Può ancora essere chiamato millepiedi, se ha le corna da cervo ed appena nove paia di zampe?

State attente, piccole creature, a frequentare il verde giardino di un tuttologo. Perché potreste ritrovarvi classificate. Recitava nel 1882 un breve componimento della rivista umoristica londinese Punch: “Come illumina le sue giornate / l’Ape Operaia dei banchieri? / Studiando nei giorni festivi / Strani insetti e fiori. Il soggetto, John Lubbock, primo barone di Avebury nonché amico personale di Charles Darwin, uno di quegli eclettici personaggi vittoriani capaci di essere al contempo politici, esperti di finanza, filosofi naturali, studiosi delle antiche civiltà e nel suo particolare caso, persino entomologi. Per i molti studi pubblicati sull’origine, le caratteristiche e l’intelligenza di quella classe cosmopolita, nonché presenze zampettanti ad esse collegate per dimensioni e stile di vita. Saettanti forme non più lunghe di un paio di millimetri, che ad egli capitò di scorgere nell’ampio giardino della propria residenza secondaria a Birmingham, stimolando pressoché istantaneamente una curiosità ben allenata. Da che aveva scritto, nel 1862: “Un animale scaltro, pulito ed attivo. Ben diverso dalla stolida stupidità dei diplopodi (millepiedi) e la malinconica ferocia dei chilopodi (centopiedi).” Terminologia non propriamente conforme al metodo scientifico dei nostri giorni, benché ci offra la possibilità di comprendere come tale praticante avìto avesse già pensato bene di classificare gli esponenti della classe Pauropoda (dal greco pauros – pochi e podus – piedi) come parte della schiera di creature segmentate diurne o notturne, il che risulta essere meno scontato di quanto si potrebbe tendere a pensare. Questo perché i nostri pallidi amici, pur tendendo ad aggiungere le proprie zampe verso il raggiungimento dell’età adulta come i loro simili fin qui citati, ad un certo punto smettono essenzialmente di farlo, continuando ad ingrandirsi con modalità di un tipo maggiormente convenzionale. Essi raggiungono il proprio picco, in altri termini, a un gran totale di 18 zampe, meno di un quinto rispetto alla quantità lasciata intendere dalla rilevante collocazione sull’albero della vita. Una soluzione evolutiva che potremmo definire del “quanto basta” soprattutto quando si considera l’eccezionale agilità mostrata da questi comuni abitatori del sostrato, mentre si muovono e percorrono sentieri noti solamente a loro, nella costante ricerca di preziose fonti di cibo mediante l’utilizzo dei chemiorecettori sulle loro distintive antenne, caratterizzate da plurime ramificazioni apparentemente disinteressate alla simmetria. Utili a individuare le piccole aperture praticate da radici o ife fungine, lungo cui costoro scendono talvolta fino all’acqua di falda non potendo scavare direttamente, a causa della morbidità del loro copro. Nascosti agli occhi di chiunque avrebbe predisposizione o la tendenza a dare un senso alla loro stolida esistenza in scala millimetrica, ma cionondimeno e per quanto possiamo immaginare, innegabilmente importante…

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L’insolito guardiano con la cresta che vi osserva dalla cima del vischio africano

