Perché la prima regola del tank club resta: non installare i cingoli alla postazione di gioco

Videogames are weird, man! Chiunque abbia sperimentato la gloria dell’eclettico MMO pseudo-simulativo, parzialmente strategico, assolutamente randomico e spesso non causale World of Tanks all’apice degli anni 2010, indipendentemente dalla propria nazionalità, dispone per osmosi al minimo di un breve frasario con prestiti delle lingue dell’Est Europa. La reiterata esclamazione polacca kurwa usato tanto spesso in questo gioco del Belarus, riferita al comportamento presumibilmente non conforme di un partecipante alla battaglia digitale, oppure l’educato moin moin dell’alto tedesco frisone, equivalente grosso modo ad “buon giorno” italiano. E poi l’occasionale, ben più raro cyka blyat (Сука блять) usato nei momenti di maggiore irritazione, principalmente in funzione del fatto che la Federazione Russa, all’epoca come ancora adesso, disponeva di un server dedicato soltanto ai suoi abitanti, probabilmente tra i maggiori contributori economici del più antologico tra i freemium games. Ed era tutto un po’ poetico, un po’ surreale, perché dopo tutto tendevamo a tralasciare il tipo d’atmosfera che gravava in quel contesto, la maniera in cui i cultori di determinate ideologie tendevano ad interpretare i mezzi da guerra della seconda guerra mondiale, costruendo fantasie ponderose tra i conflitti di paesi che, in un modo o nell’altro, riuscivano a coesistere senza ri-definire in maniera inerentemente problematica il proprio “legittimo spazio vitale”. Internet stessa vedeva la Russia dei giovani d’oggi come un luogo atipico al pari del Giappone o della Corea del Sud, con le proprie usanze qualche volta incomprensibili e dove la vita non era sempre piacevole, ma che offriva un contributo interessante all’omogeneità della cultura pop del post-moderno, non più oriundo e non più settorializzato in base alle nazioni del medio Novecento. Così cliccavamo e quelle munizioni (gratis o pagate a suon di valuta “gold”, nel caso di coloro che cercavano la strada più breve) bucavano quell’armatura di reputazioni ereditate e presunta diffidenza, ben prima che operazioni speciali potessero spazzare via le decadi di ore e gioie condivise contro le difficoltà di un vero e proprio casinò dei corazzati virtuali, senza una sola vittima restasse offesa nella propria forma fisica di un campo di battaglia senza sostanza né conseguenze.
Eppure quante volte, ce lo siamo chiesto? Se premere un bottone avesse avuto un prezzo, invece che far muovere soltanto pixel sullo schermo? Se la scienza aptica della trasmissione di un ritorno di forza, così come avviene nei simulatori di guida e anche di volo, almeno prima che la guerra dei brevetti avesse chiuso quel divertimento in una cassaforte assieme al plutonio. Se caricare un colpo nella culatta del cannone comportasse scuotere una bottiglia da un litro e mezzo di Sprite, prima di premere a gran forza con entrambe le mani. Preparandosi a imprecare in quella lingua sconosciuta, eppure al tempo stesso così dannatamente familiare

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A me lo scheletro dell’Universo, disse il meccanismo dell’orologio

