“L’ora del rintocco, l’ora del rintocco è giunta.” Disse l’invisibile creatura del pertugio, mentre i funghi pulsavano nell’espressione di un senso d’aspettativa latente. La grande tromba del giardino di campanule suonò due note grazie all’energia del vento, mentre la ruota elettrica iniziava a veicolare l’energia tangibile del flusso. “L’assedio è terminato, miei cari. Liberate il krakkon” L’estrusione periambulatoria, allora, si allungò fuori dall’implicito confine perimetrale, sfociando nell’iperbole celeste senza neanche l’assistenza di una pratica colomba della Pace. Certo, non c’è dubbio, amici pietre variopinte delle circostanze manifeste: il gran portone della cassaforte è ormai prossimo ad aprirsi. Affinché il bagliore immaginifico possa incontrare, così come profetizzato, quello di uno spazio privo d’interpretazioni alternative della mente. L’essenzialmente grigia, eppure spesso sorprendente, inconcludente ed altrettanto illusoria Verità. Ma c’è davvero bisogno, per quest’ultima, di occupare uno spazio talmente vasto?
Tra le capacità di un abile critico, o esperto fruitore dell’Arte, figura quella di osservare un’opera dipinta non come uno stato dei fatti completo ed immutabile, bensì un susseguirsi di pregressi eventi. Uno strato dopo l’altro, un colpo di pennello alla volta, la creazione in divenire si dipana progressivamente nella loro mente. Permettendo di ricostruire a ritroso, minuto per minuto, l’evolversi dell’apprezzabile messaggio di partenza. Ma cosa succede se al depositarsi progressivo dei colori, l’uomo al comando del progetto semplicemente sembra incapace di raggiungere un qualche tipo di soddisfazione creativa? E continuando a sovrapporre sui livelli già deposti, per ore, giorni e settimane, permette alla vernice di superare il dipanarsi delle semplici due dimensioni… Sfociando nella terza e al tempo stesso, innumerevoli ulteriori luoghi della mente del tutto inesplorati allo stato dei fatti correnti. Posti come quelli visitati e al tempo stesso riprodotti dalla mano eclettica di Chris Millar, artista canadese originario di Claresholm, Alberta, per cui l’unico limite alla comunicazione di un messaggio incerto sembrerebbe essere quello meramente fisico imposto dalla necessità di creare un singolo “mondo” alla volta. Riproduzione in miniatura dell’ambiente visitabile in un passaggio onirico della nostra esistenza, pur premurandosi di restare del tutto conforme ad una serie di regole non del tutto prive di coerenza. Poiché è soltanto in tal senso che può andare incontro a un qualche tipo di precipua classificazione psicanalitica, il suo metodo espressivo nato in modo progressivo dopo l’ottenimento del titolo di studio presso l’Università di Arte e Design di Calgary (ACAD) nel 2000. Quando assieme all’amico e collega Patrick Lundeen decise di rifiutare il canone espressivo imposto per il tramite dei metodi d’insegnamento della pittura. Andando decisamente oltre, nei rispettivi metodi ed intenti procedurali…
orologi
L’accanita lancetta dell’orologio che calpesta ripetutamente i tombini
Presso il centro di ricerca della piccola città di Pont-à-Mousson, nella parte nord-est della Francia, il consumo energetico del viaggio nel tempo è stato largamente calibrato e approfonditamente stabilizzato. Benché la casistica acclarata, contrariamente a quanto si era pensato originariamente in letteratura, permetta effettivamente una singola “direzione” di spostamento: il futuro. E soltanto un soprattutto un soggetto di questo particolare esperimento, tondo, piatto e del diametro approssimativo di un metro e venti. La cui materia costitutiva, persino all’osservatore meno addentro a quel contesto di studio, non potrà apparire come null’altro che un semplice, resistente agglomerato residuo della produzione dell’acciaio, quello che comunemente siamo abituati a definire il ferraccio, o più correttamente la ghisa. Così dapprima qualche giorno, quindi settimane e poi mesi, incrementano progressivamente il proprio susseguirsi, mentre l’ingombrante braccio meccanico segna imperterrito il loro passaggio ed in effetti, ne agevola l’accelerazione. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di un oggetto non dissimile dal tipico attrezzo usato per l’addestramento degli astronauti allo stress del decollo missilistico, simile per concezione ad una giostra in uso presso i più profondi e occulti gironi accanto tra il lago d’Averno e il fiume Flegetonte. Tranne che per qualche dettaglio appena degno d’esser menzionato, tra cui la tonalità gialla intensa e la collocazione, all’estremità opposta rispetto al mozzo centrale, di un asse d’appoggio sopra cui campeggiano pneumatici posizionati in parallelo, prelevati direttamente da un’automobile, un furgone o un qualche tipo di (piccolo) autocarro. Il che risulta essere un fattore niente meno che fondamentale, per il raggiungimento dell’effetto desiderato sui soggetti dello spostamento lungo l’asse metafisico, che da questo punto in poi chiameremo semplicemente “tombini”.
