Profezie del tetto d’Africa: mille metri sull’abisso che divide le pianure della Namibia

Rappresenta una costante nella storia della religione umana, il modo in cui venire al mondo in determinati territori, tanto magnifici e distintivi, può ispirare il tipo di pensiero filosofico capace di costituire il fondamento di un di una consapevolezza del tutto nuova. Così il Tibet per le scuole del Buddhismo ed allo stesso modo, quella massa di rilievi non meno imponenti al tempo del super-continente Gondwana, che ancora oggi costituiscono le alture niente affatto trascurabili della regione dell’Angola. Come l’orlo di una vasta piattaforma africana, che improvvisamente s’interrompe per incombere sopra i territori del remoto meridione, molto più vicini al livello del mare. Qui nacque nel XVII secolo, a poca distanza dal fossato nella cittadina di Kibangu in quello che costituiva all’epoca l’impero coloniale del Kongo, la celebrata predicatrice dell’unità Africana, nonché fondatrice dell’eresia antoniana, Kimpa Vita, alias Doña Beatriz. Capace di fondare la sua disciplina teologica su due dialoghi fondamentali: quello nei suoi sogni con l’egiziano Sant’Antonio il Grande, ed uno più diretto e quotidiano, con l’anziana profetessa di Monte de Kibangu, Apollonia Mafuta. La quale riteneva che il Dio cristiano fosse infuriato con il re del Kongo, per aver abbandonato il suo popolo, e nel momento in cui la cultura originaria del suo popolo fosse andata totalmente perduta, una colossale montagna avrebbe preso fuoco, conducendo il mondo all’Apocalisse. Il nome di questo rilievo: Serra da Leba, oggi celebre per la presenza di una caratteristica geologica nota come fenditura di Tundavala. Un passo montano raggiungibile mediante irti sentieri all’altitudine di 2.200 metri, affacciato sopra un vuoto colossale non più alto di 1.000. L’ideale rampa di lancio per generazioni d’internazionali praticanti della nobile arte del base jumping, se soltanto non fosse tanto remoto e relativamente sconosciuto ai turisti. Non che manchino su Instagram le occasionali foto ricordo scattate dagli escursionisti, in cui è precario il modo in cui si resta penzolanti da una roccia che la prospettiva sembra rendere sospesa sopra il grande vuoto, pur trovandosi nella realtà dei fatti a pochi metri da terra.
Molto prima che ciò fosse possibile in qualunque modo percepito come necessario, la fenditura fu piuttosto celebre per una triste usanza locale, che anticipò largamente la venuta dei portoghesi e conseguente guerra tra fazioni contrapposte interne. Ovvero il modo in cui chiunque si ribellasse all’autorità del sovrano di turno, fosse solennemente condotto fino all’orlo dell’abisso, per scrutare un’ultima volta quel magnifico paesaggio erboso. E quindi spinto innanzi, senza remore o rimorsi, per lasciare il mondo dei viventi e fare il proprio ingresso nell’immensità…

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L’impresa dell’antico albero che ha chiarito la portata dell’ultima inversione terrestre

