La casa costruita come una conchiglia per massimizzare l’energia delle stagioni

Molti sono i soprannomi utilizzati in questi ultimi anni nella parte settentrionale dell’Alsazia, per riferirsi a quello che costituisce probabilmente il più insolito edificio a essere stato mai costruito nel comune di Cosswiller. Una ridente cittadina circondata di frutteti, situata nel profondo entroterra francese a soli 26 Km da Strasburgo. E finemente connotata, a partire dal 2003, dalla presenza di un chiaro esempio di disco volante proveniente da lontano, che ha finito per precipitare a terra infiggendo uno dei lati a una precisa angolazione di un prato erboso. O forse si tratta di una conchiglia, un mitile che emerge dalle viscere del mondo, intento a catturare quella quantità di luce necessaria a entrare nella prossima fase del proprio ciclo vitale? O perché no, l’arma proiettata dal discobolo gigante, dalla cima non visibile di un monte antistante, che ha finito per mancare di gran lunga il proprio bersaglio desiderato. Affinché nelle decadi o nei secoli a venire, i piccoli abitanti dalla vita effimera e le ancor meno significative aspirazioni potessero eleggerla a propria degna dimora, con tutti i vantaggi che potevano inerentemente tendere a derivarne. Questo perché l’Eliodome, nella realtà dei fatti immaginato e fatto costruire dall’ebanista e designer di mobili francese Éric Wasser a partire da un suo sogno del 2001, risponde ad esigenze specifiche e risolve dei problemi quotidiani della vita civilizzata contemporanea, anche se i suoi protagonisti non possono dire di averne mai effettivamente percepito il bisogno. Questioni come la necessità percepita di utilizzare nella zona Paleartica, dove si trova concentrata una percentuale importante della popolazione globale, impianti di climatizzazione pressoché costanti al fine di mitigare i caldi estivi ed i terribili freddi d’inverno. Laddove la nostra familiare stella diurna, attraverso i secoli e i millenni, si era dimostrata in grado di riuscire a fare esattamente lo stesso. Questo perché il tipico edificio residenziale dei nostri giorni, nonostante la nascente sensibilità alla questione ambientale, è concettualmente poco più che un cubo con alcune aperture, chiamate gergalmente finestre, ed una o due aperture per il ricircolo dell’aria. Troppo poco, troppo tardi? Dipende. Di sicuro, a nessuno verrebbe in mente di poter vivere a determinate latitudini o altitudini senza un investimento commisurato in termini di riscaldamento. A meno di aver plasmato in base alla natura delle proprie necessità la stessa identica idea impiegata nel caso del prototipo in oggetto. I cui materiali, la cui disposizione in relazione ai punti cardinali, e soprattutto l’inclinazione attentamente calibrata del tetto, alludono alla finalità specifica di assolvere alla più degna delle mansioni: lasciar passare, stagionalmente, una quantità del tutto specifico della radiazione riscaldante dei raggi luminosi provenienti dal cuore incandescente del nostro sistema stellare. E dire che la soluzione era stata sempre innanzi alla superficie specchiata dei nostri irrinunciabili occhiali da Sole…

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La notte diurna in cui scoprimmo la terribile potenza delle tempeste solari

