Sotto il suolo dello stadio, lo scheletro incompiuto della Torre quasi-Eiffel di Londra

Quattro fori verticali, oscuri e quasi totalmente ingombri, di detriti, ghiaia aggrovigliati resti di vegetazione. Nient’altro che gli ennesimi, profondi scavi oltre la scorza della superficie londinese, sopra cui l’esponenziale crescita della città britannica per eccellenza propagò le sue propaggini, coprendo ciò che era per dar spazio a quello che sarebbe diventato. Un luogo di gioia, si, divertimento. Di scontri epici per il piacere delle moltitudini. E non ci sono dubbi che lo stesso Edward Watkin, facoltoso Baronetto, membro del Parlamento, capitano d’industria controllore di ben nove (nove!) linee ferroviarie, sarebbe rimasto profondamento colpito dall’arco metallico reticolare dell’odierno Wembley Stadium, sostegno per un tetto che riesce a fare a meno di colonne, travi o altri opachi elementi capaci d’ostruire l’osservazione della partita. Eppure, “Perché non costruire qualcosa capace di svilupparsi maggiormente verso l’alto?” Si sarebbe assai probabilmente chiesto dal pulpito dell’Oltretomba. “Il primato in quel particolare campo, ancora oggi, sembrerebbe appartenere ai soliti, implacabili, fieri oltre ogni ragionevolezza… Francesi!”
Nessuno può d’altronde potrebbe individuare con cognizione di causa la sequenza logica d’eventi o considerazioni, attraverso cui questa figura sorprendentemente accantonata dalla storia giunto all’età di 72 anni guardò dall’altra parte della Manica e decise che a partire da quel fatidico momento, il suo campo d’investimento sarebbe stato lo sviluppo di un parco dei divertimenti. Oltre al superamento del record conseguito soltanto tre anni prima nel corso dell’Esposizione Universale parigina, con la gremita inaugurazione di quello che potremmo tranquillamente definire come il primo grattacielo europeo. Acquistato dunque un appezzamento di terreno presso il sobborgo ai margini, un villaggio di periferia con soli 200 abitanti noto in epoca medievale come Wemba Lea, egli chiamò presso i suoi uffici alcuni dei più rinomati architetti dell’epoca. Esponendo in modo esauriente le sue direttive, inclusi giardini, giostre, laghetti per escursioni acquatiche ma soprattutto, un ago acuminato all’indirizzo delle nubi, sotto forma di struttura per lo più metallica che potesse superare con largo avanzo l’ambizione quasi utopica della Tour. Con forse la più significativa delle sue missive indirizza, nello specifico, a Monsieur Gustave Eiffel in persona, il quale non esitò a rispondere: “Devo purtroppo rifiutare la sua generosa offerta. Se progettassi adesso un edificio più alto, temo che il popolo di Francia non mi considererebbe più il buon francese che io spero di essere.” Il che costituiva un eufemismo alquanto blando, per ciò che avrebbe indotto i più integralisti dei suoi compatrioti a chiedere l’impiego della sempre popolare, non ancora del tutto arrugginita ghigliottina del Champ-de-Mars. Lungi dal perdersi d’animo per tale contrattempo, l’industriale dai lunghi trascorsi decise allora di fare quello che chiunque altro avrebbe immaginato a quel punto: indire un concorso, capace di attirare l’attenzione di tutto il regno…

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L’isola segreta che più volte fu forgiata soltanto per essere inghiottita dalle acque del Mar Mediterraneo

