Un luogo dei sogni è il punto di transizione tra il mondo materiale e lo spazio dell’immaginazione, dove la fantasia sembra trovare una corrispondenza pratica ed interattiva, al di là di considerazioni implicite sul funzionamento e lo stato normalmente prevedibile delle circostanze latenti. In tal senso, per chi ha il compito di dare forma ai suoi pensieri, l’artista, lo scrittore, il costruttore architettonico, la labile membrana tra tali spazi contrapposti può essere rapidamente sollevata, prima che tutti gli unicorni, le chimere ed i grifoni possano tornare a disperdersi nella foresta. O addirittura fare un passo innanzi, ritrovandosi a esplorare in carne ed ossa quel particolare mondo. Fatto di… Poligoni sapientemente interconnessi. Forme semplici, traslate nello spazio pubblico di un accogliente piazzale a Guangzhou. O almeno questo è che ciò costituiva in origine, prima dell’intervento di Marcial Jesus con il suo studio situato a Shanghai di 100 Architects, realtà professionale specializzata nella messa in opera di luoghi all’aperto in cui adulti e bambini possano convergere, scoprendo con immediatezza quante cose abbiano (ancora) in comune. Così all’ingresso di una zona nello spazio residenziale, dall’appariscente pavimentazione blu cielo, figurano disegni a pattern ripetuto con quadrati e cerchi di uno schema iconico, in cui a distanze calibrate sorgono degli “alberi” del tutto artificiali. Costruiti, come gli altri arredi circostanti, con l’approccio e il materiale che danno il nome all’opera: Wired Scape. Laddove il wireframe costituiva in campo informatico un’antica tecnica particolarmente utilizzata nei videogiochi in cui schemi variopinti venivano mostrati da più angolazioni mediante il calcolo matematico dei vertici all’interno di uno spazio virtuale, anticipando le funzioni della grafica tridimensionale. Mentre nel presente caso, l’idea è interpretabile in maniera molto più letterale. Di tubi/fili che costituiscono nei fatti arrotolate chiome, cespugli sferoidali, ornamenti per gli scivoli che sembrano presi in prestito direttamente da un acquapark. I colori contrastanti e l’eleganza delle proporzioni riescono, intuitivamente, a fare il resto. E c’è qualcosa di surreale, quasi magico nella presenza di un’area-giochi simile all’interno di uno spazio urbano pesantemente cementificato. L’oasi di ristoro che recupera gli spazi dedicati al sentimento, pur restando l’esclusiva risultanza di gesti e soluzioni artificiali messe in opera esclusivamente dalla mano dell’uomo. Poiché chi, meglio di noi stessi, può comprendere su questo pianeta il concetto presumibilmente universale del “gioco”? L’esercizio della mente in grado di creare i presupposti per la crescita che resta ininterrotta ad ogni predisposta età della vita. Riuscendo a generare, spesse volte, nuovi eclettici distretti della mente…
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L’Ilyushin Il-20, dissennata idea sovietica di posizionare il pilota sopra il motore
C’è sempre un momento, nella vita di un progettista aeronautico, in cui la linea ideale della spinta innovatrice e quella garantita dalla conoscenza dei modelli sembrano convergere in un punto estremo, eccezionalmente distante dalle convenzioni coéve. Spesse volte, questo accade in un momento prossimo alla fine della carriera, quando ormai i membri delle successive generazioni sono subentrati nella posizione di preminenza un tempo occupata dai loro maestri. Ma particolari circostanze, situazioni contingenti o necessità percepite possono contribuire ad accelerare il tragitto delle persone. Nel 1948, il rinomato costruttore di aeroplani Sergey Ilyushin era una di queste persone. Ero del Lavoro, detentore di svariate medaglie d’onore nonché due volte vincitore del premio Stalin, in modo particolare per aver creato tra le altre cose l’eccezionalmente utile aereo d’attacco al suolo Il-2 Sturmovik dal grande carico esplosivo e