Cemento e pietra: la scala surreale che serpeggia oltre una diga in Portogallo

Ci sono luoghi, esistono paesaggi nella nostra cara vecchia Europa che paiono evocare stati d’animo profondi, allontanare ogni pensiero logico e trasportare il corso del pensiero verso lidi remoti. Come quello della fiaba tipica della regione di Douro in Portogallo, dove si diceva che sopra l’omonimo fiume svettasse l’ombra di un dirupo. Lungo la parete del quale, scrutando con sufficiente attenzione, era possibile scorgere le tracce di una caverna in cui, avendo perso interesse per ogni aspetto della vita mondana, aveva optato di stabilirsi un sovrano moresco assieme a sua figlia, immortalata nella tradizione folkloristica con il nome di Dona Mirra. Il cui padre stregone, in base alle regole del misterioso mondo d’Oriente, aveva scelto di operare un profondo mutamento nella suddetta formazione rocciosa, in modo tale che durante il giorno si presentasse soltanto come una stretta ed insignificante apertura. Mentre la notte si spalancava, permettendo alla beneamata principessa di scrutare nella valle ed ammirare lo splendore dell’astro lunare. E se qualcuno, scioccamente, avesse mai tentato d’introdursi in tale residenza per impadronirsi dei preziosi tesori di famiglia, la roccia si sarebbe chiusa su di lui, schiacciandolo come un insetto che tentava di oltrepassare lo stipite di una finestra. Naturalmente, l’effettivo aspetto verificabile della vicenda è per lo più improbabile. Le grandi opere materiali costruite dall’uomo, per quanto attraverso l’utilizzo di un potere superno, tendono ad essere del tutto permanenti attraverso il procedere dei secoli a venire. Così come l’alta struttura dell’antistante diga sul fiume Varosa, i cui primi progetti risalgono addirittura al 1899.
Una barriera dall’aspetto alquanto normale, finché la si guarda dalla parte del suo bacino, rispondente ai crismi ragionevoli di una funzionale centrale idroelettrica ad arco, capace di generare l’energia di 24,7 MW. Coi suoi 76 metri d’altezza sopra la valle antistante e 213 di lunghezza complessivi, rispondenti a 81.000 metri quadri di volume occupato dal suo terrapieno ricoperto dalle solide pareti di cemento. Perché è soltanto nel momento in cui la nostra prospettiva dovesse spostarsi all’altro lato, qualora non fosse stata già quella la direzione da cui ci siamo avvicinati al sito, che compare nella nostra percezione il singolare aspetto maggiormente distintivo di una simile struttura. Situato sul lato sinistro, in opposizione allo scivolo convenzionale per la fuoriuscita dell’acqua in eccesso, come la struttura totalmente fuori dal contesto di una letterale dimensione alternativa. Scale che s’inseguono, salendo obliquamente, tra un dedalo di escheriane terrazze, cromaticamente riconducibili alla colorazione chiazzata che fu lungamente un crimsa visuale del Brutalismo. Corrente architettonica probabilmente assai lontana dal pensiero di chi giunse a costruire tale inusitato apparato infrastruttura verso la metà del secolo scorso, con l’obiettivo dichiarato di poter garantire un pratico sentiero d’accesso alla manutenzione della diga stessa. Senza rendersi effettivamente conto, o forse rimanendo del tutto cosciente, di aver creato a tutti gli effetti la versione iberica del celebre accesso alla città sacra degli Incas, Machu Picchu tra la nebbia delle alte montagne peruviane. Ancorché priva, dal punto di vista comparativo, delle stesse ragionevoli strutture a sostegno della sicurezza per eventuali ed imprudenti turisti…

La vista della diga di Varosa sarebbe già abbastanza notevole, anche senza entrare nel merito della sua improbabile scalinata. La cui sperimentazione di seconda mano è purtroppo mancante su Internet, per ovvie ragioni di sicurezza.

