L’ignifuga creazione della sabbia rossa, magnifica corona che la Terra indossa

La prima settimana successiva all’approdo della nave di ricerca britannica Endeavour il 29 aprile 1770, capitanata dal celebre James Cook, presso la baia situata nei dintorni dell’odierno centro tecnologico di Sydney, fu un periodo di eccezionali e rapide scoperte totalmente prive di precedenti. Soprattutto grazie ai due naturalisti presenti a bordo Sir Joseph Banks e Dr Daniel Solander, che inoltrandosi nel sottobosco retrostante il litorale, attraverso la tipica gestalt vegetativa ai margini della piana sabbiosa che in seguito sarebbe stata denominata kwongan, riportarono a bordo la più straordinaria serie di campioni botanici e vegetali, definendo chiaramente quanto fosse insolita e meravigliosa la vita nel più nuovo dei continenti, l’Australia. Colpendo in questo modo il capo della spedizione a tal punto, che il ruvido eroe della guerra dei sette anni per la conquista delle colonie della Nuova Francia decise in quel frangente di anteporre la scienza alla tipica nomenclatura incentrata sul prestigio della monarchia. E fu così che al sito d’importanza strategica primaria, riparato dal soffio feroce degli Alisei Sudorientali, venne attribuito l’aggettivo toponomastico di Botanic, poi accorciato in Botany Bay. Entrambi abili illustratori, gli entusiasti scopritori dedicarono dunque il tempo a disposizione in larga parte per mettere da parte, classificare e descrivere l’eccezionale varietà di fiori selvatici dalla distintiva forma, la colorazione diversificata al pari di qualsiasi menagerie piumata nelle principali corti d’Europa. Scegliendo in quel frangente, con chiara proprietà d’intenti, di dedicarne il genere tassonomico al più anziano dei due. Fu la nascita testuale del primo repertorio delle Bansia, piante cespugliose tipiche dei climi caldi e secchi, la cui manifestazione in epoca riproduttiva tra giugno e gennaio ad oggi costituisce un punto fermo nei giardini e nella commercializzazione dei fiori tagliati, a patto di trovarsi in un ambiente funzionale alla sua lenta ma sicura propagazione. Infiorescenza cilindrica e ovoidale, composta da centinaia di parti singole complessivamente sostenuta da brattee tomentose argentate, la cui struttura legnosa interna permane sulla pianta anche per anni successivi al completarsi della stagione. Con stimmi prominenti e produzione di nettare copioso, tale da costituire un vero e proprio punto di riferimento per uccelli e insetti impollinatori, soprattutto nel caso iconico della B. coccinea, versione con striature bianche e rosse del vistoso costrutto vegetale in oggetto. Tesoro anche a vantaggio di un’agile stirpe, particolarmente inusitata dal punto di vista degli studiosi europei: i piccoli mammiferi dotati di marsupio, parte importante dell’ecologia in quel recesso tanto alieno del nostro azzurro e familiare pianeta…

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Il castello costruito sul confine tra due mondi come chiave inespugnabile del mar Mediterraneo