Come immortali stregoni asserragliati nelle loro torri montane, gli alberi della famiglia delle Araucariacee hanno sperimentato i mutamenti della storia umana come mere note a margine delle loro interminabili esistenze terrene. “Quando questo arbusto era un tenero virgulto” recitano le placche spesso poste innanzi ai più celebri pini di Wollemia, abeti della Nuova Caledonia o kauri neozelandesi “Napoleone indossava per la prima volta la corona di Francia.” E così via a seguire. Che cosa pensereste, d’altra parte, se vi dicessi che esiste proprio adesso in questo mondo un tronco a tal punto vetusto da aver sperimentato direttamente sulle proprie fibre un qualcosa di avvenuto 42 millenni prima delle data odierna? Non più vivo, chiaramente (neppure Matusalemme poteva aspirare ad una tale persistenza) bensì ritrovato sotto terra, in modo totalmente accidentale, durante gli scavi del 2019 in una torbiera vicino alla quale gli abitanti della parte settentrionale dell’Isola del Nord (NZ) intendevano costruire una nuova centrale elettrica. Così da imbattersi nel corpo e nello spirito residuo di un corposo esponente della specie Agathis australis, destinato ad essere presto portato presto la riserva e santuario dei Māori di Ngāwhā Marae. Non prima, d’altra parte, che le tante tonnellate di antico legno venissero sottoposte a uno scrutinio approfondito da un team interdisciplinare di vare prestigiose istituzioni accademiche nazionali, così come altri ritrovati in situazioni comparabili, con l’obiettivo di trovare la proverbiale quadratura del cerchio. Relativamente ad un evento dell’ancestrale Preistoria, per una volta non legato a sconvolgimenti geologici o eventuali testimonianze tangibili appartenute alla pregressa biosfera. Bensì un letterale dramma destinato a compiersi probabilmente ancora, negli strati esterni alla calotta azzurra dei nostri cieli.
L’albero fu dunque sezionato trasversalmente, e la sottile “fetta” misurata attentamente, con un occhio di riguardo per il distanziamento e la forma degli anelli annuali della crescita della pianta. Una creatura vegetale, è importante sottolinearlo, capace di vivere anche svariati millenni, riuscendo a coprire nel caso specifico un periodo estremamente interessante del tardo Pleistocene. Quando per circa 800 anni la polarità magnetica del globo terracqueo, come avevamo lungamente teorizzato, si ritrovò condizionata da un graduale quanto inesorabile processo d’inversione temporanea, tale da portare a sconvolgimenti e disastri d’entità davvero significativa. Una teoria supportata da rilevanti studi scientifici che finalmente diventava, grazie ai nuovi dati redatti coerentemente e revisionati giusto all’inizio di questo mese di febbraio, oggettiva certezza…

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L’armata sferoidale degli scheletri fluttuanti nei mari del mondo

Candido segno identitario di una nazione, le scogliere di Dover hanno dato il benvenuto ai viaggiatori nelle Isole fin dall’epoca del tardo Cretaceo. Alte rocce, così come l’indice di rifrazione, habitat d’innumerevoli creature marine e volanti. Ma né piume, né pinne appartengono alle minuscole creature delle moltitudini, che attraverso i secoli e millenni si occuparono di modellare quel paesaggio nelle forme che possiede tutt’ora. Così come moltissimi altri, nell’intero estendersi dei continenti terrestri. Largamente ignoto al senso comune, il coccolitoforo è un tipo di alga unicellulare facente parte del plankton autotrofico (vegetativo) nel suo complesso responsabile della stragrande maggioranza del carbonato di calcio all’interno degli oceani. E come derivazione di ciò, anche dei depositi di gesso misto a pietra calcarea che spiccano in particolari località geografiche degne di nota. Null’altro che il residuo defunto, essenzialmente, delle innumerevoli generazioni trascorse di questi esseri galleggianti misurabili in nanometri, letterali decine dei quali entrerebbero sopra la punta di un singolo capello. Il che rende alquanto sorprendente, quando li si osserva al microscopio, la complessità e varietà di forme che emergono tra le diverse specie e non solo, visto come un singolo organismo possa variare sensibilmente nel corso delle diverse generazioni o fasi della sua unitaria esistenza. Nel modo in cui il suo organulo di Golgi, così chiamato dal suo scopritore italiano nel 1898, si occupa di calcificare le sostanze presenti in soluzione nelle acque, apprestandosi a formare il distintivo esoscheletro che accompagnerà l’intera esistenza di queste creature. Generalmente rappresentate a scopo divulgativo dalla specie cosmopolita Gephyrocapsa huxleyi, il cui aspetto visibile si presenta come un agglomerato di ciambelle perforate, ciascuna delle quali rappresenta nei fatti un singolo organismo. Mentre tutte quante collegate assieme, come si presentano comunemente in natura, prendono il nome di coccolitosfera, nella placida consapevolezza del più elevato grado di protezione, nonché solidità strutturale, derivante da tale particolare configurazione. Molte sono d’altronde le teorie, nessuna delle quali confermate, sul perché esattamente questi microrganismi tollerino il dispendio di una così elevata quantità di risorse, al fine unico di ricoprirsi di un’armatura che non serve a molto contro i loro nemici principali, piccoli pesci, zooplankton predatorio e larve di molluschi. Inclusa quella che vedrebbe un simile “vestito” come protezione da infezioni virali, piuttosto che ausilio al controllo della temperatura e del galleggiamento, piuttosto che una mera conseguenza collaterale del particolare approccio da parte dei coccolitofori alla produzione di clorofilla. Ciò detto, tale strategia evolutiva sembrerebbe poter vantare non soltanto effetti significativi sulla prosperità biologica dei suoi conduttori, ma anche la composizione stessa, ed il possibile destino futuro, dell’intero ecosistema marino del nostro mondo…

