Come una stele di Rosetta per la geografia, a lungo tempo si è cercata la testimonianza in grado di enunciare, per la comprensione dell’uomo contemporaneo, la relazione istituita in termini concettuali tra lo spazio fisico e la posizione delle civilizzazioni, intese come antichi regni, imperi o mere città stato degli ancestrali secoli lungamente trascorsi. Un mappa, d’altro canto, è stata il concetto maggiormente fluido tra le rappresentazioni delle condizioni naturali vigenti, principalmente in funzione di fattori culturali, esplorazioni già condotte e persino il rapporto matematico tra le distanze, conseguente da calcoli non sempre comprensibili a distanza di tempo. C’è tuttavia un solo esempio di tale realizzazione che possa essere preso seriamente come riferimento, volendo utilizzare i termini di precedenza cronologica dettati dal trascorrere dei millenni. Venne ritrovata, così dicono le cronache, durante uno scavo archeologico della metà del XIX secolo a Sippar prima di essere venduta o donata nel 1882 al British Museum di Londra, dove come possiamo facilmente constatare è custodita tutt’ora. Trattasi di un frammento di tavoletta di terracotta, parzialmente ricomposto, con il nome altisonante di Imago Mundi, causa la teoria predominante secondo cui potrebbe, o dovrebbe, rappresentare la visione a volo d’angelo dell’intero spazio terrestre di cui si avessero nozioni degne di nota. Secondo quanto disponibile all’autore e firmatario dell’opera sul lato posteriore, uno scriba dal nome parzialmente cancellato ma identificato come figlio di Issuru, il discendente di Ea-bēl-il. Siamo, dunque, in un contesto mesopotamico e per essere maggiormente precisi tra l’ottavo e il sesto secolo a.C, come desumibile dalla datazione del luogo di ritrovamento, oltre ai riferimenti storici e culturali presenti nelle iscrizioni in lingua cuneiforme su entrambi i lati del manufatto. Bastanti, nell’opinione predominante, a identificarlo come proveniente dalla città di Babilonia, il grande centro che era stato precedentemente capitale di un impero, situato sulle rive di una delle diramazioni del fiume Eufrate. Ipotesi effettivamente oggetto di disquisizioni, sia tradizionali che irrisolte, per la maniera in cui la città è raffigurata con l’aspetto di un rettangolo orizzontale, che interseca e attraversa il fiume nella parte superiore della composizione grafica, il cui perimetro del “fiume amaro” (probabilmente il mare o l’oceano) appare di suo conto perfettamente simmetrico e circolare. Una scelta ragionevolmente inaspettata, quando messa a confronto ad esempio con la mappa più apprezzata della proiezione di Mercatore, in cui l’Europa è sempre e comunque posta, non a caso, in posizione centrale…
Molte sono i misteri, d’altra parte, concentrati in questo oggetto poco più alto di 12 cm e identificabile grazie alla dedica frontale come “Il mondo che [il Dio] Marduk ha creato, dividendo l’Oceano e popolandolo degli uomini e gli altri Dei Minori, tra cui il grande serpente del mondo”. Questioni che hanno connotato e modificato profondamente le nostre cognizioni in merito alla visione del mondo posseduta dagli abitanti di una delle culle dell’umanità, il vicino Oriente dei fiumi gemelli. Che oggi corrisponde grosso modo all’Iraq, con parti di Siria, Iran, Arabia Saudita e Kuwait. Essenzialmente rappresentate, nel diagramma della tavoletta in cui il nord si troverebbe a destra, con i nomi degli antichi popoli che risiedevano in tali regioni: a nord-ovest Urartu, ad est Assur e Der, a sud Susa, a sud-est Bit-Yakin ed a sud-ovest Habban. Mentre l’unica concessione a contestualizzazioni topografiche viene dal secondo rettangolo situato al termine dell’Eufrate, identificato semplicemente come “canale” o “palude”. Altrettanto interessanti risultano essere le sette o possibilmente otto regioni (nagu) triangolari di cui una soltanto è etichettata come “grande muraglia”, parzialmente visibili nella parte intatta della tavoletta al fuori del cerchio marino e quindi possibilmente corrispondenti a delle isole dalla collocazione incerta. Fortunatamente elencate sul retro, ciascuna accompagnata da una breve descrizione caratterizzante benché la prima, la seconda e la sesta siano troppo danneggiante per decifrarle: il terzo nagu è dove risiedono bovini cornuti che corrono veloci; il quarto è troppo distante perché un uccello possa raggiungerlo in volo; il terzo, quinto quanto ci è possibile decifrare, conteneva imponenti oggetti “della capienza di un parsiktum” (180 litri); l’ottavo è la porta celeste da cui il Sole fa il suo ingresso quando sorge ogni mattina.
Lungamente identificato come una possibile semplificazione del geografica delle lande circostanti il Mar Mediterraneo, il mondo esterno della mappa babilonese potrebbe d’altro canto rappresentare una visione cosmica dell’intero Creato, a seconda dell’effettiva distanza dei soggetti geografici rappresentati. Esiste anche un’interpretazione, incline ad attribuirgli un qualche tipo di progressione cronologica, secondo cui essa potrebbe rappresentare i viaggi d’esplorazione e conquista di Sargon il re di Akkad citato nella parte finale del frammento d’iscrizione frontale, il primo sovrano dell’Impero omonimo che regnò probabilmente tra il 2335 e il 2279 a.C. Il che avrebbe fatto dell’importante testimonianza tangibile, creata più di cinque secoli dopo, il resoconto di un’epoca probabilmente concepita come affine alla leggenda e la mitologia delle origini della civiltà babilonese. Tanto più che assieme a lui compaiono i nomi di Nur-Dagan re Buršaḫanda, suo principale oppositore storico, e l’eroe Utnapištim, re di Shuruppak, nonché costruttore mitologico dell’arca di forma circolare utilizzata dagli umani per sopravvivere al grande diluvio presente nella tradizione culturale di questi luoghi.
Di tali aspetti ci parla nel video di apertura, con il consueto stile dialettico appassionato ed accattivante, il curatore del British Museum Irving L. Finkel, mentre maneggia con estrema disinvoltura quella che costituisce, naturalmente, una mera riproduzione del manufatto dall’importanza storica spropositata. La cui fragilità inerente, purtroppo, ci è già costata un ampio ventaglio di possibili nozioni di riferimento, sulle credenze o percezioni di alcuni dei primi costruttori di un insediamento rispondente a pieno titolo alla definizione di grande città umana. Lui che, attraverso gli studi compiuti sull’argomento, fu il principale promotore e supervisore nel progetto di ricostruzione dell’arca babilonese documentata in un celebre documentario del 2014 per la PBS, giudicata un successo meramente parziale data la tenuta stagna molto limitata del bitume usato per sigillarla.
Il che ci porta, nuovamente, alle domande inespresse che potrebbero costituire il nesso dell’intera questione: quali approcci e quante tecniche, in che misura gli strumenti utilizzati per determinare il complesso rapporto tra uomo e natura sono andati persi nell’inarrestabile progressione dei secoli trascorsi? Ed in che misura ci è concesso, persino adesso, tentare in qualche modo di recuperarli?