Chiunque abbia frequentato per un tempo sufficientemente lungo certi distretti di Internet avrà familiarità intrinseca con la coscienza videografica, pulsione collettiva che allontana l’istintiva percezione del pericolo ogni qual volta si stringe saldamente in mano il cellulare, puntando l’obiettivo della videocamera verso qualcosa di unico, meraviglioso e dunque memorabile per chiunque potrà osservarlo in differita, sui social o altrove. È il segreto pretesto dietro al tipico comportamento di coloro che scavalcano i parapetti del Grand Canyon, o si sdraiano agli estremi margini della Trolltunga, pietra norvegese in bilico sopra l’ondoso abisso del fiordo antistante. Eppure esistono dei luoghi, presso alcuni dei siti turistici potenzialmente più pericolosi al mondo, dove simili comportamenti vengono sapientemente veicolati. Tramite l’installazione d’infrastrutture che paiono soltanto all’ultimo stadio di precarietà evidente; ma costituiscono, in ogni loro singola parte, l’espressione di uno studio ingegneristico davvero approfondito. Offrendo il massimo della sicurezza possibile, considerato un contesto come il colossale ferro di cavallo scrosciante di Iguazu, al confine esatto tra Brasile e Argentina. Per coloro che, atterrati al vicino aeroporto eponimo e saliti sopra il treno dei visitatori che accompagna le persone all’ottava cascata del mondo per flusso idrico complessivo (e certamente una delle più spettacolari, assieme a Niagara e Victoria) ogni predisposizione all’effettivo sdegno del pericolo parrebbe allora realizzarsi, nel momento in cui mettono il primo piede sul cosiddetto Circuito Superiore, una rete d’interconnesse passerelle, costruite primariamente sul lato di Buenos Aires, capaci di condurli a pochissima distanza da un balzo di 40 metri giù nel colossale inferno bianco di schizzi e gorghi fluviali. E fin qui nulla di strano, finché non si guarda verso il basso per prendere atto del flusso medio di 1746 metri cubi al secondo, che in determinati momenti parrebbe concentrato concentrato in buona parte contro quei piloni ben piantati nel suolo basaltico sottostante. Soprattutto quando nel periodo della stagione delle piogge, il livello delle acque s’innalza ulteriormente, evocando l’immagine esecrabile degli abitanti di un centro abitato, che si affollano per raggiungere attraverso un battistrada instabile l’altro lato di un precario attraversamento prossimo alla chiusura. Nulla di più diverso potrebbe d’altronde costituire la realtà, vista la lunga storia ed i trascorsi di acclarata sicurezza degli stretti corridoi, esistenti ormai in diverse iterazioni da un periodo di quasi cent’anni a questa parte…
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Profezie del tetto d’Africa: mille metri sull’abisso che divide le pianure della Namibia
Rappresenta una costante nella storia della religione umana, il modo in cui venire al mondo in determinati territori, tanto magnifici e distintivi, può ispirare il tipo di pensiero filosofico capace di costituire il fondamento di un di una consapevolezza del tutto nuova. Così il Tibet per le scuole del Buddhismo ed allo stesso modo, quella massa di rilievi non meno imponenti al tempo del super-continente Gondwana, che ancora oggi costituiscono le alture niente affatto trascurabili della regione dell’Angola. Come l’orlo di una vasta piattaforma africana, che improvvisamente s’interrompe per incombere sopra i territori del remoto meridione, molto più vicini al livello del mare. Qui nacque nel XVII secolo, a poca distanza dal fossato nella cittadina di Kibangu in quello che costituiva all’epoca l’impero coloniale del Kongo, la celebrata predicatrice dell’unità Africana, nonché fondatrice dell’eresia antoniana, Kimpa Vita, alias Doña Beatriz. Capace di fondare la sua disciplina teologica su due dialoghi fondamentali: quello nei suoi sogni con l’egiziano Sant’Antonio il Grande, ed uno più diretto e quotidiano, con l’anziana profetessa di Monte de Kibangu, Apollonia Mafuta. La quale riteneva che il Dio cristiano fosse infuriato con il re del Kongo, per aver abbandonato il suo popolo, e nel momento in cui la cultura originaria del suo popolo fosse andata totalmente perduta, una colossale montagna avrebbe preso fuoco, conducendo il mondo all’Apocalisse. Il nome di questo rilievo: Serra da Leba, oggi celebre per la presenza di una caratteristica geologica nota come fenditura di Tundavala. Un passo montano raggiungibile mediante irti sentieri all’altitudine di 2.200 metri, affacciato sopra un vuoto colossale non più alto di 1.000. L’ideale rampa di lancio per generazioni d’internazionali praticanti della nobile arte del base jumping, se soltanto non fosse tanto remoto e relativamente sconosciuto ai turisti. Non che manchino su Instagram le occasionali foto ricordo scattate dagli escursionisti, in cui è precario il modo in cui si resta penzolanti da una roccia che la prospettiva sembra rendere sospesa sopra il grande vuoto, pur trovandosi nella realtà dei fatti a pochi metri da terra.