Svettanti e abnormi prominenze sui confini delle terre frequentate dalle antiche civilizzazioni, le colonne d’Ercole servivano in maniera funzionale il proprio scopo mitologico e ancestrale: da una parte il monte Abila, massiccio forse corrispondente all’odierno Hacho che sovrasta l’unica città spagnola sulle coste africane. E dall’altra, la spettacolare roccia di Gibilterra, corpo monolitico formato da strati sedimentari, di calcari del Giurassico e dolomiti. Roccaforti molto più imponenti di qualsiasi costruzione eretta dagli umani, residui di una guerra tra giganti e onnipotenti esseri divini, piattaforme da cui gli occhi erano capaci di spaziare tra i continenti. Tanto fondamentali dal punto di vista strategico, soprattutto per quanto concerne quel sito diventato lungo il transito dei secoli “porta d’Europa” da rendere del tutto naturale il sanguinoso sforzo generazionale, compiuto attraverso i secoli dai frequentatori bipedi del quotidiano, per assicurarsi l’esclusiva posizione avvantaggiata nei confronti dei loro agguerriti nemici. A partire da quando, in base a fonti storiche non del tutto certificate, il potente comandante militare del Califfato Umayyade, Tariq ibn Ziyad sbarcò nel 711 d.C. con le sue navi nei più immediati dintorni, concedendo a tempo imperituro il proprio nome al grande promontorio. Che da quel momento sarebbe stato chiamato Jabal Ṭāriq, ascendenza etimologica della parola “Gibilterra”. Un sito da cui progettare e intavolare la propria conquista del regno iberico dei Visigoti, vasto e scoordinato consorzio di città relativamente indipendenti, che aspettavano soltanto di ricevere un vessillo sotto cui direzionare i propri sforzi dal punto amministrativo e situazionale. Ma prima che il sistema della Spagna islamica potesse raggiungere il proprio apice di sincretismo e prosperità, ogni rifornimento, ciascuna compagine fornita di armi e vettovaglie dovette poter essere tenuta al sicuro. E non è perciò improbabile che proprio in questo luogo, le truppe dei cosiddetti Mori potessero aver iniziato la costruzione di un elevato castello. Ciò detto e nonostante l’estensione impressionante che tale struttura avrebbe raggiunto a distanza di tre o quattro secoli, sono sorprendentemente poche le fonti storiche da cui trarre approfondite nozioni, almeno fino alla prima riconquista ad opera di truppe cristiane di Castiglia nel 1309 e la successiva cattura da parte della dinastia islamica dei Merimidi 24 anni dopo, a seguito di un assedio durato mesi e dal costo in termini di vite umane assolutamente non trascurabile. Cui fece seguito la demolizione dei terrapieni e palizzate esistenti, per costruire qualcosa che potesse risultare assai più duraturo, mediante l’uso di pietra calcarea estratta localmente e i mattoni rossi tipici dell’architettura magrebina: la prototipica Medina al-Fath, o Città della Vittoria. Un castello destinato a vedere tali e tante battaglie da restare persino oggi, a seguito della propria parziale distruzione, un luogo che sconfina nel più mistico ed evanescente regno della Leggenda…

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Il mito della lince-drago che riecheggia nelle grotte del lago Superiore

“Io… Noi… Aiutateci, Padre. Abbiamo infranto un Divieto per cercare agi e ricchezze nella vita terrena. Ora lo spirito segreto del Gichi-Gami è adirato con noi. E lo stesso, possiamo presumere, vale per il vostro Dio cristiano!” Claude Dablon, missionario, esploratore, storico e membro della Compagnia di Gesù inviato nel Nuovo Modo per volere di nostra Madre Chiesa, osservò attentamente il nativo degli Objiwe per meglio comprendere la portata del suo terrore. Allorché, facendosi il segno della croce, pose nuovamente la stessa domanda: “Da quale luogo stavate facendo ritorno, figliolo?” Annaspando per riprendere fiato, il giovane atterrito risposte: “Moningwunakauning, dove si posa il piccolo uccello dorato. Là dove Egli, tutt’ora, risiede…” Nel tentativo di decifrare lo strano termine in lingua algonchina, il chierico francese evocò nella mente una mappa memonica delle molteplici isole lacustri che i suoi compatrioti, anni prima avevano battezzato con nomi di varie derivazioni bibliche ed europee. Quindi azzardò un’ipotesi: “Voi state parlando… Dell’isola Madeline, giusto?” Il giovane, sbarrando ancora di più gli occhi, annuì. “La casa del grande manidoog, ahem, lo Spirito protettore delle acque profonde. Che ha difeso e protetto le acque di questo lago dagli… Stranieri.” Qui l’interlocutore congiunse le mani, al fine di enfatizzare di stare riferendo l’opinione di altri. “Ma la cupidigia è peccato, giusto? L’avevo detto a Chayton e gli altri di non andare in cerca del vecchio rame per costruire i tegami. Ma loro non mi hanno ascoltato, Padre, lo giuro!” Lentamente e laboriosamente, Dablon estrasse il significato fondamentale del racconto, che avrebbe in seguito annotato nei suoi diari del 1669-70. Un gruppo di diverse canoe locali aveva intrapreso la traversata con l’idea di raccogliere minerali preziosi presenti all’interno di una vecchia miniera. Impresa per cui i nativi, trascorsa una mezza giornata impugnando vanghe e picconi, erano risaliti a bordo apparentemente soddisfatti per intraprendere il viaggio di ritorno. Ma nel corso della traversata, qualcosa aveva attaccato la piccola spedizione facendola ribaltare ed a quanto pare, costando la vita alla maggior parte dei suoi compagni. Che tipo di essere, esattamente?
“Aveva occhi di brace, alla stessa maniera del Demonio del vostro sacro Libro. Ma quattro zampe simili a quelle di un puma. E una lunga coda uncinata, splendente come se fosse fatta… Di rame. La testa ricoperta di scaglie e una schiena pelosa, protetta da una schiera di fitti aculei…” Qui il gesuita aggrottò la fronte, perché aveva ormai compreso che il mostro non apparteneva ad alcuna categoria di animali precedentemente nota. Per questo alzò la mano, con fare clericalmente pacato. “Ed avete detto che questa creatura poteva parlare?” Ricadendo momentaneamente nell’uso della propria incomprensibile lingua, il Chippewa mimò una frase in particolare, cambiando voce ed agitando le mani alla maniera di affilati artigli: “Figli dell’uomo, avete rubato i giocattoli della mia prole. Follia ricada su di voi e possiate annegare nelle acque di questo lago. Così vi maledice… Mishipeshu, causa di ogni disastro acquatico e marino!”

