, piene di astio e reticenza, in merito al presunto assassinio del sovrano per una cospirazione della sua corte. Già l’ultimo e più agguerrito dei contingenti persiani osservava i Romani d’Oriente, mentre assumevano la tipica disposizione a scacchiera, con gli arcieri pronti a bersagliare le svettanti merlature con i propri dardi appuntiti. Ma prima ancora che la guardia cittadina con limitati rifornimenti e munizioni potesse alzare i propri scudi, qualcosa di terribile si abbatté su di loro. Decine di soldati caddero trafitti da proiettili non visti e non uditi. I pochi fortunati in grado di sopravvivere, chinandosi a raccogliere le strane armi che li avevano raggiunti, non poterono far altro che restare basiti. Tra le loro mani, frecce lunghe circa un terzo di quelle normali. Che nessuno, in alcun modo, avrebbe mai potuto immaginare di lanciare nuovamente al nemico.
Più e più volte una simile scena si era ripetuta dall’inizio del VII secolo, con ben pochi superstiti a narrare la vicenda, nel corso dell’ultimo ventennio di sanguinose campagne militari tra i due vasti Imperi. Grazie all’uso di quella che divenne largamente nota come “l’arma segreta” delle ormai vetuste ed accerchiate legioni, pur essendo in senso concreto un mero ausilio all’utilizzo di uno degli implementi bellici più lungamente noti all’umanità. Il cui nome, solenarion dal greco σωλήν (tubo) e -άριον (piccolo) permetteva d’iniziare a sospettarne l’utilizzo. Per un’ipotesi immediatamente confermata, non appena si scorgeva in mano ai suoi effettivi utilizzatori. Coloro che agendo di concerto con la fanteria d’assalto, restavano in disparte, trasformando le truppe avversarie in un porcospino. Ecco dunque il tipico cecchino di quell’Alto Medioevo, con preparazione ed addestramento specifico, non incoccare più direttamente il proprio strale piumato, bensì disporlo in modo tattico all’interno di una mensola scanalata. Oggetto oblungo e attentamente preparato, da tenere con la mano destra tra l’indice ed il pollice mentre si tende la corda, come se l’intento fosse quello di scagliarlo all’indirizzo del bersaglio elettivo. Se non che al momento del rilascio, un apposito cordino avvolto alla mano possa permettergli di separarsi dalla propria anima sottodimensionata di cedro, pino o abete. Un po’ come l’involucro sabot degli odierni proiettili d’uranio impoverito impiegati nei carri armati. Con finalità molteplici ed in molti modi convergenti, che potremmo ritenere utili a qualificare tale approccio come antesignano e al tempo stesso erede del concetto prototipico di balestra. Da una direzione contrapposta a quella dell’inventore greco del mondo antico Ctesibio di Alessandria (III sec. a.C.) che aveva dato i natali al gastraphetes o “arco dello stomaco” macchina da guerra individuale caricata con una sorta di leva, il cui utilizzo richiedeva un posizionamento fisso e assai probabilmente, un qualche tipo di supporto per il grande peso. Ma in assenza dell’armonica plasticità del ferro purificato e modificato tramite l’impiego del carbonio, da usare come motore per il lancio del proiettili, simili implementi avevano più lati negativi che positivi. Dal che l’idea di separare gli immediati vantaggi dai problemi, arrivando ad un sistema che fosse al tempo stesso versatile, portatile e diabolicamente efficace nel proiettare minuscoli messaggi di morte verso coloro che gremivano la parte contrapposta della barricata…
Hundun senza occhi, bocca o un volto, principio alato dell’inconoscibile realtà immanente
La consultazione degli antichi testi letterari cinesi è un’attività capace di restituire grandi presupposti di conoscenza e cognizioni, anche quando, nell’assenza delle necessarie competenze linguistiche, si scelga di ricorrere a una traduzione verso un diverso idioma. Esiste tuttavia il caso di un testo specifico, le cui ricche illustrazioni tradizionali permettono un elevato grado di fruizione anche senza la conoscenza di un singolo ideogramma. Esso è lo Shanhai Jing (山海经) “Il Libro dei Monti e dei Mari” una sorta di enciclopedia compilata probabilmente per la prima volta attorno al IV secolo a.C, costituita da un catalogo degli animali, mostri e fenomeni naturali che caratterizzavano la Terra di Mezzo, ivi incluse le forme terrene di diverse divinità. Tra cui la più celebre resta probabilmente Nüwa o Nügua, donna creatrice con il corpo di serpente, lungamente venerata dall’antico popolo dei Miao. È tuttavia possibile, continuando a sfogliare quelle pagine, imbattersi in qualcosa capace di suscitare un immediato senso di perplessità e smarrimento, giungendo al cospetto di un’essere probabilmente tra le più bizzarre creature mitologiche di qualsiasi cultura, la cui stessa esistenza fu in effetti concepita come allegoria dell’inconoscibile principio dell’Esistenza. La