Sotto il ghiaccio dell’Antartide, montagne più alte delle Alpi rinunciano a serbare i propri segreti

La neve candida che scende lievemente può attutire ed attenuare la percezione dei suoni. Trasferisci in proporzione questo effetto, ai ghiacci eterni che ricoprono le zone più remote della Terra, ed avrai l’effetto di un compatto meccanismo in grado di coprire valli, crepacci, scogliere. Persino le montagne. Così Dome A (la “cupola” Alfa) non troppo lontano dal Polo dell’Inaccessibilità, ovvero il punto più lontano dall’oceano di tutto il principale continente meridionale, si erge in qualità di luogo più elevato e al tempo stesso freddo del pianeta. Eppure i suoi 4.087 metri dal livello del mare non svettano in modo visibile, mancando di mostrare alcun tipo di evidente preminenza paesaggistica. Là dove ogni dislivello è graduale, favorendo la tradizionale percezione di un basamento roccioso del tutto simile, nelle profondità del sottosuolo, e per questo all’opposto del territorio comparativamente tormentato mostrato dalla stragrande maggioranza delle lande situate in relativa prossimità dell’equatore. Questo pensavano nel 1958 gli scienziati sovietici della Terza Spedizione Antartica, quando in 27 salirono sopra il treno-motoslitta fatto sbarcare direttamente sul permafrost e diretto verso la stazione di Sovetskaya, singola struttura più vicina allo scenario sopra menzionato, dove le temperature raggiungono in casi estremi i 90 gradi sotto lo zero. E saliti sopra quella rampa spropositata, iniziarono a sondare il suolo con i propri strumenti, rilevando forse la singola cosa più inaspettata possibile al mondo. “Come trovare un astronauta dentro un sarcofago in una tomba egizia” Avrebbero fatto notare in seguito i commentatori dell’impresa. Consistente nell’individuare, e mappare in modo assai preliminare, un’intera catena montuosa a 600 metri di profondità sotto i loro piedi, con un’estensione ed altitudine paragonabile ad alcuni dei più famosi agglomerati di rilievi al mondo. Caratterizzata da una disposizione lineare, proprio come le Alpi nel punto d’incontro tra l’Europa e la penisola italiana, queste montagne battezzate sul momento Gamburtsev dal nome di un sismologo e connazionale degli scopritori, sarebbero perciò state associate ad uno scontro pregresso tra due masse continentali, possibilmente corrispondente alla formazione della super-massa primordiale della Rodinia, risalente a circa 1 miliardo di anni a questa parte. Il che non bastava essenzialmente a far capire come una simile struttura potesse essere sopravvissuta integra alle forze d’erosione, prima che il ghiaccio potesse ricoprirla serbandone fino ai tempi odierni lo svettante aspetto indiviso. Questo, almeno, finché nell’Anno Polare 2008, un consorzio multinazionale di studiosi armati di radar, una rete di sismografi ed aeroplani di perlustrazione non scrissero il secondo capitolo di tale appassionante vicenda. Una storia rivelatasi capace di guadagnare ulteriori conferme e spunti di approfondimento grazie ad un recente studio, appena pubblicato sulla rivista Earth and Planetary Science Letters…

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Smentita l’ipotesi del mare di magma sotto il suolo della luna incandescente di Giove