Chiedete a chiunque quale sia la caratteristica che rende il piccione meno attraente, ed egli vi risponderà senza particolari esitazioni “il colore”. Sognando e disegnando fin da giovani gli arcobaleni cromatici dei pennuti tropicali, magnifici pappagalli, uccelli del paradiso, anatre mandarine, guardiamo i nostri cieli con l’ardente bramosia, di scorgere coi nostri occhi un giorno gli esseri viventi che più d’ogni altro sanno ricordare i fiori o gli arcobaleni. D’altra parte il grigio, come il nero di sapienti corvi colti e meditativi, è un colore anonimo che può riuscire ad evocare l’eleganza. E c’è ben altro, come la forma e la modalità di porsi, che può determinare l’implicita grazia di un’animale. Quella che in molti sembrerebbero aver individuato, dall’eccezionale quantità di foto, video ed altra documentazione, creata in loco nei paesi sub-sahariani di Kenya, Malawi, Burundi, Tanzania, Uganda, Zambia… Ove l’ombra che si staglia contro il cielo è spesso non soltanto la diretta risultanza di un riverbero creato dalla luce. Bensì la sagoma riconoscibile, di uno dei tre alati Crinifer, il cui nome in lingua afrikaans di kwêvoëls trova la corrispondenza più internazionale e traducibile di “uccello vai-via”. Di suono e di fatto, vista l’assonanza del chiassoso verso grosso modo trascrivibile con l’espressione kei-kei, ewey, ewey (go-away) assieme all’indole territoriale che lo porta a prendere di mira le teste dei passanti accidentali, sfortunatamente avvicinatosi a quello che considera il suo nido segreto. In quanto avendo in comune con i colombi europei l’abitudine a costruire piattaforme a malapena stabili, con rami secchi e semplici sterpaglie, è ben cosciente di quanto sia facile scorgere da terra le sue due o tre uova. Eppur difficile riesce portargli un qualsivoglia tipo di rancore, se si apprezza l’abito che indossa, ovvero quell’aspetto distintivo in grado di distinguerlo con assoluta evidenza da qualsiasi merlo, corvide o passeriforme, l’alta cresta che si agita nel vento, la lunga coda a ventaglio. Ciò in quanto il genere delle tre specie a cui mi riferisco, che incidentalmente include anche gli ulteriori due “mangiatori di platani” C. zonurus e C. piscator, non appartiene a nessuna di queste famiglie bensì quella tipicamente africana dei musofagidi o turaco, uccelli arboricoli che vantano comunemente sfumature verde acceso ed ali rosso splendente, tanto da ricordare vagamente dei pappagalli. Ma anche Il caro Cocorito, si sa, può presentarsi, qualche volta in abito da sera…

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Le astute traiettorie che proiettano serpenti oltre le porte del Paradiso

Indubbiamente le foreste del Sud-Est asiatico sono divise dalle traiettorie d’innumerevoli creature scollegate dai pesanti limiti connessi alla difficile questione della gravità. Scoiattoli, lucertole oltre agli uccelli e insetti d’altri luoghi e si, persino rettiliani abitatori della cima di quegli alberi, gli oblunghi esseri carnivori che l’evoluzione sembrerebbe aver creato per riuscire a dominare anfratti angusti e l’ingombro territorio in mezzo a sterpaglia, foglie, radici ove nascondersi e giacere in agguato. Ma sapete cos’altro offre anonimato quando viene l’attimo di prepararsi a ghermire la preda? La distanza. E come sappiamo di gran lunga troppo bene, c’è un modo migliore di ogni altro per attraversarla. L’attimo sfrenato in cui si lascia indietro il punto dove i piedi toccano il terreno. Compiendo l’ulteriore passo, verso il vuoto e l’infinito. Eppure osservando all’opera il Chrysopelea ornata d’India, Vietnam, Cina, o una qualsiasi delle altre quattro specie meno comuni appartenenti allo stesso genere, la tipica impressione può sembrare quella di stare vedendo le conseguenze di un incidente; non c’è molto di aggraziato, simmetrico e dinamico del comportamento di simili rettili in volo. Mentre si agitano e contorcono a parecchi metri da terra, avendo lasciato la sicurezza di un ramo sopraelevato con l’apparente quanto inevitabile destino di precipitare al suolo. Finché nel prolungarsi di quell’attimo che tende alla catarsi, la parabola pare allungarsi ancora, e ancora fino all’estensione massima di una ventina di metri. Con l’ideale linea tratteggiata al passaggio dell’animale diviene simile al balzo di Icaro, fermamente intenzionato a lasciarsi alle spalle l’intricato carcere della bestia muggente. Un’operazione, in altri termini, già lungamente collaudata e che parrebbe trarre il più ampio beneficio dalla particolare configurazione fisica dell’affusolato protagonista, le cui molte costole ampiamente mobili possono allargarsi rispetto all’asse dello scheletro centrale. Cambiando ed appiattendo il suo profilo. Verso la creazione di un perfetto foil aerodinamico non dissimile da quello di un velivolo creato dall’uomo. Ciò benché si sappia già a partire dal 2005, grazie a uno studio pubblicato da Socha, Dempsey, LaBarbera, che la questione risulta essere molto più complessa di come appare. Laddove un fedele modello in plastica della creatura, lanciato in posizione inerte da un punto sopraelevato, si è semplicemente capovolto, precipitando rovinosamente a molti metri dal bersaglio ideale. Permettendo di comprendere come le molte mosse inesplicabili dell’originale, soltanto in apparenza casuali, avessero in realtà uno scopo cinetico estremamente funzionale all’obiettivo di riferimento…

