Come sfoglie di una torta multi-strato, le diverse epoche di un luogo non riescono ad intersecarsi direttamente, ma mostrano piuttosto le fotografie diverse di momenti nella linea temporale, ciascuno conservato da un diverso stato geologico di permanenza pluri-secolare. O millenaria. Giacché non soltanto i grandi centri abitati, oltre quelle stesse fondamenta che costituiscono le radici stessa della civiltà, possono occultare la trascorsa quotidianità dei nostri misteriosi progenitori. Ma anche un luogo come un altro almeno in apparenza, in mezzo alla natura, la cui caratteristica fondamentale può essere soltanto quella posizione rispondente a validi parametri di utilità, rilevanza paesaggistica, presenza culturalmente rilevante. Così il promontorio di roccia calcarea e sedimentaria lungo il fiume Bialka di Obłazowa Skała, nella regione di Małopolska della parte meridionale della Polonia, che assolse al compito di offrire punti di riparo a multiple generazioni di cacciatori, pescatori, raccoglitori intenti a trarre sostentamento dalle rigogliose terre dell’odierna riserva naturale di Krempachy e Nowa Biała. Ma forse più corretto potrebbe essere affermare che si tratti di diverse stirpi, non tutte imparentate tra loro. Attraverso una serie di studi condotti a partire dal 1985, gli archeologi avrebbero del resto qui trovato il chiaro segno dell’appartenenza del rifugio ad uomini di Neanderthal, prima ancora che la linea degli ancestrali Homo Sapiens da cui noialtri discendiamo. Attraverso una serie successiva di ben dieci epoche distinte, a partire da quella più remota del periodo Pavloviano equivalente ai 30.000-23.000 anni prima dell’epoca odierna. Così dunque discendendo, a partire dal primo ritrovamento “appena” medievale di una testa di balestra, fino all’equivalente attrezzo di un’epoca decisamente più lontana. Come facevano, volendo approfondire, gli antichi trogloditi di questa regione a cacciare? Gli approcci potenziali si sovrappongono, ma grazie agli oggetti della grotta ora possiamo con certezza definirne almeno uno: lanciando oggetti oblunghi, concepiti per tagliare l’aria. Vedi quello ricavato localmente da una zanna di mammut e datato in origine come appartenente al periodo Gravettiano (33k – 22k anni fa) ma che un nuovo studio pubblicato dall’archeologa dell’Università di Bologna Sahra Talamo e colleghi sulla rivista PLOS la scorsa settimana pone piuttosto in connessione alla cultura dell’Aurignaziano (47k – 26k anni fa). Un periodo di grande progressione tecnologica ed elaborazione di concetti metaforici complessi, che avrebbero portato alla probabile creazione delle prime religioni. Come quella che in qualche maniera venerava, o considerava simbolico, il volo micidiale di tale oggetto…
polonia
Il surrealismo metafisico dell’artista che ha invertito il funzionamento dell’orologio
Ci sono molti modi per interrogarsi su cosa sia, effettivamente, il tempo. Il calcolo matematico, la meditazione, l’introspezione dell’ego, la religione. Ma è sorprendente quanto poco possa essere stato impiegato, in quel particolare campo dello scibile, lo strumento dell’ironia. Poiché se un qualcosa sfugge alla portata del cervello umano, ciò non deve necessariamente voler dire che l’assurdo esuli dal campo cognitivo del suo contesto di pertinenza. “Per assurdo” molte valide teorie hanno ricevuto l’attenzione delle moltitudini. “Per assurdo” nascono, crescono ed infine crollano gli Imperi. O tutti quelle valide strutture funzionali, intorno a cui la società si è ritrovata a modellare il ritmo e i metodi della vita contemporanea. E che tiranno più terribile, al conteggio delle attuali alternative, può essere individuato rispetto a ciò che non può essere in alcun modo rallentato o messo da parte, ma soltanto impiegato, investito verso l’infinita moltitudine di alternative, tanto spesso in grado di sembrare Tutte Sbagliate… Perciò ai frettolosi passanti o visitatori del verdeggiante cortile del Centro per le Arti Visuali del MIT di Cambridge, Massachusetts, come già in precedenza presso Central Park a New York, e successivamente in un museo di Hong Kong, la creatrice di sublimi circostanze Alicja Kwade