Lo strano fenomeno che sta lentamente ingrandendo l’oceano Atlantico

Nel 1960, il professore di geologia americano Harry Hammond Hess avanzò una proposta rivoluzionaria. Grazie all’impiego di un sistema tecnologico che aveva imparato a conoscere durante la seconda guerra mondiale, come capitano del trasporto truppe USS Cape Johnson, era riuscito a far propagare una serie di onde sonore fino al fondale del Pacifico tre le Filippine, le isole Marianne ed Iwo Jima. Così sfruttando la potenza del sonar, egli aveva scoperto l’esistenza di una serie di catene montuose in punti arbitrari dell’oceano, punteggiante di vulcani attivi dalla cima piatta, che decise di chiamare guyot. La presenza di una simile, continua emissione magmatica, aprì la sua mente a un’imprevedibile possibilità. Che non soltanto il fondale marino si stava spostando lateralmente accompagnando la deriva dei continenti elaborata dal suo collega Alfred Wegener, ma che in particolari punti (le cosiddette dorsali) esso tendeva naturalmente a separarsi. Mentre copiose quantità di flusso magmatico, spinte verso l’esterno dalla convezione termica del mantello terrestre, fuoriuscivano a colmare costantemente quel vuoto. Il che sollevava, inevitabilmente, una serie d’importanti interrogativi: se nuovo fondale tendeva ad aggiungersi riversandosi costantemente verso le vaste pianure sommerse, perché la Terra non stava diventando ogni anno più grande? E visto che le dorsali continuavano ininterrottamente il loro processo d’eruzione, dove andava a finire tutto il materiale in eccesso? Domande la cui unica riposta possibile sarebbe stata destinata a restare lungamente difficile da dimostrare, benché Hess ne avesse immediatamente intuito la possibilità. Sarebbe quindi stato il suo collega George Plafker, nel 1964, a mettere tale ipotesi in correlazione con il grande terremoto che si verificò il 27 marzo di quell’anno in Alaska, identificandolo come il probabile risultato di un fenomeno di subduzione: la tendenza di una placca tettonica ad infilarsi sotto i confini di un’altra, scendendo al di sotto e lasciando che le rocce che la compongono tornassero a circolare nel grande flusso convettivo all’interno dell’astenosfera sottostante. Il che determina, essenzialmente, il metodo attraverso cui l’intero fondo degli oceani finisce per assomigliare a un titanico nastro trasportare, in cui attraverso un intero ciclo di svariati milioni di anni, ciascun singolo granello di sabbia sarà totalmente diverso dai suoi antichi predecessori. Dal che consegue, essenzialmente, l’esistenza di due diversi tipi di dorsale oceanica, che potremmo definire “additiva” e “di sottrazione” a seconda dell’ordine operativo che determina i suoi processi d’interazione in senso perpendicolare alla superficie. L’entità dei fenomeni e le loro più profonde implicazioni, tuttavia, sono tutt’ora oggetto di lunghe disquisizioni all’interno del mondo accademico, con uno studio condotto nel 2013 da scienziati dell’Università di Lisbona pronto a giurare sulla presenza di una linea di assorbimento della crosta a largo del Portogallo, la cui più probabile funzione potrebbe essere quella di avvicinare un giorno le coste dei due continenti eurasiatico ed americano. Mentre il consenso attuale, sulla base di osservazioni effettuate a largo dell’Islanda e analizzato anche in una recente pubblicazione (Matthew R. Agius dall’università Roma Tre e colleghi presso quella di Southampton, UK) sulla rivista Nature del gennaio 2021, vede convenire gli interessati sulla teoria che il processo inverso sia continuamente in atto nel punto geograficamente denominato dorsale Medio-Atlantica, con una quantità di emissioni tale da aver generato progressivamente un accumulo di sedimenti capace di far sollevare il livello del fondale marino. Riuscendo a spiegare, finalmente, lo strano aspetto dei fondali oceanici ogni qualvolta venivano sottoposti all’osservazione mediante un ulteriore tipologia di strumenti…

La progressione naturale dell’ampliamento di un fondale oceanico non può che sottintendere, da qualche altra parte, il riassorbimento di materiali all’interno del grande globo incandescente che si trova al di sotto. Potremmo individuare anche in questo, la lunga sussistenza dei processi che impediscono alla Terra di trasformarsi in un gigante gassoso, ed infine una stella.