Dopo il crepuscolo tra il primo ed il secondo settembre 1859, l’intero pianeta Terra fu colpito dall’equivalente geomagnetico di un asteroide in grado di annientare l’attuale civilizzazione digitale. Ma poiché ci trovavamo ancora in un’epoca di carrozze e macchine a vapore, il principale effetto venne riscontrato nelle stazioni del telegrafo, dove alcuni dei macchinari andarono improvvisamente in corto circuito, causando scintille ed arrecando scosse elettriche agli operatori. Molti di loro, di lì a poco, scoprirono l’impensabile: una volta scollegate le batterie i dispositivi funzionavano ancora, agevolmente alimentati dall’implacabile energia che aveva invaso la troposfera. In determinati luoghi, l’effetto fu osservabile ad occhio nudo. L’aurora boreale illuminò la notte del Texas e Nevada, dove i cercatori d’oro si svegliarono famosamente in anticipo, credendo fosse giunta l’ora di andare a lavorare. In Europa Occidentale, fino alla latitudine di Roma, la luce fu talmente intensa da permettere di leggere un giornale a mezzanotte nella più totale assenza di fonti di luce naturali. Era… La potenziale fine del mondo ed un uomo solo, tra tutti, era stato in grado di riscontrarne l’origine mediante l’impiego del suo telescopio presso l’osservatorio universitario di Cambridge, dove si trovava per approfondire il comportamento delle macchie solari. Richard C. Carrington era il suo nome, destinato a passare alla storia proprio perché associato al deleterio evento, non prevedibile, del tutto ripetibile e che in un momento assolutamente indistinguibile delle nostre esistenze potrebbe riportarci temporaneamente indietro di secoli, se non millenni. Con conseguenze notevoli in termini di danni economici, ma anche potenziali perdite di vite umane. Un “episodio” come questo viene stimato come in media probabile ogni 450 anni; ma nella maniera tipica delle analisi statistiche, la fortuna può costituire un importante fattore, al punto che già il 23 luglio del 2012, dal punto di vista della nostra stella, è in pratica successo di nuovo. Mancandoci soltanto di due settimane, grazie all’ispirata danza dei corpi astrali. Alla conseguente e comprensibile domanda di cosa sia possibile effettivamente fare per proteggersi da un tale infausto destino, non esiste dunque alcun tipo di risposta semplice, fatta eccezione per scollegare ogni dispositivo elettrico dalla grande rete di distribuzione per tempo, sfruttando idealmente il ragionevole preavviso di qualche ora di cui potremmo disporre, in forza degli organismi cautelativi su cui potremmo fare affidamento nell’attuale dipanarsi dell’emergenza. Benché ciò non sia sempre possibile, anche senza considerare gli effetti di un blackout globale di durata prolungata. Con anche la collaterale cessazione del funzionamento degli impianti idrici, oggi funzionanti principalmente tramite l’impiego di pompe elettriche, ed il probabile malfunzionamento di una buona parte dei mezzi di trasporto contemporanei. Per non parlare di quelli appartenenti alla “rivoluzione elettrica” che sta iniziando, in questi anni, a circolare silenziosamente per le strade cittadine. E tali conseguenze costituiscono in effetti, se vogliamo, ancora una visione ragionevolmente ottimistica di quello che potrebbe accadere…

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L’airone combattente che ha saputo ereditare l’illusione ottica della falena

Negli oscuri spazi dell’intercapedine tra i rami sudamericani, una sottile forma che si aggira vibrante: ali grigie come nubi di tempesta, e striate per cercare un qualche tipo di mimèsi. Zampe lunghe lievemente piegate. Occhi rossi e minacciosi. Ed è lo sguardo stesso dello spettatore, ideale parte imprescindibile di questa scena, per quanto esterna e fuori dall’inquadratura, che tendenzialmente si ritrova a suscitare un valido interrogativo: quanto è grande, quali sono le sue esatte proporzioni? Ragno, bruco e coda di scorpione. Tronchi, ghiande o radici. Tutto questo si confonde in un indiviso maelstrom di forme colorate. In mezzo al quale, all’improvviso, appare il becco semi-aperto dell’animale. Sei stato avvistato! Adesso, guarda: è l’inizio di un’impressionante trasformazione. Là dove in origine c’era soltanto l’accenno di una piccola creatura, sorge repentina l’alba duplice di un impossibile Pianeta, come un basso e trasversale accenno del triangolo di cielo. È la parte più visibile di un formidabile soldato. Il suo nome: tarabuso del Sole o Eurypyga helias. Eppure a ben vedere, se vogliamo essere più tassonomicamente corretti, esso non è affatto ciò che implica quel nome, inteso come appartenente alla sottofamiglia del botauro (B. stellarisvedi), mimetico rappresentante degli aironi celebre per il suo collo serpentino e la capacità di assomigliare quando immobile ad un tronco o giunco di palude. Bensì membro monotipico di un suo particolare genere, una propria famiglia e addirittura un ordine, quello degli Eurypygiformes, condiviso con soltanto un altro pennuto vivente assieme al possesso del sistema delle piume autrigeneranti dette feather down (piumino). Cognato il cui aspetto non potrebbe essere maggiormente diverso; sto parlando infatti del bizzarro kagu o cagou (Rhynochetos jubatusvedi) vagamente simile a un piccione col riporto, capace di trasformarsi in un’alta cresta ogni qual volta egli ritiene necessario imporre i limiti del suo territorio. Non che l’effettivo atteggiamento del suo più prossimo congiunto noto, questo uccello cercatore delle acque basse attorno ai 45 cm massimi di lunghezza, dimostri un atteggiamento molto più accomodante, data la tendenza a reagire all’avvicinamento di un possibile nemico in modo diametralmente opposto al rapido decollo di un “vero” airone. Cui preferisce abbassare la testa, aprire le ali ed iniziare ripetutamente a sibilare. È una vista che oggettivamente non può fare a meno di colpire, anche per la rapidità con cui ciò sembra permettergli di cambiare colore. Mentre il disegno arancione, rosso e giallo nascosto tra le pieghe delle piume si spalanca alla maniera di un ventaglio kabuki, creando l’illusione di un paio d’occhi fiammeggianti e al tempo stesso confondendo le proporzioni del suo possessore. Ciò in quanto il qui presente fossile vivente o fischiante, pur essendo in grado di staccarsi da terra nei validi casi in cui dovesse rendersi necessario, preferisce in genere spostarsi a livello del terreno, fatta eccezione per le volte in cui necessità di far ritorno al suo nido costruito in media a 6-9 metri di altezza. Una netta, ma non unica distinzione rispetto alla classe di creature da cui si è ritrovato a prendere in prestito il proprio nome…