Molto prima che ciò fosse possibile in qualunque modo percepito come necessario, la fenditura fu piuttosto celebre per una triste usanza locale, che anticipò largamente la venuta dei portoghesi e conseguente guerra tra fazioni contrapposte interne. Ovvero il modo in cui chiunque si ribellasse all’autorità del sovrano di turno, fosse solennemente condotto fino all’orlo dell’abisso, per scrutare un’ultima volta quel magnifico paesaggio erboso. E quindi spinto innanzi, senza remore o rimorsi, per lasciare il mondo dei viventi e fare il proprio ingresso nell’immensità…
Nella conca del vulcano che ospita un intero comune agricolo messicano
Non è sempre facile riuscire a immaginare, in ogni aspetto degno di essere notato, la vita di un’intera comunità che ha disposto le sue abitazioni attorno ad un cono. Non di quelli affusolati e preminenti, che ancora eruttano talvolta spruzzi di lapilli e ceneri pescate dal profondo (assurdo certo, ma non impossibile che possa capitare) bensì il tipico residuo di un vulcano che fu spento per migliaia di anni, prima che il cratere si allargasse fino all’approssimazione di uno stadio naturale. Per poi riempirsi, degnamente, d’acqua piovana. Endoreico è stato questo luogo, dunque, per incalcolabili generazioni. Almeno finché tra il XV ed il XVI, scacciando vi le antiche popolazioni di pescatori situate presso quello che veniva chiamato il lago di Chalco, le genti che credevano di averne facoltà divina provvidero a drenare una significativa parte di quel bacino idrico ed in particolare, quella situata all’interno di un perfetto anello di tufo, conseguenza d’intrusioni laviche oltre l’atavico della mera civilizzazione umana. Circa 1.500 anni erano passati, per dare una misura cronologica, dalla sua formazione per effetto dei processi terrestri ed ora per la prima volta era “vuoto”. Una condizione destinata a non durare eccessivamente a lungo, giusto il tempo di scoprire l’eccezionale fertilità della sua terra. Permeata di sostanze minerali derivate delle ceneri basaltiche con ricco contenuto di ferro, ed altri minerali in grado di fornire nutrimento alle piante. Abbastanza da attirare nel giro di pochi secoli, in questa landa priva di infrastrutture ma situata a una distanza relativamente breve da Città del Messico, una quantità esponenzialmente maggiore di abitazioni.