Nel capitolo 89 del secondo libro della Naturalis Historia, Plinio il Vecchio scriveva testualmente: “Insula in mari repente exorta est, ex profundo mari, cum magna fragore et fumus et lapides iactarentur.” Era il primo secolo d.C. Visione onirica di un tempo irraggiungibile, realizzazione mistica del volere di divinità marine? Oppure un effettivo fenomeno da registrare negli annali, destinato a creare un lascito effettivo nella memoria storica del popolo siciliano? Trascorsero ben 10 secoli affinché di nuovo, tra gli scritti coévi, si potesse individuare una seconda traccia della misteriosa terra emersa priva di un nome. Quando il cronista itinerante di origini curde Ali Ibn al-Athir menzionò di nuovo l’Insula Ignis nel suo al-Kāmil fit-Tārīkh (“La Storia Completa”) come una landa emersa dalle fiamme, che prestò sparì di nuovo tra i flutti salmastri della superficie marina. Tralasciando ulteriori avvistamenti saltuari all’inizio dell’epoca moderna, da parte di marinai di passaggio nel canale della Sicilia che comunque non riportarono su alcun tipo di mappa dettagliata l’estensione del fenomeno, l’estemporanea evocazione da parte della geologia sommersa non si palesò di nuovo fino a quello che, ad oggi, rimane uno dei primi e più feroci conflitti tra uno stato della penisola italiana e le grandi potenze imperialiste europee. Episodio in grado di costituire, per il suo svolgimento singolare, una lampante metafora della futilità di perseguire nuovi territori ad ogni costo, anche in assenza di reali basi pratiche o necessità esistenziali.
Siamo verso la fine di giugno del 1831 allora quando, tra le coste agrigentine e gli scogli di Pantelleria si verificò un improvviso sommovimento tellurico, tutt’altro che raro in quel particolare territorio di riferimento. Di lì a poco i marinai e pescatori che si trovarono a gettare l’ancora lungo le coste dell’intera regione riportarono a terra l’impressione di aver visto, lontano all’orizzonte, altissime colonne di fumo e pietra pomice che galleggiava sulle acque, in quantità che ben pochi di loro avevano precedentemente sperimentato nel corso dei loro viaggi. Un intero tratto di mare, in base alle cronache del tempo, sembrava inoltre ribollire, quasi al prepararsi di una spietata vendetta da parte dell’antico dio Nettuno. La cui creazione pratica, configurata come un doppio promontorio con in mezzo una pianura rocciosa dall’estensione complessiva di 4 Km quadrati, sarebbe stata finalmente circumnavigata, il 7 luglio di quell’anno, e descritta nel diario di bordo della nave Gustavo guidata dal capitano Francesco Trifiletti, un vascello da guerra borbonico appartenente alla flotta del Regno delle Due Sicilie. Il cui sovrano illuminato Ferdinando II, ricevendo la notizia inaspettata, ordinò subito di effettuare studi scientifici sullo strano fenomeno ed includerlo in termini approfonditi nella cronistoria dedicata alla posterità del suo governo. Tra i primi personaggi del mondo accademico epoca coinvolti, il docente di geologia berlinese Friedrich Hoffman, che si trovava in quel momento in Sicilia, il professor Carlo Gemmellaro ed il fisico al servizio del governo, Domenico Scinà. Ciò che il sovrano non ebbe la presenza o possibilità di fare, tuttavia, fu presidiare il nuovo territorio con truppe militari o di marina in pianta stabile, almeno fino all’incombente, infinitesimale ma pur sempre significativo assestamento nella distribuzione dei territori sui confini europei. Giacché in base alla legge degli uomini fin dall’epoca degli Antichi Romani, una Insula in mari nata rappresentava una criticità in materia di competenze amministrative dall’elevato grado d’incertezza. Essendo fondamentalmente l’unico appannaggio di colui, o coloro, che avessero l’ardire di piantarvi sopra un presidio di natura pienamente identificabile e acclarata…

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Qui giacciono betulle siberiane. Il cimitero di Tunguska, nato dalla furia cosmica nell’atmosfera

C’è una fondamentale linea di ragionamento che tende a rassicurare il senso comune, nell’affermazione genericamente corretta secondo cui: “La maggior parte dei corpi meteoritici tendono a bruciare per l’attrito quando entrano nell’atmosfera terrestre.” Ricordandoci il ruolo importante avuto dagli strati esterni della stessa materia planetaria terrestre, nel difendere la superficie, ove risiede la maggior parte delle forme di vita. Questo perché nell’immaginario collettivo, una pietra di qualsiasi dimensione sottoposta a quel tipo di forze, tende naturalmente a sgretolarsi diventando polvere fino a scomparire del tutto, o quasi. Cosa che non sempre, purtroppo accade. Laddove tale aumento di temperatura, in determinate condizioni o al contatto con particolari materiali, si trasforma piuttosto in un accumulo di forza. Che comprime gli atomi costituenti finché il reticolo di cui sono composti, semplicemente, non riesce più a tenere unita la struttura innata di quel corpo estraneo. Che in maniera subitanea ed altrettanto inevitabile, esplode.
Ora noi tutti conosciamo, in linea di principio e sulla base di pratici esperimenti, l’effetto potenzialmente avuto da una colossale esplosione ad alta quota, per esempio di tipo nucleare generata intenzionalmente dall’uomo. L’emanazione di onde d’aria e calore, la distruzione degli edifici assieme alla tragica dipartita di qualunque creatura fosse tanto sfortunata da trovarsi entro i confini della zona situata in posizione perpendicolare rispetto all’evento. L’emanazione della temibile ondata elettromagnetica, capace di arrestare il funzionamento della stragrande maggioranza di strumenti elettronici o complessi nella zona di mezzo continente o quasi. Nella stessa epocale maniera capitata, in almeno un caso nella storia moderna documentata nelle cronache coéve, in quel fatidico 30 giugno del 1908 presso il fiume solitario di Tunguska. Quando alle 7:14 di mattina con il sole già alto a queste latitudini, il cielo sopra il governatorato dell’Impero Russo di Yeniseysk (odierno Krasnoyarsk) si accese di una luce intensa ed inspiegabile. Subito seguìta, in base alle limitate testimonianze di cui disponiamo, da una serie di boati intensi e quindi, il sollevamento di un vento infernale che distrusse porte, finestre e gettò a terra gli abitanti d’interi villaggi, per fortuna non particolarmente vicini all’epicentro del disastro. Non così fortunati, dal canto loro, gli alberi della fitta foresta adiacente, destinati ad essere collettivamente obliterati per un’area di 2.150 chilometri quadrati per una quantità complessiva di 80 milioni di tronchi abbattuti, trasformando la verdeggiante taiga in una brulla e derelitta radura. Un epilogo che sarebbe potuto toccare se soltanto la meteora fosse caduta 5 ore più tardi, come amano ripetere i catastrofisti, all’intera capitale metropolitana di San Pietroburgo. Un episodio futuro sempre possibile, che potrebbe verificarsi letteralmente in qualsivoglia momento. Come venne ricordato a tutti, per l’effetto di una roccia fortunatamente molto più piccola dei 50 metri stimati nel caso siberiano, durante l’episodio del 2013 di Chelyabinsk…