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Le fluttuanti moltitudini, un popolo di microbi sopra le nostre teste

L’appel du vide, o richiamo del vuoto è un termine impiegato in campo psicologico, per definire l’insensata e immotivata pulsione umana a compiere un balzo da un’altezza significativa, possibilmente all’origine di un’alta percentuale di suicidi. Il che costituisce in un certo senso un’astrazione poiché il “vuoto”, sia in natura che altrove, semplicemente non esiste in questo vasto Universo. Così studi contemporanei hanno dimostrato con alta probabilità, nel corso degli ultimi anni, come persino gli ampi spazi tra i distanti ammassi stellari, che noi siamo soliti chiamare galassie, contengano stralci di materia espulsa, micrometeoriti ed altre particelle invisibili all’occhio scrutatore dei telescopi. E secondo la legge del micro che riprende il macro, lo stesso può avvenire su un pianeta vivente, come la Terra, dove non è tutto visibile tutto ciò che parla o mostra un anelito procedurale alla prosperità o prosecuzione della propria dinastia. Replicando se stesso finché ne ha la forza. Oppure, in base ai crismi di un diverso regno, raggiungendo il sito idoneo ad affondare finalmente sospirate radici. Nella costituzione del più effimero ma pervasivo dei biomi, affine per molteplici punti di vista al tipo di creatura responsabile di una stragrande maggioranza della biomassa oceanica; proprio per questo, siamo giunti a definirlo aeroplankton. Il primo strato non è nulla di eccessivamente preoccupante: particelle dai 100 ai 5 micron, principalmente composte di pollini di origine vegetale, cadono a terra rapidamente, percorrendo al massimo qualche metro dai rami che si sono dimostrati in grado di generarle. Ma è sollevandosi di qualche metro ancora, che le cose iniziano a farsi davvero interessanti, con artropodi e nematodi trasportati via dal vento grazie al proprio specifico intento. I primi, come nel caso dei ragni, grazie alla costituzione di paracadute per la tecnica del balooning, utile a favorire la dispersione animale. Mentre i secondi, principalmente vermi in grado di costituire il phylum di animali più diffuso al mondo, sfruttando una superficie proporzionalmente superiore al proprio peso, come piccoli alianti costruiti dalla natura. Proseguendo dunque il nostro viaggio ideale verso l’elevata stratosfera, andiamo incontro a quello strato di leggiadri batteri, che percorrono le invisibili autostrade del sopra-suolo, colonizzando in questo modo i luoghi più remoti della Terra. Ed ancor più la stessa cosa si palesa, nell’iperboreo maggiormente estremo, dove i virus che sussistono tra vita e morte volano in paziente attesa del calmarsi delle correnti, per tornare nuovamente a portata dei loro ospiti elettivi da colonizzare con efferato trasporto. Ed è stato proprio quest’ultimo aspetto, negli anni appena antecedenti all’epoca del Covid, a suscitare un tardivo interesse scientifico nei confronti della vita che ci sovrasta, attraverso una serie di studi culminanti con quello di scienziati delle università di Granada e San Diego (Isabel Reche et al. – 2018) ripreso da schiere di testate divulgative e non, con titoli ad effetto quali: “Milioni di virus cadono continuamente dai cieli”. Un’allusione al problema, piuttosto che l’offerta programmatica di un potenziale rimedio. D’altra parte, siamo organismi che si sono lungamente evoluti nel presente contesto. Dunque come mai potrebbe, quest’ultimo, riuscire ad anticipare l’estremo attimo della nostra materiale esistenza?

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