Torreggiante sopra il suolo diseguale del fondale, l’essere largo 90 cm cammina con incedere delicato, tastando con la lunga proboscide la superficie sabbiosa. Il corpo minuscolo, le zampe in proporzione enormi, come i nodosi rami di un albero stregato. Oppure volendo, gli arti di un camminatore alieno, uno di quei mezzi artificiali descritti originariamente nel dramma radiofonico della guerra dei mondi, contro cui le armi degli umani non avrebbero sortito alcun tipo di effetto. D’altra parte, la creatura sembra anche una versione alternativa del face-hugger xenomorfo, il mostro che saltando come un pupazzo a molla fuori dall’uovo, si attacca al volto di un esploratore disattento per immettere dentro all’esofago l’embrione dei suoi discendenti. In realtà è innocuo. Anno dopo anno, schiere di autori letterari, registi e altri creativi si sono industriati nell’inventare degli ambiti extraplanetari, dotati di ecologia o tecnologie completamente disconnesse da quella terrestri. Una mansione tutt’altro che semplice, quando si considera l’estrema biodiversità già presente dinnanzi ai nostri stessi occhi, grazie alla varietà d’ambienti presenti su questo azzurro e multiforme questo pianeta. “Un ragno resta un ragno in mezzo a una foresta, come nelle regioni più remote di un arido deserto.” Disse una volta qualcuno. Il che è perfettamente vero. Ma un ragno del profondo dell’oceano, è tutt’altro, perché appartiene in effetti alla famiglia dei pycnogonidi.
Qualcosa di simile, eppure diverso. Questi artropodi misteriosi, dalla classificazione tutt’ora incerta, dovrebbero in teoria derivare da una costola del gruppo dei chelicerati, il che li avvicina da un punto di vista genetico ad un’altra creatura acquatica apparentemente frutto della fantascienza, il limulo o horseshoe crab (Limulus polyphemus, grosso pseudo-insetto corazzato delle rive sabbiose, con coda rigida e appuntita). Pur non avendo una quantità di fossili sufficienti ad affermarlo con certezza, gli scienziati ritengono che in entrambi i casi si tratti di animali che hanno iniziato il proprio separato cammino dell’evoluzione attorno all’era del Cambriano (541–485.4 milioni di anni fa) sviluppando una serie di adattamenti utili a tornare a vivere sotto la superficie del mare. Primo fra tutti, quello di sintetizzare l’ossigeno direttamente attraverso la pelle, senza l’impiego dell’organo dei polmoni a libro, strumento respiratorio fondamentale per gli aracnidi di terra. Il che significa in parole povere che nel funzionamento morfologico dei nostri amici, è prevista la capacità di assorbire l’acqua ed estrarre da essa il gas che fornisce la vita, che viene quindi fatta circolare attraverso il corpo attraverso due sistemi distinti e paralleli. Il primo è l’emolinfa, una sostanza comune ai colleghi di terra e grosso modo analoga al nostro sangue, in loro pompata attraverso il corpo da un cuore straordinariamente piccolo ed inefficiente. E non è tutto: pensate che in alcune delle specie più piccole (1-2 mm) tale organo non è neppure presente. Questo perché i pycnogonidi, unici nell’intero regno animale, sono in grado di far muovere l’ossigeno attraverso il loro apparato digerente. I primi a scriverne estensivamente sono stati H. Arthur Woods e colleghi, proprio nello studio dello scorso 10 luglio Respiratory gut peristalsis by sea spiders, dove viene osservato come i moti muscolari dei condotti impiegati dai ragni per smaltire le sostanza nutritive assunte durante la loro costante ricerca di cibo fossero troppo energici e regolari, per risultare utili solamente alla digestione. La verità apparve dunque, finalmente evidente: costoro respirano, esattamente come noi mandiamo giù il pranzo e la cena. Esattamente, si fa per dire: in quanto la fonte principale, nel loro caso, ovvero la parte del corpo più grande attraverso cui viene lasciato permeare l’ossigeno, altro non sono che le loro lunghissime zampe. Ed è per questo che il movimento avviene dall’esterno verso l’intero, ovvero il corpo centrale e segmentato, talmente piccolo da contenere, sostanzialmente, i soli organi sensoriali e l’organo necessario ad assumere il cibo. Che può implicare, a seconda della specie presa in considerazione, una doppia tipologia di apparati: cheliceri (denti chitinosi ed aguzzi) e pedipalpi (piccoli arti specializzati) con corta proboscide oppure soltanto quest’ultima, ma molto più lunga, flessibile e articolata. Tutto dipende, ovviamente, da cosa mangi effettivamente la specie presa in esame. Generalmente si tratta creature immobili come spugne, briozoi o policaeti, poiché i ragni di mare non sono effettivamente di un’agilità sufficiente ad andare a caccia con efficienza. Fatto che non gli ha impedito, del resto, di colonizzare pressoché tutti gli oceani della Terra…
Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Caraibi, Mar Meditarraneo, il Circolo Polare Artico… Non c’è una singola distesa d’acqua salata di questo mondo che sia del tutto priva della silenziosa presenza dei ragni di mare. Ma la loro variante più celebre, nonostante l’esistenza in un luogo decisamente inospitale e remoto, è quella degli esemplari giganti osservati sui fondali dell’Antartide, lontano da qualsiasi terra emersa che non fosse un semplice strato di ghiaccio temporaneamente connesso alla fragile calotta in via di progressivo scioglimento. Creature grandi “come un piatto da portata” e per questo particolarmente amate dagli scienziati, perché più facili da sottoporre a vari tipi di esperimenti ed analizzare approfonditamente. Finalità largamente assolte, di questi tempi, dalla spedizione organizzata dall’Università delle Hawaii, sotto la guida di Amy Moran, professoressa a capo del laboratorio omonimo dedicato allo studio della biologia marina, nonché titolare del sito appropriatamente nominato GIANT SEA SPIDERS, dove vengono mostrate alcune delle caratteristiche e limitazioni di questi animali. Tra le procedure non propriamente gradevoli mostrate all’interno del video blog, quella finalizzata a verificare la loro capacità di sopportare una simulazione del progressivo riscaldamento terrestre, capovolgendo ripetutamente il ragno all’interno di un’acquario (con risposta tutt’altro che eccelsa) e il posizionamento di una gabbia sul fondale marino per un periodo di un anno con un paio di esemplari intrappolati all’interno, di cui uno reso parzialmente incapace di usare i suoi arti accessori definiti ovigeri, al fine di dimostrare l’importanza di questi nel rimuovere continuamente i parassiti epibionti (ipotesi dimostrata). Del resto, si sa, la scienza è così. Spietata. I ragni farebbero lo stesso con noi. Il che ci conduce, senza un attimo di esitazione, ad un altro aspetto importante della nostra analisi: quello riproduttivo. I pycnogonidi non sono affatto ermafroditi e presentano quindi entrambi i sessi, ciascuno dei quali dotato di un ruolo specifico nel momento successivo all’accoppiamento. Vuole la prassi, in effetti, che la femmina trasporti costantemente le proprie uova sul dorso, che una volta avvistate dal maschio, vengono inseminate dopo un breve rituale di approccio e corteggiamento. A quel punto, egli le preleva integralmente con gli ovigeri in questione, arti simili a corte zampe, portandoseli dietro nelle sue peregrinazioni fino al momento della schiusa. Le larve derivanti, quindi, potranno essere di vario tipo a seconda della specie: le protonymphon, ad esempio, nuotano libere andando in cerca di cibo. Mentre diverse alternative parassitarie, le incistate, vanno in cerca di una colonia di polipi affini a quelli del corallo, per insinuarsi al loro interno e formare un’entità invasiva che gli sottrarrà le sostanze nutritive, fino al raggiungimento dell’età adulta e la metamorfosi in un vero e proprio ragno. Di nuovo le somiglianze con gli orridi alieni della fantascienza tornano prepotentemente a farsi sentire.
Oltre ai giganteschi, dinoccolati esseri del Polo Sud, esiste comunque una notevole quantità di varianti dei ragni di mari, raccolti in dozzine di sottofamiglie e centinaia di genus distinti tra loro. Ve ne sono di sottili e dinoccolati, come lo Pseudopallene longicollis dei mari scandinavi, oppure di compatti e robusti, quali il Phoxichilidium femoratum dell’intera area atlantica situata tra la Groenlandia e la Francia. Altre varianti, sono persino più cosmopolite e diffuse di così.
Questa è la verità, dunque, l’inusitata, oscura presenza dei mari. Mi chiedo se eravate a conoscenza della loro esistenza… Se siete degli appassionati di immersioni, probabilmente si. O se guardate spesso i documentari. Mentre c’è ben poco che i ragni di mare possano fare, per influenzare la nostra comune, materialistica e luminosa vita di superficie. Creature in grado di riprodursi senza alcun limite di contesto, occupando una nicchia ecologica in zone mesolitorali dalla profondità tutt’altro che eccessiva, ma non per questo, particolarmente affollate. Fin dalla prima notte dei tempi, e fino alla prossima, che potrebbe anche essere l’ultima. Chissà!
Inconsapevole di come tutto questo li faccia sembrare, i mostruosi ma piccoli camminatori continuano la loro costante ricerca, affamati di cibo, assieme a un qualche tipo di mistica soddisfazione esistenziale. Essi non posseggono, tuttavia, il segreto della ragnatela subacquea, per catturare pesci e gamberi fluttuanti. Peccato. Ve l’immaginate, che cosa sarebbero riusciti a fare?
1 commento su “Perché ai ragni di mare non serve un cuore”