dimostrava sei anni fa un’importante teoria. Il tempo, come ogni altra cosa di cui sia possibile discutere a parole, non è altro che la percezione che noi abbiamo di esso, una complessa architettura dell’etere, in buona parte frutto delle imposizioni della società vigente. Poiché guardate la sua opera pubblica Against the Run, configurata come il tipico orologio stradale, un meccanismo sopra il palo tradizionalmente offerto dalle amministrazioni cittadine o i responsabili delle stazioni all’inizio del secolo scorso. Qui proposto in una versione degna di quell’altra Alice nel Paese delle Meraviglie, in cui piuttosto che lasciar ruotare le proprie lancette, era l’intero quadrante a farlo, seguendo il ritmo dell’instancabile indicatore dei secondi. Visione… Insolita, e a dire il vero anche un po’ sottilmente inquietante, benché l’apparato continuasse a funzionare in fin dei conti in modo totalmente utilizzabile. Richiedendo al massimo, per una lettura confortevole, l’inclinazione della testa da un lato.
È il tipo di guerriglia artistica che tanto bene si adatta all’arte post-moderna, in cui le condizioni di spontaneità interpretativa costituiscono tanto frequentemente un punto di partenza desiderabile, per tentare d’interpretare in senso universale le intenzioni dell’autore. E che in modo rilevante ritroviamo in più frangenti nelle opere pregresse della Kwade, che includono molteplici versioni, alcune più grandi, altre da installare a muro nelle abitazioni, di quell’opera capace di sollevare più di un reiterato polverone virale online. Giacché il suo fine produttivo, così efficacemente perseguito, è sempre stato quello di stupire e coinvolgere coloro che non hanno la tipica forma mentis di un critico d’arte. Offrendo una via d’accesso semplice, liberamente interpretabile, persino minimalista, ad alcuni dei misteri più complessi e contro-intuitivi che chiariscono la nostra esatta posizione nell’Universo…
Nove cozze nel torrione che convoglia l’acqua della Vistola fino a Varsavia
Nel film commedia polacco del 1966, Pieczone gołąbki (Involtini di cavolo) il protagonista con aspirazione canore Leopold Górski vive in un appartamento vicino ai binari del treno e sogna di conquistare l’amore dell’affascinante Kasia. Sul piano professionale, le sue giornate trascorrono come impiegato della società idrica, presso la recentemente costruita Gruba Kaśka (La “Grassa” K.) torre fluviale modernista dell’Ing. Vladimir Skorashevsky, parte visibile di un sistema per la captazione delle acque a beneficio dell’interconnesso acquedotto cittadino. Un lavoro monotono ma rilevante, e non privo di un certo prestigio, ove gli riuscirà di contrastare la negligenza dei colleghi trasformandoli in un equipaggio modello. La Polonia costituisce d’altra parte, nel panorama europeo, una delle nazioni con la singola dotazione di riserve idriche minore in proporzione alla popolazione complessiva. Il che ha sempre reso le peripezie di chi svolge simili compiti inerentemente interessanti, particolarmente a partire da quando nel 1851 per ordine dello Zar Nicola I di tutte le Russie venne posto in essere il primo sistema di approvvigionamento moderno per la capitale, Varsavia. Problemi destinati a includere il modo in cui, durante l’occupazione tedesca della seconda guerra mondiale, molte stazioni di pompaggio sarebbero state danneggiate e saccheggiate dai soldati, proprio con finalità di sabotaggio e pressione psicologica nei confronti della popolazione. Ma la storia dell’ingegneria polacca, ricca di personalità dotate di una mente elastica e tendenza a contrastare le convenzioni, avrebbe nel corso delle decadi individuato plurime maniere per riuscire a contrastare tale vulnerabilità inerente, di cui la seguente rappresenta forse il più innovativo cambio di paradigma per questo settore dai limitati mutamenti generazionali: molluschi sottovetro con sensori a molla. Conchiglie dei bivalvi custoditi nella stessa torre verde di quella pellicola nostalgica, destinate a chiudersi seguendo norme comportamentali frutto dell’istinto. Trasformate, in questo modo, nell’impulso in grado di cambiare totalmente la portata dei rischi contestuali rilevanti.