le molte bocche da fuoco, che lo stesso leader sovietico aveva chiamato “Essenziale per gli sforzi dell’Armata Rossa, quanto lo sono il pane, l’aria o l’acqua.” E chiamato sul finire della Grande Guerra Patriottica a creare un’iterazione alternativa della stessa idea: il più leggero ed agile Il-1/Il-2l, una versione più leggera e meno armata di quello che sarebbe stato soprannominato il carro armato volante, idealmente utile ad intercettare le formazioni di bombardieri nemici. Mansione nella quale si rivelò essere, in ultima analisi, meno efficiente dell’allestimento di partenza, e che avrebbe visto in seguito deviare l’attenzione del bureau di Ilyushin verso il progetto Il-10, una versione più veloce, maneggevole nonché resistente di quel grande classico dei giorni del conflitto europeo. Su decreto governativo dell’11 marzo 1947, tuttavia, venne determinato che fosse possibile andare oltre, costruire un qualcosa di persino superiore su questi tre punti che costituivano la filosofia progettuale di una classe di velivoli considerati nulla meno che fondamentali nella dottrina militare del tempo. Il risultato sarebbe stato, sotto l’occhio incredulo di molti, l’Il-20 soprannominato Gorbach (il Gobbo). Ecco un volto, per usare un tipico modo di dire, che soltanto il proprio padre costruttore avrebbe potuto amare, concepito in senso meramente utilitaristico e la piena consapevolezza che non sempre il senso comune potesse custodire l’effettiva soluzione dei problemi pratici latenti. Questioni come quella data per scontata fino a quel momento, secondo cui giammai un pilota posto nella posizione tipica avrebbe potuto avere una visibilità ideale per poter vedere ed identificare i bersagli nemici prima d’iniziare il fatidico momento della picchiata finale…
La variopinta parabola pacifista del Mig coperto di perline sudafricane
Un silenzio quasi reverenziale calò nel capannone di Johannesburg, temporaneamente adibito ad hangar pur trovandosi distante da qualsiasi pista di manovra, decollo o atterraggio. Le due dozzine di persone venute a vedere il frutto di tanto lavoro e dedizione da parte dei loro parenti ed amici artigiani guardavano con senso d’aspettativa l’artista di fama internazionale, ritornato temporaneamente in patria dalla propria residenza londinese. Erano le prove generali, d’altronde, di un punto di svolta topico nella comunicazione a sfondo pacifista veicolata tramite uno stile comunicativo prettamente rappresentativo del più antico dei continenti: l’Africa. E poco importava, in quel contesto, che a idearlo fosse stato un individuo di etnia caucasica, quello stesso Ralph Ziman che potreste già conoscere per il premiato film Jerusalema (2008) ambientato tra i capi criminali che gestirono per lunghe decadi le proprietà immobiliari del quartiere di Hillbrow, in quella stessa vasta città, terza più grande del paese. Un uomo nato nel 1963 e che pur avendo vissuto l’apartheid dalla parte favorita, né restò segnato al punto da decidere di trasferirsi altrove, essendosi necessariamente arreso alle ingiustizie di un sistema che non voleva riconoscere né consentire l’eguaglianza tra i popoli nativi e i detentori degli ingiusti privilegi. Regista, fotografo, comunicatore e adesso…
Le luci si accendono all’unisono, il suono indistinto della collettività che prende fiato. Un telo viene tolto dall’oggetto voluminoso che si rivela essere, colmando le aspettative dei presenti, un vero e proprio jet da guerra supersonico Mikoyan-Gurevich MiG-21. 14,77 metri di lunghezza per 7,16 di apertura alare, ma completamente ricoperto di quelle che in molti dubiterebbero in prima battuta essere (non conoscendo i precedenti) delle sfavillanti perline, dalla contrastante disposizione geometrica verde, rossa, gialla, blu ed arancione… Proprio come il jingosha e gli altri ornamenti dei capi delle tribù dei Thembu, successivamente al XVI secolo adottato grazie alle importazioni come uno status symbol da una significativa parte dei popoli della parte meridionale del continente. Ma qui trasferito a dimensioni largamente più impressionanti, mantenendo le soddisfacenti fantasie di rombi, linee diagonali e rettangoli, perfettamente incorporati nelle linee dell’aereo da combattimento. Che già molti anni prima di quel fatidico momento, aveva smesso di sparare per sempre. Ed oramai non l’avrebbe più fatto. Se soltanto si potesse dire lo stesso degli altri 11.495 assemblati lungo l’intero periodo della guerra fredda…