“Basta complicazioni!” Sulle argute vette dell’ignoranza, oltre le incolte valli della sapienza, il saggio si rivolse all’Infinito, lamentando il fondamentale fallimento dell’uomo. Le incomprensibili rivoluzioni degli astri. L’inarrestabile entropia dei momenti. “Ogni teorema, qualsiasi calcolo è del tutto vano. Manca la stasi in essere nella natura. Tutto scorre.” Come sarebbe mai possibile nello stato dei fatti vigente, cristallizzare il cambiamento… Così MAI disse il Dio demiurgo, o supremo essere creatore di conflitti, quando mise in moto la perpetua concatenazione delle cause ed effetti. E neppure, all’interno del proprio laboratorio, colui che impugna pinze per piegare molle negli alloggiamenti appropriati. Il praticante delle tecniche dell’orologio, la piccola macchina che come nel ripetersi di un disegno frattale, prende quella grande, per ridurla in termini del tutto incamerabili all’interno di un singolo sguardo. Ma “grande” e “piccolo”, se noi vogliamo, costituiscono dei termini del tutto relativi. Il che permette a pieno titolo di rimanere affascinati, colpiti, persino storditi dalla perizia cui hanno dato forma, nel lungo periodo di oltre 12 anni, la visione e l’ambizione di un uomo. Assieme a molti pagamenti, verso un marchio che voleva vivere o trionfare unicamente sulla forza delle proprie opere create su commissione. Mark Frank è il nome di quel mecenate, imprenditore immobiliare della zona di Chicago, nonché collezionista (e venditore) di orologi storici, moderni, contemporanei. La cui casa è un incubo dai molti ticchettii, per chi è dannato da un’udito ahimé troppo sensibile, ma anche il sogno di chi ama le macchine e vederle costantemente in funzione. Un principio se vogliamo che si trova pienamente realizzato, più che mai prima d’allora nella storia di quest’uomo ed innumerevoli altri, nella sua grande opera e fondamentale dono all’indivisa collettività pulsante; un’opera che prende per l’appunto il nome di Astro Skeleton Clock, dal peso di 300 Kg e dimensioni paragonabili al busto di un’intera persona. Poiché tre, erano i concetti cardine anteposti agli altri nel proporre la creazione del progetto, al costruttore australiano di Chelmsford (Bowral) noto alle cronache unicamente con l’appellativo familiare e marchio di Buchanan: dimensioni, movimento e complessità. Sostanzialmente i singoli pilastri più importanti di qualsiasi orologio. Per creare il magistrale segnatempo più complesso di ogni altro (o quanto meno, la maggior parte?) Tecnologia analogica ingegnerizzata fino alle sue più estreme conseguenze. Questo è l’oggetto, difficile negarlo, più improbabile ed impressionante dell’intera sezione orologistica di YouTube…

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L’attrazione vietnamita del Sukhoi che ha ricevuto l’anima di un motoscafo

Guerra non è sempre o necessariamente il conflitto insanguinato tra ordini o visioni differenti del mondo. Talvolta contrappore la necessità di alcuni e le distinte preferenze operative vuole dir mettere in campo armi, mezzi e sistemi per combattere, al solo fine di mostrare la capacità di farlo. Le forme in più di un caso iconiche create dal bisogno dei paesi alla conservazione della propria identità circostanziale, più che mera e insussistente apparenza. Allorché scrambles (decolla in gran carriera) il demone dalle ali a freccia e il doppio impennaggio di coda, la riconoscibile livrea mimetica nei confronti del cielo, allorché si erge nel futuro prossimo l’eminente occorrenza di quel rombo e quel potere… Dei cieli. Ma se l’elemento dell’etereo è irraggiungibile, così come può capitare in molte circostanze per la gente comune, allorché occorre andare in cerca di una valida sostituzione. E non c’è aria (secondaria) più calzante della mera acqua (bagnata) che costituisce l’intricata ragnatela idrografica di un luogo come questo. Dong Thap, Long An, delta del Mekong. Parte sita in prossimità dell’estrema punta meridionale della penisola, ove spostarsi su uno scafo è l’effettiva equivalenza di una doppia coppia di pneumatici nella stragrande maggioranza delle democrazie automobilistiche d’Occidente. Con la significativa differenza che qui non è la rete dei trasporti ad aver dettato la forma dell’agglomerato, bensì l’esatto opposto (e di che grandezza stiamo parlando? 1,8 milioni di persone in un’area poco superiore ai 3 Km) così come capisce molto bene Hoàng Thanh, il titolare, direttore e probabilmente erede di un particolare tipo di realtà aziendale. Costruttore su misura di piccoli motoscafi ad uso personale; difficile immaginare un ambito più vietnamita di questo. Con una certa indiscutibile passione per la rule of cool, quell’ideale estetico contemporaneo mirato alla riproduzione, ogni qual volta si renda possibile, del parco veicoli capace di ottimizzare o difendere il pianeta umano. Come per l’appunto, il Sukhoi Su-35 alias Flanker-E direttamente dagli hangar più avanzati del famoso bureau di Begovoj, zona settentrionale di Mosca. Che poi non sarebbe in condizioni normali un idrovolante, ma d’altronde qui non è neppure volante. Bensì l’unione soprattutto pratica e sapiente di un diversificato cumulo di rottami, parti di altri battelli, l’immancabile legno di balsa tagliato a misura ed un plurimo quanto accurato strato di doppia verniciatura impermeabilizzante. Il tutto tenuto assieme con quella che la descrizione al video chiama “colla a caldo” benché non sia del tutto chiaro a quale prodotto l’autore stia facendo riferimento. Almeno non quanto il suo numero di telefono e la promessa di accettare ordini per un’opera del tutto simile, alla modica cifra di 90 milioni (di Dong) – 3.640 dollari. Al tempo stesso una cifra importante, ma anche molto meno di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi…