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Il regno millenario creato dai tronchi caduti nel secondo maggior fiume della Louisiana

Nei resoconti della spedizione, inviata nel 1806 dal presidente Jefferson per percorrere il Red River raccogliendo dati geografici, topografici ed etnografici sul territorio della Louisiana acquistato recentemente dai francesi, venne descritta come un qualcosa di assolutamente inusitato. Un susseguirsi d’isole galleggianti, via via più dense e compatte, la cui superficie era composta di torba, fango e altri detriti. Ma le ossa sottostanti, facilmente visibili da una canoa, erano un groviglio di tronchi principalmente di cedri, pioppi e cipressi americani. Un uomo avrebbe potuto camminarvi sopra in qualsiasi direzione per molte miglia. Proseguire a bordo di un’imbarcazione, tuttavia, era del tutto fuori questione. Così l’astronomo Freeman, il medico Custis, il capitano Sparks e i 18 uomini di scorta, incluso un servitore, dovettero sbarcare e proseguire a piedi potendo affidarsi all’esperienza delle guide native del popolo Caddo, con cui avevano preso dei precisi accordi per poter passare indisturbati nei territori lungamente appartenuti ai loro antenati. I quali ben sapevano dell’esistenza ed estensione di quella che gli europei avrebbero chiamato “La Grande Zattera”: 260 Km abbondanti di un ingorgo di tronchi (logjam) versione fluviale delle condizioni di viabilità sperimentate sulle strade umane a seguito di un incidente o cantiere temporaneo attivo nell’ora di punta. Il cui fattore scatenante, lungi dal costituire un caso isolato, furono le piene ripetute del corso d’acqua in questione, tali da erodere il terreno e quindi catturare, come un pettine sul manto di un cavallo ad aprile, la folta e verdeggiante chioma della foresta soprastante. Con conseguenze tanto estensive e totalizzanti da permettere ai sedimenti di depositarsi in un particolare modo, mentre il flusso direzionale del corso d’acqua si trasformava in un susseguirsi di acquitrini e piccoli laghi. Ed è proprio studiando tale disposizione geomorfologica, incorporata attraverso i secoli nel reticolo idrico delle Grandi Pianure, che gli studiosi hanno potuto intavolare una stima realistica sulle tempistiche di formazione di un fenomeno di tale portata. Capace di proseguire, senza mai ridursi bensì vedendo incrementare a più riprese la propria grandezza, fin dal XII secolo, molti anni prima di qualsiasi insediamento umano nella regione. Come abbia potuto continuare tanto a lungo, non è difficile da comprendere. Giacché la Zattera non è una condizione fissa, virtualmente immutabile come un costrutto dell’odierna civilizzazione, bensì una condizione transitoria, sottoposta ad un continuo processo di evoluzione progressiva che avrebbe continuato ad alimentare la sua stessa esistenza. Almeno finché qualcuno, nei preliminari frangenti della storia moderna, non decise di averne avuto abbastanza…

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