Disegni arcani e lamine sottili come parametri del costruttore di esigui universi
Non tutte le uova vengono deposte, da uccelli, squali o scaltri ornitorinchi poco fuori i fiumi dove cercano costantemente dei segnali labili di prede da fagocitare con il proprio becco. Pochi giorni fa, presso Mountain View, California, il campus del tentacolare Google si è svegliato alla presenza di un nuovo, impressionante orpello. Potenzialmente iscrivibile nella forma di una sfera, perforato in modo da lasciar passare il vento. Alto una decina di metri, ed in realtà composto dall’esperta mano dell’uomo dalla congiunzione di 6.441 pezzi, uniti assieme tramite l’impiego di 217.847 rivetti. Eppur leggiadro come un velo, fino al punto d’esser quasi “trasparente” visto l’utilizzo pressoché esclusivo di lamine d’alluminio attentamente formate, non più spesse di 3 mm. E sia chiaro che con il riferimento alla specie umana, non intendo che siamo dinnanzi all’opera comune di coloro che riempiono e soverchiano gli spazi del consorzio contemporaneo, così come il macrogamete appartiene ai metazoi. Trovandoci al cospetto del lavoro di una figura professionale alquanto singolare, di architetto che ha saputo percorrere la via dell’arte moderna, tramite l’impiego di una tecnica di sua particolare concezione. Il nido appartiene all’aquila in effetti, come il calcolo parametrico è appannaggio di Marc Fornes, alias THEVERYMANY, perché “Comprendere la natura significa scorporarla nei suoi plurimi elementi. Ed assieme alla squadra dei propri affiatati collaboratori, ricostruirla in termini utili a posizionarla sopra il piedistallo delle cognizioni sensoriale occorse.”
Perdersi è piuttosto semplice, a questo punto, nelle forme sovrapposte e interconnesse di un’opera come l’ultima Orb (Sfera) ma anche le innumerevoli creazioni precedenti, di un artista eccezionalmente prolifico anche grazie agli specifici vantaggi concessi dal suo modus operandi. Famosamente esposto in una conferenza per l’associazione TED, in cui profonde elucubrazioni tecnologiche offrivano il tipo di quadro generalmente avulso alla cognizione tradizionale della creatività: non-disegno, non-progetto, non-brainstorming o altro metodo stereotipicamente connesso ai processi di chi vuol far conoscere il prezioso contenuto della sua mente. Bensì l’applicazione di programmi (presumibilmente) proprietari all’interno dello spettro computerizzato, per portare alle più spettacolari conseguenze quel concetto che egli stesso definisce la “doppia curvatura”, potenziamento frattale della cognizione di un arco. Reiterato in molteplici ed interconnesse configurazioni, fino alla creazione di un risultato finale che sia al tempo stesso attraente ed il massimo della funzionalità strutturale. Un prototipo, letteralmente, di quello che potrebbe anche rappresentare l’indomani degli spazi abitativi. Sebbene Fornes abbia più volte affermato di non voler essere considerato il tipo di architetto che lavora su elementi vaporosi ed aleatori. Quanto piuttosto il produttore di un discorso tecnico di per se stesso finito ed utile a se stesso. La creazione di una mente fervida, alle prese con strumenti eccezionali di sua pratica ed innovativa produzione. L’ultimo anello iterativo, in altri termini, di un possibile progresso autogestito in cui si torna entro i confini di una mente scevra da interessi o contaminazioni esterne…