Tra i più interessanti misteri del Sistema Solare figura la natura eterogenea delle quattro maggiori lune gioviane, scoperta gradualmente attraverso i secoli a partire dalla loro prima identificazione ad opera di Galileo Galilei. Che li aveva chiamati i satelliti medicei, in onore del proprio mecenate, senza poter ancora entrare nel merito di cosa esattamente fossero, e quale potessero costituire i loro tratti distintivi di riferimento. Generazioni sarebbero trascorse, prima che la rivoluzione astronomica da lui iniziata permettesse di comprendere che Europa era una sfera ricoperta di ghiaccio, Ganimede un vero e proprio pianeta nano con tanto di nucleo ferroso, Callisto il bersaglio martoriato da una pioggia meteoritica incessante ed Io… L’inferno stesso, trasformato in luogo visitabile del nostro piccolo ritaglio di Via Lattea attorno all’astro diurno che dà la vita. Concentrazione d’attività vulcanica senza termini di paragone, con centinaia di eruzioni continuative in ogni singolo minuto della sua roboante sussistenza, come esemplificato dal primo pennacchio rilevato nel 1979 dall’osservatrice astronomica Linda Morabito, del NASA Jet Propulsion Laboratory. La stessa istituzione oggi incaricata di gestire la missione decennale della sonda Juno, che da luglio del 2016 si trova attorno al gigante gassoso che costituisce il più massiccio pianeta che disegna un’orbita nel vicinato. Attrezzata con nove sofisticati strumenti scientifici già responsabili di numerose scoperte di rilievo, sui corpi bersaglio di quel lungo viaggio, tra cui sensori per lo spettro dell’infrarosso e delle microonde. Immaginate dunque la sorpresa del team di scienziati quando l’ultima in ordine di tempo, e forse maggiormente significativa scoperta di quest’anno sarebbe stata supportata dal più “semplice” degli attrezzi a bordo, nient’altro che la telecamera sensibile alla luce visibile, capace d’inviare nuove immagini fotografiche della luna ricoperta di fiamme, furia e laghi di fuoco. Osservando le quali, in base allo studio pubblicato sulla rivista Nature soltanto lo scorso 12 dicembre da R. S. Park, R. A. Jacobson e colleghi si è giunti alla realizzazione che un’assunto perpetrato ormai da lungo tempo andasse dopo tutto confutato. Perché se veramente Io avesse posseduto uno strato magmatico nel proprio sottosuolo, la sua forma sferoidale ne sarebbe risultata ancor più irregolare. In funzione di quelle stesse forze gravitazionali impressionanti, generate dal pianeta paterno e che ogni secondo scagliano nello spazio esterno una quantità stimata di una tonnellata di particelle ionizzate a partire da quella superficie mutevolmente discontinua. Un ulteriore chiarimento, niente meno che fondamentale, per il funzionamento effettivo di un luogo tanto terribile ed inospitale…

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La quiete dopo la colata lavica, nell’imperturbabile parcheggio della Laguna Blu islandese

La stampa internazionale ama le parole agglutinanti dal suono caratteristico ed oriundo, come Sundhnúkur: sul finire dell’anno passato, assurta di nuovo, per ragioni di tipo geologico, al preoccupato podio del senso comune. Difficile non applicare un’espressione ricorsiva, dal punto di vista del paese più a settentrionale dell’Atlantico europeo, alla copiosa fuoriuscita dell’ennesima copiosa striscia di pietra fusa, fuoco e fiamme. Evento eccezionale, atipico, terrificante, insolito, per chiunque altro. Ma non le 393.000 persone che vivono sul suolo totalmente vulcanico, di una terra emersa non più antica di 20 milioni di anni. E perciò capace di vibrare quasi quotidianamente, al sommovimento di ciò che riempie le tenebre di quel sottosuolo avìto. Eppure addirittura in quel contesto, la prolungata situazione vissuta per gli ultimi 12 mesi nella penisola di sud-ovest Reykjanes ha caratteristiche profondamente insolite, al punto da aver mantenuto una posizione di preminenza nei notiziari locali per un periodo mediamente superiore alla stragrande maggioranza degli eventi simili; per la vastità del territorio colpito, l’ampiezza delle crepe formatesi all’interno di esso e la quantità di fuoco e fiamme, che hanno continuato a illuminare il paesaggio notturno d’Islanda. Nonché la maniera in cui, per un gran totale di cinque volte al conteggio attuale, questi eventi hanno portato la provincia a dover chiudere una delle proprie attrazioni turistiche di maggior rilievo: i famosi bagni termali della Bláa lónið (Laguna Blu) un bacino artificiale dalle rinomate capacità terapeutiche, in funzione delle sostanze minerali che costituiscono la parte maggiore del suo fondale. Fino al caso limite delle ultime 24 ore, capaci di generare una contingenza probabilmente destinata ad avere conseguenze maggiormente significative per l’utilizzabilità del sito. Visto il modo in cui la notte scorsa, sfuggendo agevolmente al perimetro delle costose barriere disposte sul tragitto calcolato della sua colata, il flusso lavico si è spinto fino alle propaggini dell’area di parcheggio lungo il ciglio della strada Grindavíkurvegur. Perciò dove l’asfalto un tempo campeggiava immoto, ordinata periferia della viabilità veicolare, il crepitìo rombante si è protratto mentre come nel frangente apicale di una tragedia epica, la montagna si faceva innanzi. Trascinando via i lampioni, distruggendo le strutture dei supervisori, ricoprendo con milioni letterali di tonnellate ogni singola cosa. Dopo di che, il silenzio.