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Piccolo carnivoro nascosto in bella vista: la tardiva scoperta dell’olinguito

Con le circa 270 specie note alla scienza il discorso tassonomico sugli esseri che hanno perfezionato il consumo di altre creature può sembrare spesso un discorso chiuso da tempo. Con il sistema ecologico della catena alimentare, in cui ogni piramide prevede al suo vertice soltanto un numero limitato di nicchie disponibili, la differenziazione degli stili di vita prevede d’altro canto dei confini chiaramente definiti, oltre i quali si tende a spingersi entro il reame della pura e imprescindibile fantasia. È perciò molto raro, con l’ultimo esempio americano risalente a 25 anni prima di quella data, che i libri dell’archivio vengano di nuovo aperti, per apporre il nuovo nome di qualcosa che si muove, respira e agguanta le sue prede con famelica chiarezza d’intenti. Fino all’inizio degli anni 2000 quando, osservando attentamente alcuni reperti custoditi al museo dello Smithsonian, il curatore della sezione dei mammiferi Kristofer Helgen non avrebbe notato una discrepanza per dimensioni, forma e dentatura nei crani a sua disposizione dei procioni di provenienza sudamericana. Particolarmente per taluni esemplari provenienti dalla Colombia, che parevano invariabilmente più piccoli degli altri appartenenti al genere Bassaricyon (bassaricione) alias olingo, abitante arboricolo della foresta nebulosa subtropicale. Il che avrebbe dato luogo ad una rapida presa di coscienza, seguìta dalla raccolta di dati e misurazioni accurate delle svariate centinaia di campioni presenti nei musei di tutto il mondo, per un periodo che avrebbe richiesto alla squadra di ricercatori da lui coinvolta un gran totale di 10 anni. Per giungere infine al consenso che una spedizione in loco, attentamente organizzata con l’obiettivo di trovare un esemplare vivo, avrebbe finalmente permesso di chiarire l’ipotesi latente. Opportunità ulteriormente sostenuta dalla comparsa online di una fotografia, scattata da un abitante del luogo nel 2013, che pareva discordante dall’esempio di una delle tre specie principali di bassaricioni già note. Un arrivo dell’intera equipe che avrebbe permesso, in breve tempo, non soltanto di confermare l’esistenza del “nuovo” animale chiamato scientificamente Bassaricyon neblina, ma addirittura caratterizzarne l’effettiva diffusione come relativamente frequente, a partire da altitudini remote tra i 1.500-2750 metri dove precedentemente i suoi parenti più stretti mancavano di attestazioni precedenti. Una delle ragioni per cui agli abitanti nella zona pedemontana delle Ande, fin da tempo immemore, era mancata l’opportunità di conoscerli approfonditamente. Assieme al fatto che questi animali assomigliano notevolmente, se visti da lontano, ai semplici esemplari giovani o più piccoli del comune olingo. Ma l’apparenza, come è noto, può frequentemente trarre in inganno…

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