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La sfera elettrica capace di confondere generazioni di filosofi del mondo antico e moderno

Nella seconda metà del XIX secolo il futuro Zar Nicola II si trovava con il padre nella chiesa di Alexandria a Petergof assieme al padre, per una vigilia notturna. Nei suoi diari egli avrebbe dunque raccontato in seguito di una sfera fluttuante di luce concentrata, apparsa all’improvviso in prossimità dell’iconostasi, la parete che racchiude il santuario delle chiese ortodosse. Allo spegnimento improvviso delle candele, la misteriosa presenza scoppiettante avrebbe dunque attraversato la navata, raggiungendo una finestra mentre l’attuale signore di tutte le Russie continuava impassibile a farsi il segno della croce. Suo figlio ed erede, inizialmente spaventato, avrebbe quindi all’improvviso compreso di dover confidare nella grazia di Dio. E da quel momento, non avrebbe più avuto paura di alcuna tempesta nei cieli questa Terra. Molte sono le teorie possibili sull’origine di un tale fenomeno, ammesso e non concesso che possa effettivamente essersi verificato, ma pochi i dubbi sul termine corretto per definirlo. Simili luci volanti rappresentavano un tipo di fenomeno, del resto, conosciuto e discusso almeno dall’Alto Medioevo, la cui definizione pratica è riassunta nel concetto di “fulmine globulare”. Un accumulo di energia visibile ad occhio nudo, sospeso e incandescente, possibilmente simile al fuoco di Sant’Elmo con un’importante, sostanziale differenza: la capacità e propensione a spostarsi. Talvolta innocuo, come nel caso russo, certe altre pericoloso; vedi l’episodio sperimentato più di cento anni prima dalla nave britannica HMS Catherine and Mary, a seguito del quale prese fuoco l’albero maestro, rovinando sul ponte e finendo per uccidere un membro dell’equipaggio. Laddove in innumerevoli altri casi, la sfera in questione è stata riportata incapace di dissolversi senza produrre, nel contempo, un qualche tipo d’esplosione potenzialmente letale. A tal proposito, lo studioso e naturalista Wilfrid de Fonvielle avrebbe scritto di come nel 1845 una sfera di luce verde fosse penetrata dalla finestra in una casa del villaggio di Salagnac in Francia, passando dinnanzi all’attonita abitante della dimora. Rimasta fortunatamente illesa mentre l’oggetto non identificato passava attraverso un muro, penetrava nel fienile e deflagrando improvvisamente, uccideva uno dei suoi maiali. Ed è proprio questa qualità migratoria, apparentemente indifferente ad ogni tipo di barriera architettonica o costruita dagli umani, ad aver costituito nel tempo una delle caratteristiche più difficilmente spiegabili di un tipo di evento reiterato, la cui origine parrebbe d’altra parte appartenere senza dubbi residui alla sfera dei fenomeni realmente esistenti del mondo della materia. Essendo stata sperimentata direttamente, in base ad una stima, da circa il 5% delle persone viventi, incluse molte figure storiche di leader e personaggi del mondo della cultura. Sebbene in molti abbiano provato attraverso le generazioni, fallendo miseramente, di attribuirgli un’origine inconfutabile e del tutto acclarata…

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