Il fatto che occorre assolutamente evidenziare, a questo punto, è la natura e appartenenza operativa del suddetto centro di ricerca a una specifica compagnia, niente meno che la SAM, originariamente nota come Anonyme des hauts fourneaux et fonderies de Pont-à-Mousson, prima della fusione (!) nel 1968 con una delle più enormi ed economicamente potenti multinazionali mai create in terra di Francia, l’azienda precedentemente nazionalizzata della Saint Gobain S.A. Nata oltre 350 anni fa per volere o con i beneplacito del monarca Luigi XIV, che conoscerete senz’altro con il soprannome di larga circolazione di Re Sole, per la finalità specifica di competere contro la produzione di specchi provenienti dalla Repubblica di Venezia. Per cui il passaggio dalle superfici vetrose riflettenti, alla produzione di pesanti manufatti in ghisa, il passaggio è senz’altro breve o quanto meno, reso continuativo grazie alla perpetuazione degli stessi standard di eccellenza esemplificati da un approfondito controllo della qualità. Del tipo che richiede, qualche volta, una certa spietatezza nel mettere alla prova la validità dei prodotti fatti uscire dalla porta principale delle proprie instancabili fonderie…
Dopo 170 anni, la prima testa dello Zodiaco fa ritorno al palazzo dell’Imperatore: è il cavallo
Otto inverni a questa parte, nel corso della produttiva stagione natalizia, un intraprendente agente segreto vestito con tuta a rotelle si sdraiava in senso longitudinale sulla ruvida superficie dello scosceso asfalto, prima di tentare la rocambolesca fuga dai discendenti di un malefico saccheggiatore. Quell’uomo, Jackie Chan, era l’attore protagonista, produttore, regista, scrittore stuntman, compositore del racconto cinematografico di una storia lunga oltre un secolo e mezzo, che pur definire profondamente significativa per lui sarebbe stato, in un certo senso, riduttivo. Perché come protagonista di quel film d’azione in apparenza privo di particolari implicazioni, dal titolo quasi schematico di CZ12 (十二生肖 – Shí-èr Shēngxiāo) egli assumeva in primo luogo il ruolo di un eroe per tutto il popolo cinese e gli amanti dell’arte in generale, essendosi attribuito l’ardua missione fantastica di recuperare, attraverso multiple peripezie, il pegno bronzeo di un’antica promessa mai mantenuta: riportare un bene irrimpiazzabile, e storicamente prezioso nel luogo in cui doveva stare di diritto; anzi, per essere più preciso, dodici pegni. E chi avrebbe mai pensato che proprio in questo drammatico 2012, con tutte le sue tragedie, la speranzosa missione avrebbe fatto il primo passo verso il suo difficile coronamento finale? Un compromesso, ma anche una vittoria. Per cui sarà opportuno cominciare, come facciamo di consueto, dal principio.
Questo è un racconto che trova la sua origine nel distante XVIII secolo e contiene, insospettabilmente, anche un significativo pezzo d’Italia. Quello accompagnato fino alla distante corte dell’imperatore Qing, presso l’eterna città di Pechino, dal gesuita, scienziato, missionario e pittore Giuseppe Castiglione, autore di una quantità notevole di splendidi ritratti sincretistici, in cui la finezza e l’attenzione ai dettagli dell’Estremo Oriente riuscirono incontrare per la prima volta la sapienza prospettica e la precisione scientifica dell’arte europea. Per una collaborazione a corte già lunga oltre 30 anni, che attorno attorno all’anno 1747 l’aveva visto già servire per lungo tempo il compianto imperatore Kangxi, quando gli succedette al trono quello che sarebbe stato uno dei più importanti governanti della Cina e del mondo intero, il longevo, potente ed ambizioso Qianlong. Dando all’inizio ai 63 anni di trionfi militari e politici, continuati anche dopo l’abdicazione soltanto simbolica nei confronti del suo 15° figlio Jiaqing, oltre alle numerose riforme ed il pungo di ferro mostrato nei rapporti politici con l’Occidente. Ma anche un’amore per l’arte ed il collezionismo, che l’avrebbe portato in quel frangente a immaginare un luogo degno di portare onore ai suoi innumerevoli tesori e rendere immortale il suo nome. Così ebbe inizio il lungo e complicato progetto per l’ingrandimento poco fuori la sua capitale del già esistente Yuanming Yuan (圆明园 – “Giardino della Luce Perfetta”) attraverso l’inclusione di una nuova tipologia d’edifici, quelli costruiti con la pietra solida, e i precetti architettonici dell’Occidente.