creatura, identificata con il doppio nome di Hundun (混沌 – Caos) o Dijiang (帝江 – Sovrano del Flusso) era in effetti il nume tutelare di talune scuole ancestrali della filosofia Taoista, posizionandosi all’incontro tra elucubrazioni filosofiche sulla natura dell’esistenza ed il modo in cui taluni princìpi generativi, che oggi saremmo inclini a definire “evoluzione”, possono rendere manifeste le ideali verità inumane. Danzante, volante essere chimerico, dotato al tempo stesso di un corpo peloso dalla forma discoidale e sei zampe come un insetto, nonché quattro ali che battevano in maniera discontinua e imprevedibile, dando l’origine a dei movimenti irregolari capaci di assomigliare ad una mistica danza tra le nubi del Palazzo Celeste. La cui caratteristica fondamentale restava l’assenza di alcun tipo di organo necessario all’acquisizione della conoscenza, nonché una testa propriamente detta, così da rendere difficile la distinzione tra il dietro e il davanti. Con dimensioni imponenti probabilmente paragonabili a quelle di un drago, benché ciò non venisse esplicitamente specificato, il misterioso Hundun fluttuava dunque nello spazio interstiziale tra fenomenologia e significato, volendo alludere in maniera trascendente ad una delle primordiali consapevolezze identitarie della collettività terrena. Una sua analisi più approfondita, grazie alla comparsa in una serie di parabole sia letterarie che folkloristiche, avrebbe per certi versi occupato gli oltre due millenni a seguire…
La spietata lama di un popolo che non impiegò mai alcun tipo di metallo in battaglia
Verso la fine della decade del 1670, una bambina molto malata della città di Santa Fe in quella che allora aveva il nome di Nuova Spagna venne portata a pregare presso la chiesa costruita inizialmente dai Francescani che si erano stabiliti due terzi di secolo prima nei territori dell’area mesoamericana. Allora posta innanzi alla statua lignea della Madonna, una pregiata opera d’arte proveniente da Toledo, ricevette in una visione in cui quest’ultima gli apparve luminosa, avvisandola del pericolo imminente: “Entro pochi mesi, figlia mia, le genti del Pueblo si ribelleranno. Molti spagnoli verranno uccisi e le case del Signore date alla fiamme.” Nel 1680 tale profezia, immediatamente riferita al vescovo della città, si avverò portando a morti e devastazioni, finché la folla inferocita guidata dai capi dei villaggi non giunse alla capitale, avendo devastato ogni cosa proveniente dall’Europa incontrata sul proprio cammino. In quella stessa navata, dunque, un guerriero particolarmente alto ed imponente si avvicinò alla statua. E sollevando una pesante mazza seghettata, vibrò un colpo poderoso inteso a distruggere completamente l’icona della Vergine. Ma la sua inquietante mazza in legno e taglienti schegge di pietra, piuttosto che frantumarla, rimbalzò lasciandogli soltanto un segno obliquo sulla fronte, come una cicatrice. Tanto che anni dopo una sofferta pacificazione, dopo la riconquista degli spagnoli guidata dal governatore Diego de Vargas, essa sarebbe diventata nota come Nuestra Señora de la Macana, con riferimento all’arma lignea diventata simbolo dei popoli di quest’intera area geografica e non solo, essendo attestata anche tra i Maya dove prendeva il nome di hatz’ab o hadez’ab. Essendo declinata in molte differenti iterazioni, di cui la più famosa resta senza dubbio la cosiddetta “spada” dei popoli Mēxihcah, avendo un peso e modalità d’impiegò non così distanti, almeno in linea di principio, dal simbolo metallurgico della cavalleria europea. Ciò benché i materiali impiegati per l’iconica macuahuitl siano profondamente ed intrinsecamente condizionati dalle conoscenze tecnologiche di un ramo della civiltà umana in cui la lavorazione dei metalli, pur essendo conosciuta, trovava l’impiego unicamente nella costruzione di ornamenti ed oggetti sacri da impiegare nei rituali. Ragion per cui svariati millenni prima dell’inizio del colonialismo, si ritiene che l’antico popolo degli Olmechi avesse già posto le basi per questa sapiente applicazione dell’ingegno bellico, consistente nell’impiego del resistente legno di mesquite (Prosopis spp.) acacia (Vachellia farnesiana) o tepehuaje (Lysiloma acapulcense), arbusti ancora oggi celebri per la loro resistenza nella costruzione di un particolare tipo d’implemento d’offesa. Piatto ed allungato, in maniera non dissimile da un’odierna mazza da cricket, ma perforato in più punti al fine di permettere l’adesione mediante colle vegetali del principale tipo di lama in uso fin dall’età della pietra: un pezzo di pietra d’ossidiana sottoposto a scheggiatura fino all’ottenimento di un prisma. La cui capacità di taglio molecolare poteva avvicinarsi, in condizioni ideali, a quella di un bisturi in uso delle pratiche chirurgiche della medicina moderna…



