L’annientamento pressoché totale della natura in quanto principio non-umano dell’esistenza può assumere molte guise o colori. Il meno probabile dei quali, nella maggior parte delle circostanze, è il verde. Tonalità considerata maggiormente rappresentativa di vegetazione, foreste, persino i campi coltivati che a loro modo, possono costituire uno spazio sicuro per fauna benefica quali insetti impollinatori, lombrichi, uccelli migratori. Esiste tuttavia un contesto, quello dell’agricoltura intensiva, in cui questa felice comunione cessa totalmente di sussistere. Anche per il semplice fatto, tra molti altri, del tetto che ricopre le coltivazioni create con al centro delle aspettative l’esigenza di riuscire a soddisfare l’economia di scala contemporanea. Che nella comarca andalusa di Poniente Almeriense, in corrispondenza della costa meridionale della Spagna con epicentro presso il comune di El Ejido, un’intera zona di 260 Km quadrati possa essere stata sottoposta a tale trattamento, è d’altra parte una questione raramente discussa o sottoposta ad alcun tipo di osservazione o regolamento da parte dei legislatori europei. Forse perché tale zona dove tutto è bianco, per l’effetto riflettente di un distretto che si estende fino all’orizzonte ed oltre, è ormai da molte decadi una condizione necessaria a rifornire tutto l’anno un’alta e significativa parte dei supermercati europei.
L’idea che molti tipi di frutta non abbiano più una vera stagione, il fatto che mangiare l’insalata d’inverno sia del tutto normale, l’esistenza stessa di concetti come la macedonia fuori da periodi molto particolari o i dolci di Natale al cioccolato ad ogni latitudine sono la diretta risultanza di una serie di processi sviluppati soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, grazie all’evoluzione dei trasporti ma anche e soprattutto la creazione di hub produttivi dall’elevato grado di efficienza procedurale. Luoghi dove la crescita vegetale è sostanzialmente cadenzata da gesti del tutto artificiali e l’aspetto meteorologico del clima, fatta eccezione per grandinate o tempeste particolarmente distruttive, non viene semplicemente calcolato all’interno dell’equazione. Dal che nasce il cosiddetto Mar de Plástico, così soprannominato successivamente alla pubblicazione di una foto satellitare da parte della NASA in cui questo paesaggio emerge prepotentemente tra i profili del Vecchio Continente, contrastando in modo netto tra la terra brulla e il blu profondo del Mar Mediterraneo. Come una megalopoli ma interamente dedicata alla coltivazione di cose come pomodori, cetrioli, melanzane, peperoni, meloni, cocomeri ed innumerevoli altri “doni” della terra, sotto un telo di poliestere del tutto o parzialmente trasparente. Distribuito in quello che costituisce la spropositata equivalenza di un vero e proprio labirinto di stabilimenti, costruiti l’uno a ridosso dell’altro. Ed angusti pertugi riservati agli spostamenti umani, dove l’aria circola soltanto in quantità e modalità limitate…
La coltivazione istituzionale all’interno della regione di Almería comincia a prendere piede all’inizio del XX secolo, con l’importazione di tecniche ben collaudate come l’irrigazione a goccia, la sabbiatura dei campi e la gestione integrata dei parassiti. Fu dunque a partire dagli anni ’60 che il crescente impiego di serre costruite in polietilene, come sostituzione del più tipico ma anche costoso vetro, iniziò a diffondersi a macchia d’olio, coinvolgendo i processi di una grande quantità di aziende indipendenti. Fino alla letterale proliferazione e la costituzione di una paesaggio senza precedenti, capace di circondare letteralmente una serie di comuni dall’architettura tipica di queste terre, diventati delle letterali isole all’interno dell’immensa distesa abbagliante priva di caratteristiche o sostanziali punti di riferimento. Un contesto tanto estremo nell’aspetto e funzionamento, per non parlare delle aspettative in termini di volumi pronti all’esportazione, dunque non poteva semplicemente continuare a rispondere alle aspettative ragionevoli del mercato del lavoro di riferimento, istituendo un processo sostanziale di assunzione diffusa d’immigrati senza documenti né un permesso di soggiorno valido per far valere i propri basilari diritti umani. Dal che l’attuale situazione, simile a quella vissuta in particolari zone del meridione europeo compresa l’Italia, in cui un letterale popolo di lavoratori pronti a tutto vengono tenuti entro i confini delle aziende, con stipendi tutt’altro che rispettabili e condizioni lavorative offerte in base al massimo ritorno d’investimento. Il che significa temperature elevate, orari massacranti, nessuna pausa significativa nel corso delle ore diurne. E la dura consapevolezza, continuamente rafforzata, che cercare fortuna altrove non è semplicemente possibile, pena la deportazione verso dei contesti dove le condizioni risulterebbero essere persino peggiori. Uno stile di vita non necessariamente sostenibile, che sfociò effettivamente nel febbraio del 2000 nei cosiddetti fatti di El Ejido, una rivolta di centinaia di giovani coltivatori armati in seguito alla condanna di un lavoratore marocchino con problemi psichiatrici, che aveva aggredito e ucciso due datori di di lavoro spagnoli. Il che avrebbe portato ad un’accesa settimana di violenze xenofobe e danneggiamenti, riportati sotto controllo dopo l’intervento della polizia ed una lunga serie di arresti. Il che avrebbe se non altro portato ad una rara copertura mediatica e disquisizione su scala nazionale dei problemi vissuti quotidianamente presso il Mar de Plástico, sebbene il dialogo in materia avrebbe faticato ancora una volta ad uscire dai confini di Spagna. A differenza dei prodotti vegetali provenienti dagli angusti recessi splendidi, con i principali clienti situati nelle zone settentrionali del continente, come i paesi nordici e l’Inghilterra. Per di più facendo affidamento sul trasporto su autocarri, una tra le metodologie maggiormente inquinanti e problematiche dal punto di vista dell’ambiente terrestre.
Pur potendo arrecare inaspettato beneficio al riscaldamento terrestre, in forza della quantità di luce riflessa per l’albedo candido di tali e tanti tetti del colore di un ghiacciaio a livello del mare, come anche dimostrato dai dati raccolti a partire dal 2008 dai ricercatori guidati da Pablo Campra dell’Università di Almeria, l’impatto ecologico delle invernadores potrebbe difficilmente essere caratterizzato come una somma positiva. In funzione non soltanto del territorio occupato, ma anche della quantità di rifiuti e scorie prodotte in modo collaterale nonostante l’ottimizzazione dei processi e dei materiali. Come duramente esemplificato nel caso celebre del 2013, di un capodoglio ritrovato spiaggiata sulle coste meridionali di Spagna, con oltre 17 Kg di plastica all’interno dello stomaco in larga parte proveniente dal secondo “mare” della regione. Una letterale chiazza di non esistenza facilmente visibile dalla Stazione Spaziale Internazionale, a solenne monito di quello che potrebbe, un giorno, diventare il nostro futuro. Così come in funzione di stereotipi desueti ci si sarebbe aspettati di riuscire a vedere la Grande Muraglia (non è vero). Giacché non è la lunghezza bensì il contrasto tra tonalità distinte, a dar luogo alla possibilità di scorgere le cose create dall’uomo. Ricordandoci quanto lontani siamo giunti, ormai, dalla condizione originale di partenza. E il verde di quella pura vegetazione che cresce, senza limiti né condizioni, ben lontano dall’ostinata ed insaziabile insoddisfazione dei viventi.