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Metallo che ruggisce tra i radiocomandi nati sotto il segno del cataclisma

L’arte all’epoca di Internet non ha le regole e non ha la progressione tipica di alcun ambito accademico o struttura formalmente incaricata di commentarla. Il che significa, in parole povere, che l’iniziativa autogestita di un appassionato può vantare esattamente lo stesso potere mediatico del pluripremiato rappresentante di una scuola o discendenza professionalmente affermata, grazie al plebiscito popolare, idealmente autonomo, dei suoi lavori giudicati degni dalle moltitudini indivise. Un processo con diversi aspetti negativi, vedi il modo in cui preclude un piedistallo a chi persegua metodi o messaggi non del tutto palesi; ma garantisce, se non altro, la maggiore visibilità di colui o coloro che dimostrano capacità tecniche, in determinati ambiti, al di sopra della media umana. Settori presumibilmente inesplorati in precedenza dal senso comune, come quello di creare automobili o motociclette con radiocomando che ospitano veri e propri animatronic esuberanti, autonomi, vivaci nelle presumibili aspirazioni ed espressioni evidenti. Rappresentazioni fuoriuscite dalla mente di un creativo come l’australiano Danny Huynh, famoso ormai da 10 anni per la propria interpretazione estremamente personale di cosa possa rappresentare un mezzo di trasporto in scala, completato da piloti tanto riconoscibili quanto stupefacenti, nel nuovo e incomparabile contesto d’appartenenza. Così emerge per esempio, verso l’inizio dello scorso mese, la sua ultima creazione di una hot-rod con il motore esposto e la carlinga a forma di sigaro, ove campeggia prepotente la Union Jack, ai cui comandi appare il personaggio e macabra mascotte del gruppo inglese degli Iron Maiden, Eddie the Head, con cappello e occhiali da aviatore, quella che sembra una tuta di volo strappata in più punti. E alle sue spalle, schiena contro schiena, il “gemello” con un grosso sigaro stretto in bocca, intento ad armeggiare con una mitragliatrice a canne rotanti. Il che sarebbe già abbastanza notevole, anche senza prendere atto di come i due si muovano in modo realistico, inclinandosi nelle curve del breve video dimostrativo, puntando in giro l’arma mentre i cilindri rotativi del motore esposto paiono imitare la doppia elica di un ipotetico Avro Lancaster o la mitica fortezza volante B-17. Espressione, se vogliamo, maggiormente valida della rule of cool, potente linea guida del mondo immaginifico contemporaneo, ove dovrebbe essere l’innato senso della meraviglia e iniziativa immaginifica del fruitore, a crearne conseguentemente un contesto. Approccio, quest’ultimo, davvero molto valido a comprendere il potere comunicativo delle opere di un tanto eclettico autore, sia magnifiche che terribili, al tempo stesso impressionanti e volutamente rimediate nel proprio aspetto derelitto e “vissuto”…

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