Fast-forward fino all’epoca moderna, per vederne il risultato senza termini di paragone: un’intera città, di quasi 400.000 abitanti, le cui strade e case paiono inglobare le pareti del cratere, piuttosto che essere dominate da esse. Avendo gli abitanti trovato, al suo interno, una fonte di cibo assai preziosa nel contesto arido del Distretto Federale Messicano. In quella che sarebbe diventata, ancor prima della presidenza di Porfirio Diaz e la collaborazione con il cognato ed uomo d’affari Íñigo Noriega Lasso finalizzata ad espandere e completare il drenaggio lacustre nel XIX secolo, un polo autogestito e fondamentalmente anarchico di fattorie frequentemente inclini a contendersi il territorio. Fino a ricevere la denominazione ufficiale di comune negli anni ’30 del Novecento con il nome di Valle de Chalco Solidaridad, evento a seguito del quale lo stato nazionalizzò le concessioni, distribuendole equamente (o almeno così si crede) tra gli aventi diritto allo sfruttamento. Dando luogo ad una situazione d’equilibrio che da ogni aspetto rilevante, continua tutt’ora.
Escursione cromatica sull’isola che mangia l’ocra del suo terreno
Dislocata orizzontalmente nello spazio in cui il golfo Persico si trasforma in quello dell’Oman, la grande isola a forma di freccia o delfino di Qeshm compare in alcune riprese dallo spazio della Nasa e dell’ESA, dedicate alla sfumature atipiche dell’entroterra e del vasto mare che la circonda. Eppure le guide turistiche spendono appena una manciata di paragrafi in merito a questa propaggine meridionale dell’Iran, riservando un’attenzione relativamente trascurabile alla sua storia, le attrazioni turistiche ed i tratti di distinzione del paesaggio. Questo perché nella stessa zona geografica, situata lievemente a nord-est e soli 8 Km dalla terraferma, emerge dalle acque un’altra terra di dimensioni assai più ridotte, ma tanto insolita e meravigliosa da essere più volte stata definita come la perla di questo spazio tra i mari, o ancor più accuratamente “gemma” per via del suo latente ed occasionalmente osservabile splendore. Garantito dalla presenza di una quantità di affioramenti di rocce vulcanoclastiche, evaporitiche e metamorfiche mescolate tra loro grazie all’attività tettonica del sale. Di una notevole cupola o diapiro, la cui parte emersa di 42 Km quadrati è gradualmente emersa nel trascorrere di molti millenni, prima di essere spianata dalla forza erosiva degli elementi. Ma non tutta allo stesso tempo e nello stesso modo, tanto da guadagnare un’aspetto tormentato che taluni definiscono marziano, altri semplicemente del tutto fuori dall’ordinario. Luogo naturalmente privo di vegetazione ed acqua potabile, tanto che quest’ultima vi viene trasportata artificialmente tramite un lungo acquedotto dalla costa iraniana, l’isola di Hormuz presenta l’unica “zona verde” di una foresta piantata artificialmente di mangrovie (Avicennia marina) in un qualche momento pregresso della sua storia contemporanea. Eppur da lungo tempo, essa rappresentò una provincia significativa dell’antico impero omonimo di Ormus, rimasto indipendente fino all’epoca medievale per la stessa ragione della già citata sorella maggiore altrettanto visibile dalle banchine dell’antistante città di Bandar Abbas: la collocazione strategica valida a farne un centro d’interscambio commerciale di alto livello, senza costringere le navi ad attraccare su una costa dalle condizioni politiche maggiormente imprevedibili ed incerte. Finalità d’altronde coadiuvata, nel presente caso, dalla popolazione necessariamente ridotta di un luogo tanto privo di risorse gastronomiche e fonti utilizzabili di ristoro. Fatta eccezione, in modo particolarmente distintivo, per la stessa terra su cui vengono poggiati gli stivali, adeguatamente processata e sottoposta a lavorazione, in modo da creare un condimento noto come soorakh o golak da mangiare spesso assieme al pane locale di nome tomshi, che significa “una manciata” (di qualcosa). Essenzialmente un ossido di ferro color ocra a base di ematite connotata dalla halogenesi, ragionevolmente atossico e dotato di un sapore a quanto pare memorabile e privo di termini di paragone. A patto di riuscire a superare le incertezze che derivano dall’utilizzare la vil terra a fini gastronomici, un obiettivo forse più facile da raggiungere in questo luogo rispetto a molti altri del nostro pianeta…