Il progetto gestito dalla MPWiK Warsaw (Società Municipale di Acqua e Fognature) prende il nome di SYMBIO e vede la partecipazione a partire dalla seconda metà degli anni 2000 della compagnia di profilazione dei rischi ambientali PROTE, che l’ha inserito in un ricco contesto di approcci al biomonitoraggio per la quantità d’inquinamento presente nei flussi idrici veicolati a beneficio dei polacchi nelle loro zone urbane più densamente abitate. Un sistema ingegnoso e destinato, a suo modo, a far da esempio nel panorama tecnologico internazionale…
Le prussiane mura del baluardo formidabile sulla Montagna d’Argento
Dall’apice del potere raggiunto dalle monarchie europee sarebbe derivato il loro stesso e imprescindibile disfacimento. Poiché cosa poteva essere maggiormente desiderabile, per il titolare del diritto divino a governare, che un’intera nazione unificata sotto il riconoscimento identitario di una bandiera, un inno, un emblema? E nel contempo aggiungere, attraverso manovre di tipo diplomatico e militare, il maggior numero d’individui possibili al di sotto della propria egida autoritaria, allargando strategicamente la portata dei propri confini. Una tattica per cui la Prussia era già famosa attorno alla seconda metà del XVIII secolo, principalmente grazie all’operato di un singolo monarca: Federico II di Hohenzollern detto “il Grande”, figura illuminata, promotore di (un certo tipo di) giustizia civile, autore anni prima del trattato Anti-Machiavel, in cui si descriveva il dinasta come un paladino al servizio del popolo, mansione cui occorreva subordinare ogni aspirazione di accumulo di privilegi personali senza un perché. Ma anche il fiero generale che condusse con successo le tre campagne in Silesia, per strappare i territori dell’odierna Polonia al predominio austriaco, in quanto ritenuti parte imprescindibile della cultura ed il diritto esplicito del suo paese. Un sanguinoso percorso destinato a concludersi soltanto nel 1786, con significative perdite da ambo le parti e la sospirata vittoria attribuita ai colori dell’Aquila Nera, ma non prima che il grande artefice politico decise di operare affinché nessuno potesse togliergli ciò che si era tanto faticosamente saputo guadagnare. Il che comportava all’epoca, come nella maggior parte delle situazioni analoghe, il passaggio obbligato della costruzione di opere difensive, per cui sarebbe stato scelto nel caso specifico un sistema relativamente atipico nella sua cruda efficienza: una singola, gigantesca fortezza di montagna, che fosse la più grande e moderna mai costruita in Europa, destinata ad ospitare una guarnigione minima di 4.000 soldati. Un’opera tanto gargantuesca ed impegnativa, da risultare in effetti capace di cambiare l’intera prerogativa e ragion d’essere di una comunità pre-esistente, l’allora piccolo villaggio di Srebrna Góra. Così chiamato, con un termine binomiale significante Montagna d’Argento, per le vicine miniere sul massiccio eponimo, un importante luogo d’approvvigionamento per la zecca statale. Destinato tuttavia ad essere completamente eclissato a partire dal 1764, per l’istituzione dei massicci cantieri completi di segheria, multiple fornaci e strade d’importanza logistica significativa, destinate al trasporto di materiale procurato per lo più localmente da utilizzare per le incombenti, plurime mura costruite a oltre 600 metri d’altitudine dal livello del mare. Capaci di costituire, senz’ombra di dubbio, il più grande progetto civile o militare che la Silesia avesse conosciuto fino a quel particolare momento della propria storia…