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Si è spiaggiato il pesce tondo, che incarnava la tiepidità del mondo

Si trattava di risolvere un problema, in effetti. Quello di attribuire un nome alla creatura misteriosa trovata improvvisamente sulla spiaggia di Sunset in Oregon alle 8:00 di mattina, della lunghezza di oltre un metro e il peso approssimativo pari a 45 Kg. Pesce discoidale vagamente simile alle tipiche creature ornamentali di un acquario (i.e, abitanti originari di barriere coralline distanti) ma con proporzioni alternativamente descritte come pari a “una ruota di camion” oppure nel caso specifico e secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, “un bambino di quattro anni”. Strano termine di paragone, davvero, quando si considera l’assenza di gambe, braccia, testa o altre parti antropomorfe, in questo essere dal corpo compatto e invero stranamente denso, la cui morfologia parrebbe distinguersi da quella del suo gruppo tassonomico dei lampriformi, contenente anche i sinuosi lofotidi, l’impressionante regalecide (il “re delle aringhe”) ed il trachipteride o “pesce nastro”. Tutte creature dall’aspetto lungo e serpeggiante, laddove questa malcapitata vittima delle maree riesce a guadagnarsi a pieno titolo l’appellativo di pesce luna o pesce sole, astri esteriormente personificati dalla forma ed il colore vagamente scintillante, concesso dall’iridescente patina di guanina che ricopre le sue scaglie. Un semplice ricorso all’enciclopedia di casa, dunque, avrebbe anche potuto risultare insufficiente, se non fosse stato per il coinvolgimento da parte dei visitatori della spiaggia del vicino Seaside Aquarium e i biologi che vi lavorano all’interno, i quali dopo un breve consulto hanno levato tutti assieme quell’esclamazione compiaciuta, trascrivibile con l’onomatopea che segue: “Opah!”. Opah fish, ovvero il tipico rappresentante del genere Lampris.
Vita strana, imprevedibile e talvolta piena di sorprese. Come quella di trovare a queste latitudini una creatura giudicata dalla scienza non tanto rara, quanto particolarmente inaccessibile date le abitudini per lo più pelagiche e la tendenza a vivere a profondità di 50-500 metri, non propriamente raggiungibili da sub dotati di strumentazione convenzionale. Né fatta ad oggi risultante il soggetto, causa le pregresse scelte di carriera, di studi scientifici particolarmente approfonditi da parte di chicchessia, anche a causa della sua scarsa rilevanza economica, dovuta soltanto all’infrequente cattura accidentale nelle reti dei tonni. Ed è in effetti particolarmente triste, risultando al tempo stesso indicativo, come l’assoluta totalità delle foto e video riguardanti questa notevole bestia marina la mostrino soltanto successivamente alla sua dipartita, per casi accidentali oppure la cattura e trasporto fino a riva, prima di procedere a precisa sfilettatura e preparazione al tavolo da pranzo, visto come nessun tipo di norma ecologica sia stata ancora promulgata, per la protezione di questa creatura la cui popolazione si ritiene essere tutt’ora in buono stato (ipotesi… Puramente speculativa, a dire il vero). E soprattutto a causa del sapore sfortunatamente appetitoso che possiede, descritto come pari a quello del più gustoso pesce spada, in un formato spesso e particolarmente adatto alla preparazione di piatti dall’alto grado di sofisticazione. Il che lascia, a tutti coloro che fossero direttamente interessati alla natura di questo appariscente nuotatore degli abissi, appena una manciata di nozioni di seconda mano, ed almeno un’approfondita trattazione di quella che risulta la sua singola caratteristica più insolita, ed interessante…

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