La ragione per cui la natura è giudicata “semplice” o “selvaggia” va generalmente ricercata nel rapporto molto umano tra le immagini e il pensiero, ovvero l’interpretazione pratica delle diverse contingenze situazionali, che realizzano la propria essenza nel susseguirsi delle passeggiate o escursioni di ciascun giorno della nostra vita. Con i presupposti più inimmaginabili e distinti, vedi quello dichiarato dallo stesso Conrad Tan, fotografo del cosiddetto stato dei 1000 laghi, che volendo visitare il favoloso parco naturale dei Voyageurs, dice ora di averlo fatto per lo scopo di “Poter guardare un wallpaper che lui stesso aveva creato” unendo in questo modo l’utile al dilettevole, ovvero l’informatica del mondo moderno all’ancestrale fascino della natura, intesa come il tipo di soggetti, animali e inconsapevoli, che meglio riescono a far bella figura tra le fronde digitalizzate e gli altri pixel che compongono il tipico desktop dei nostri grigi PC. Il che non toglie la possibilità, a noi persone dalle più accessibili esigenze, di apprezzare il suo lavoro e incorniciarlo in quel contesto, senza preoccuparci necessariamente della provenienza o di non disturbare con il flash l’affascinante cane… Lupo che campeggia al centro dell’inquadratura frutto di una tanto approfondita competenza fotografica ed il senso imprescindibile dell’avventura.
Poiché questo non è l’animale che semplicemente incontri nel cortile, bensì la versione originaria di quel tipo di creatura, intesa come il Canis lycaon della classificazione al tempo erronea di Linneo, proprio perché almeno in apparenza ben diverso dal C. lupus di cui Cappuccetto Rosso sembrava non conoscere la ferocissima fisionomia. Ma in merito al quale, resta chiaro, colei o colui avrebbe potuto giovarsi di un più istintivo ed immediato terrore se soltanto fosse stato nero come la notte, rispecchiando nella sua tonalità la cupa fame che riusciva a connotare ogni potenziale interazione con eventuali bambine umane. E “Che occhi grandi che hai!” avrebbe potuto rispondere l’animale stesso, dinnanzi all’espressione del celebre naturalista svedese trovatosi dinnanzi a una creatura tanto rara e preziosa. Proprio perché, contrariamente a quanto si potrebbe essere inclini a pensare, il lupo nero è una creatura ben distinta con un percorso genetico particolare, che l’ha relegata al giorno d’oggi solamente in dei particolari ambienti tra cui l’Europa meridionale (incluse parti dell’Italia, tra cui il Trentino e l’Appennino Tosco-Emiliano) ed un paio di grandi parchi nazionali statunitensi: Yellowstone e i Voyageurs. Dove ormai soltanto un numero particolarmente ridotto di visitatori ancora ricorda il vero significato dell’incontro con un Lupo dello Spirito, come tendevano a chiamarlo con indubbia deferenza gli abitanti indigeni di queste due regioni, ogni qual volta lo incontravano lungo il sentiero variabilmente onirico delle proprie peregrinazioni. Un esperienza capace di rivelarsi, ogni singola volta, trasformativa…
Simbolo del cambiamento, di una difficile sfida che comincia a profilarsi nel procedere della nostra vita. Libertà dalle imposizioni esterne e il desiderio razionale di riuscire a migliorar se stessi, la propria condizione, la precisa posizione nella concatenazione degli eventi. Udendo l’ululato, sinonimo di mistero, sopravvivenza ed orgoglio. Così come quelli ricercati, col pensiero e con i gesti, da coloro che sceglievano una simile creatura come totem all’interno della collezione affine alla tribù di appartenenza. Eppure se osserviamo il lupo nero grazie all’occhio critico della modernità, sarà opportuno sottolineare come non ci sia assolutamente nulla d’irreale nella sua presenza, o in qualche modo necessariamente interconnesso con il mondo dell’occulta spiritualità e la trascendenza. E questo nonostante l’effettiva rarità della scurissima variante, che in realtà non è neppure una distinta sottospecie, bensì la diretta risultanza di una quantità superiore al normale di melanina, il pigmento che scurisce la pelle ed il pelo degli esseri viventi. Per una mutazione ereditaria che i lupi stessi, così e stato determinato dalla scienza, potrebbero aver integrato nel proprio codice genetico a seguito della quantità di incroci verificatosi attorno a 5.000-3.000 anni fa, quando i primi cani scelti ed allevati dagli umani cominciarono a fare il proprio ritorno allo stato ferale. Portando con se, tra le altre cose, i propri alleli dominanti, frutto di una preferenza chiaramente artificiale per creature dalla colorazione uniforme, fosse questa candida come la neve, oppure l’esatto opposto. Così che la storia attraverso i secoli del lupo nero, sia del Vecchio che il Nuovo Mondo, può essere tracciata grazie alla presenza del gene K relativo alla colorazione oscura, che combinandosi con quello recessivo k del tipico manto grigio di questi animali generava di volta le volta le sue successive generazioni. Laddove l’incontro accidentale di due alleli dominanti (KK invece che Kk) creando una creatura omozigota di siffatta creatura, ha sempre dato origine a dei cuccioli purtroppo cagionevoli, e potenzialmente inclini a deperire prima del raggiungimento dell’età adulta. Il che non toglie, ogni qual volta la combinazione si realizza nella maniera ideale, l’acquisizione di un vantaggio significativo per l’animale, vista l’associazione lungamente dimostrata tra la colorazione nera del manto ed una resistenza migliorata del lupo nei confronti di malattie ed infezioni, grazie alla presenza di quantità superiori della proteina β-defensina all’interno del suo organismo. Un tratto accentuato, si è giunti a ritenere, dalla selezione naturale per le popolazioni che vivono nelle foreste, dove la temperatura mediana è più alta e con essa la possibile presenza di microbi, virus e batteri.
Che il lupo nero possa ancora esistere, nonostante i reiterati attacchi al suo habitat e indipendenza, è una fortuna forse transitoria dei nostri tempi. Così come ci ha messo in guardia, implicitamente, anche la serie di pubblicazioni effettuate a partire dal 2005 dall’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale nel nostro paese, tutt’altro che immune al fascino di una così elegante e per certi versi surreale presenza. Emblematico, a tal proposito, il destino vissuto da quest’animale in Scozia, il cui ultimo esemplare fu famosamente cacciato dal guerriero MacQueen of Pall a’ Chrocain nel 1743, dopo che aveva ucciso due bambini ai margini della foresta. E che dire dell’esploratore inglese Charles Hamilton Smith (1776-1859) che durante le sue spedizioni in Siberia identificò erroneamente il ghiottone o rossomak (Gulo gulo) con la presunta creatura lupesca menzionata nelle classificazioni tassonomiche della sua era?
Confusione comprensibile poiché non c’è davvero alcuna ragione naturale, salvo l’occasionale mutazione genetica, per cui un animale debba essere completamente indistinguibile dal colore dell’ossidiana. Evidenziando in tal modo, nel reiterato presentarsi della situazione, l’innegabile incontro pregresso, più o meno accidentale, con l’effetto biologico dell’operosa mano umana. La vita che influenza se stessa, sebbene attraverso secoli di desiderio e anelito a un amico che potesse essere “migliore”. Più attraente. Maggiormente capace di suscitare una reazione viscerale, tanto utile a comprendere istintivamente la nostra posizione nel vasto e complicato meccanismo dell’Universo.