Il che risulta di suo conto pienamente compatibile con il severo divieto d’accesso categorico all’estendersi dell’inaspettata attrazione, pena l’inevitabile e significativo rischio di ritrovarsi a mettere un piede in fallo. Per iniziare una caduta che neppure l’antica personificazione del Dio del fiume Douro in persona, rappresentato all’epoca dei Lusitani e Celtiberi con una rete da pesca, sarebbe mai potuto riuscire ad arrestare. Per un’ancor più legittima preoccupazione al tempo dei moderni, come esemplificato dalle numerose norme sui cartelli di divieto messi in opera dalla compagnia elettrica EDP, proprietaria della centrale idroelettrica assieme a diverse altre su entrambi i lati del confine tra Spagna e Portogallo. Tutte facenti capo, grazie all’impiego di un sofisticato sistema di controllo remoto, alla stazione di comando presso la diga di Bagaùste, essa stessa interconnessa dal punto di vista idrico tramite il complesso sistema degli affluenti del corso d’acqua principale. Di cui il Varosa è uno tra i tanti, benché certamente significativo per un dislivello maggiore della media e perciò valido alla sua funzione pratica nel contesto dell’ingegneria infrastrutturale moderna. Non che possa essere del resto biasimata l’impressione di taluni visitatori presentata online, pronta a definire il sito erroneamente abbandonato causa la mancanza di personale visibile ed il luogo remoto della sua collocazione, raggiungibile soltanto tramite un complesso dedalo di strade provinciali zig-zaganti in mezzo alla campagna ad est della città di Porto. Oltre il villaggio di Valdigem e l’antica piccola città di Lamego, famosa per i suoi edifici religiosi costruiti dai monaci cistercensi, le cui antiche tradizioni agricole contribuirono in gran parte alla celebre istituzione del prezioso nettare locale, prodotto sugli iconici vigneti sovrapposti dinnanzi allo svettante punto panoramico di São Leonardo de Galafura. A proposito dei quali il grande poeta e filosofo Miguel Torga (1907-1995) scrisse nei suoi diari: “La regione del Douro è sublime. È un eccesso della natura. Terrazze tramandate dai giganti che si arrampicano sui pendii, volumi, colori ed armonie che nessuno sculture, pittore o musicista potrebbe mai tradurre nella sua arte. Orizzonti dilatati oltre le plausibili soglie dell’immaginazione.” E chissà che cosa avrebbe mai potuto pensare costui, vedendo ricondotte le sue elaborate metafore all’aggiunta, così strutturalmente insolita, di una scala cementata che risale oltre le mura localmente attribuite alla figura leggendaria di Dona Mirra. Una letterale via d’accesso connotata dal succedersi di scalini cosmici verso un regno inimmaginabile ed in qualche modo distante. Di un diverso punto di vista, questa volta offerto in modo alternativo alle metodologie fornite in dotazione dalla natura.

Completamente chiusa nel momento di questa particolare visita, la diga può permettere alle acque del Varosa di ricongiungersi molto più a valle con il Douro stesso. Per lo meno negli occasionali casi in cui l’uomo è disposto a lasciare che gli eventi influenzati dal paesaggio mantengano il corso predeterminato, fin dall’epoca della remota Preistoria.

Ed è indubbio che pensando alle notevoli meraviglie di un paese come il Portogallo, trascurato in maniera particolarmente sfortunata nell’elaborazione di molti itinerari europei, una diga come quella del Varosa possa risultare agli ultimi posti nell’elenco delle priorità dei viaggiatori. A meno che questi ultimi, essendo dotati del drone ormai quasi d’ordinanza, siano inclini a realizzare una sequenza d’immagini utile a massimizzare la propria abilità di catturare gli sguardi dell’utenza di Internet, fornendo un ulteriore contributo all’inesauribile riserva immaginifica di YouTube! E d’altronde non è facile immaginare una rampa di lancio migliore, per far conoscere luoghi che il senso comune aveva tralasciato fino ai giorni odierni, offrendo un sentiero d’accesso digitalizzati a nuove categorie d’esperienza.
Ovvero circostanze utili a massimizzare i punti raggiungibili dai propri ragionamenti di un contesto ulteriore. Verso la vetta raggiungibile nell’ascendente trafila di un livello dell’antico Donkey Kong, meno i barili rotolanti. Nell’avventura tattile di un click del mouse e il joystick che, ancora oggi, tende inesorabilmente ad accompagnarlo.

Lascia un commento