Il magnetometro vettoriale è l’apparato capace di misurare, una volta puntato in una specifica direzione, l’entità e l’estensione di un campo magnetico, permettendo di trarre importanti conclusioni sulla sua natura. Il che possiede importanti applicazioni nel campo della geologia ad ampio spettro, data l’ingente quantità di ferro facente parte della composizione del nostro pianeta. Fin dall’epoca dei primi approfondimenti da parte di Hess, quindi, gli scienziati avevano rivelato un’interessante anomalia dei fondali mediante l’impiego di potenti antenne magnetometriche trascinate dai vascelli o montate a bordo di aeromobili di diversa natura: la maniera in cui i sedimenti accumulatisi a partire dall’attività eruttiva sommersa sembrassero disposti sulla base di una serie di strisce successive, separate da intervalli stranamente regolari neanche si trattasse del più vasto ed antico di tutti gli attraversamenti pedonali. Ciò che essi stavano osservando, fu successivamente compreso, costituiva nient’altro che l’effetto delle progressive inversioni magnetiche dei poli terrestri, capace di modificare in alternanza la naturale disposizione del materiale magmatico proveniente dal profondo. La misurazione di tali spazi all’interno dell’oceano Atlantico avrebbe perciò consentito di determinare, grazie all’applicazione di una scala cronologica già nota in precedenza, l’effettiva velocità del fenomeno noto come espansione del fondale oceanico, pur continuando ad accettare i dubbi sulla sua effettiva direzione. Un ritmo non del tutto insignificante e stimato, approssimativamente, attorno agli 0,02 metri l’anno.
Ora tutto questo potrebbe sembrare, in linea di principio, insignificante rispetto all’aumento del livello dell’acqua dovuto al progressivo scioglimento dei ghiacci polari e gli altri effetti del mutamento climatico terrestre, benché sia importante notare come il progressivo ampliamento dell’oceano dovuto all’emissione magmatica della dorsale non sia soltanto dovuto all’innalzamento dello strato di accumulo sottostante. Bensì all’effettivo spostamento LATERALE delle placche planetarie, inclusive di quegli spazi emersi che siamo abituati a chiamare i continenti. Il che significa, tradotto in termini molto semplici, che tra qualche milione di anni (la stima più accreditata si aggira tra i 200 e i 300) la separazione tra Eurasia, Africa, America ed Australia potrebbe finire per venire meno, portando alla formazione rinnovata di un’unica massa indivisa, del tipo inconcepibile fin dall’epoca largamente antecedente all’estinzione dei dinosauri. L’effettivo aspetto di un tale ammasso futuro, tuttavia, è oggetto di dubbi sulla base dell’accettazione della prima o seconda versione della storia (ovvero se sia effettivamente l’oceano Atlantico, o quello Pacifico a crescere ogni anno). Con l’idea di partenza che vedeva la possibile genesi della cosiddetta Pangea Ultima, un territorio formato all’incontro dei diversi pezzi del puzzle presso la dorsale Medio-Atlantica. Mentre l’ipotesi inversa, basata sulla subduzione condotta principalmente in corrispondenza del grande anello di fuoco (la lunga “linea critica dei terremoti” che coinvolge Filippine, Giappone, California ed Alaska) vedrebbe un più probabile congiungimento al centro dell’oceano Pacifico, con la conseguente creazione della Novopangea, opposta interpretazione di un possibile super-continente planetario. Visione che appare ancor più probabile, grazie al nuovo studio italo-inglese del 2021 capace di dimostrare un’interscambio magmatico ancor più ingente di quello precedentemente sospettato tra gli strati superiori dell’astenosfera e il mantello. Per un’interrelazione capace di estendersi in profondità di fino a 660 Km sotto la superficie.

La futura formazione della Pangea Ultima, benché meno probabile causa la necessità d’inversione dei processi in essere, continua a fare la sua comparsa in una lunga serie di trattazioni e diagrammi. Forse perché, in essa, i nostalgici individuano un ipotetico ed auspicabile ritorno alla perduta Età dell’Oro dei Primordi.

Eternamente sottoposta a quel variegato processo di trasformazioni che sono in grado di farne un pianeta “vivente” diversamente dagli statici ruderi che sembrano accompagnarla nel grande viaggio attraverso il cosmo, assieme al suo sole incandescente, la Terra continua quindi a cambiare regolarmente il suo volto. Del tutto indifferente ai “piccoli” inconvenienti che questo potrebbe arrecare, lungo l’estendersi di un’ipotetica civiltà capace di sopravvivere per svariate centinaia di milioni di anni.
É in definitiva particolarmente poco probabile, alla fine, che gli esseri umani possano essere ancora presenti per godersi gli ampi spazi che verrebbero a crearsi, camminando agevolmente le poche centinaia di chilometri rimasti tra Parigi e New York. Causa il precedente sopraggiungimento del fenomeno d’estinzione lungamente atteso, oppure per l’effetto diametralmente opposto sul corso della nostra lunga e travagliata storia: la dispersione degli esseri attraverso vaste distese cosmiche, attraverso l’impiego di una nuova tipologia di vascelli. Non più influenzate dalle grandi onde dell’oceano, bensì un altro tipo d’influsso gravitazionale, testimonianza dell’antica esplosione all’origine del cosmo stesso.

Lascia un commento