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Un laser contro il magma, per anticipare il drastico risveglio dei vulcani

Ha fatto notizia, più volte nel corso degli ultimi anni, il percorso di approfondimento compiuto dalla vulcanologa dell’Università del Queensland Teresa Ubide Garralda, studiosa incline a investire i propri sforzi nella ricerca del sistema, lungamente giudicato una chimera, per riuscire in qualche modo a prevedere l’insorgenza e le modalità di un’eruzione vulcanica. E con ottime ragioni, vista la quantità d’insediamenti umani nati attraverso i secoli e millenni sotto le pendici di quel tipo di massicci montuose, pericolose valvole di sfogo dell’implacabile mare di fuoco che scorre sotto i nostri piedi. Un tipo di approfondimento scientifico, quest’ultimo, che prende vita dallo studio di fenomeni del tutto naturali e proprio per questo, dipendente dall’incontrollabile verificarsi dell’ennesimo potenziale disastro mai annunciato. Così nel 2018, lavorando sulle pendici dell’Etna, ella ebbe l’occasione di raggiungere un più elevato livello di comprensione dell’attività magmatica mediante l’osservazione approfondita dei minuscoli cristalli o microcrysts contenuti nel magma siliceo, destinato a scorrere sulle pendici una volta liberato nell’atmosfera il gas che l’ha portato ad emergere in superficie. E di nuovo ad osservare, all’inizio di quest’anno, il comportamento e la composizione del melt (roccia semi-liquida) fatta scaturire dal pericoloso vulcano neozelandese Taranaki, una possibile nuova strada di approfondimento verso l’acquisizione di dati storici in merito al comportamento di un tale sito, luogo di una potenziale catastrofe pliniana degli anni a venire. Il che ci porta alla svolta di questo particolare sentiero della conoscenza, compiuta in tempo per la pubblicazione soltanto nella scorsa settimana della nuova prospettiva ottenuta durante il periodo di disastrosa attività effusiva del Cumbre Vieja nelle isole Canarie, durata 85 giorni tra il 19 settembre e il 13 dicembre del 2021, consistente in copiose colate laviche capaci di causare danni a 1.000 ettari dell’isola di La Palma e con essi 3.000 edifici costruiti dall’uomo. Benché offrendo l’opportunità, per la sua progressione relativamente lenta, di evacuare la popolazione finendo per costare la vita solamente ad un singolo, sfortunato individuo. Un’opportunità particolarmente rara d’altra parte, in funzione della sua lunga durata, per comprendere l’evoluzione di questi fenomeni nel tempo ed impiegare nuovi approcci utili a comprenderne i segni rivelatori. Come ampiamente delineato nello studio della Dott.ssa Ubide assieme alla sua equipe internazionale, che in questo frangente ha scelto di mettere in campo un nuovo tipo di strumento nella guerra conoscitiva delle scienze applicate al più temuto dei disastri provenienti dalle remote profondità terrestri. Niente meno che la luce stessa, concentrata grazie a un fascio di fotoni dritta verso il punto e nesso principale della problematica di rilievo…

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