Naturalmente la richiesta di Qianlong coinvolse Castiglione, il suo principale consigliere nelle “faccende europee” ed altrettanto naturalmente quest’ultimo, che capiva di architettura ma non era un ingegnere, coinvolse immediatamente il confratello gesuita ed esperto in materia Michel Benoist, di origini francesi e laureato presso la prestigiosa università di Digione. L’intento reso immediatamente palese da queste due insigne menti, alle quali venne riservato nel gigantesco complesso l’intero ampio spazio delle cosiddette Haiyantang ( 海晏堂 – “Residenze Occidentali”) fu quello di applicare le considerevoli risorse di corte, finanziarie ed artigiane, per vedere ultimato un qualcosa che potesse rivaleggiare con la leggendaria magnificenza della reggia di Versailles, grande leggenda di quell’epoca Barocca. Vero e proprio pièce de résistance, a tal fine, sarebbe stato un giardino con voliere di magnifici uccelli, labirinti di siepi e vaste sale coperte con illusioni ottiche dipinte dallo stesso Castiglione. Al centro della scenografica location, quindi, avrebbe trovato posto una fontana. Qualcosa di mai visto in tutto l’intero vasto territorio d’Asia…
Quando splendenti galeoni meccanici percorrevano le tavole degli elettori di Sassonia
“Per l’Augusto padrone di tutti e sette i Lunghi Mari!” Esclamò con voce roboante il capitano, rivolgendosi al cocchiere sulla tolda della Ludwigslust, osservando nello stesso tempo l’orologio di bordo e l’ingombro passaggio da percorrere verso l’obiettivo finale di quel viaggio avventuroso: “Si preannuncia una difficile giornata”. Rivolgendosi al nostromo fece quindi il cenno, chiaramente noto a tutto l’equipaggio, di dare inizio allo spettacolo: “Quest’oggi riusciremo, finalmente, nell’impresa!” Esclamò tra se e se, gettando per un attimo uno sguardo verso il suo più prezioso passeggero, l’Imperatore Carlo V in persona, assiso sotto l’albero maestro sul suo trono dorato. Con un lieve sobbalzo in avanti, il vascello iniziò quindi a muoversi in mezzo alle torreggianti rocce trasparenti dello stretto mare, ciascuna ricolma di un liquido dalla colorazione differente, mentre un suono tintinnante risuonava oltre le murate scintillanti del galeone: “Non si preoccupi signore” fece l’uomo che stringeva con espressione concentrata il timone: “Abbiamo soltanto urtato un pesce cucchiaio. O forse si trattava di uno squalo coltello?” Dopo qualche ora di navigazione, tuttavia, la loro situazione iniziò a farsi chiara. Figure dai biondi capelli si stagliavano distanti tra la nebbia, come i titani dell’antica mitologia. Alcuni, i meno alti, gridavano con entusiasmo nella loro lingua incomprensibile, scuotendo i marinai nella coffa. I fuochi di candela, alti come vulcani, tremolavano nell’aria lieve della sera. “Avanti con l’orchestra, facciamoci sentire!” Gridò allora il capitano, mentre l’equipaggio, come un sol uomo, tirò fuori i suoi strumenti musicali. Trombe sul ponte, tamburi sopra gli alberi. Qualcuno, nelle viscere della stiva, sembrò aver messo in moto un potente motore spieldose, o come lo chiamavano i francesi, carillon. Era il segnale, naturalmente. In quel preciso istante, la porta della cabina principale si spalancò, mentre un insigne processione iniziò a rendere i suoi omaggi all’immobile, assorta figura di Carlo V. Per primo, chiaramente, l’arcivescovo di Magonza. A cui fece sèguito il duca di Sassonia. Quindi giunse il margravio di Brandeburgo, e dietro di lui, il conte palatino del Reno. Nostromo e timoniere volsero lo sguardo brevemente a un tale insigne convegno, mentre i loro petti si gonfiavano d’orgoglio, per un rito tanto spesso ripetuto nella storia operativa del galeone. Ma non c’era di sicuro il tempo di distrarsi, quando il capitano gridò con enfasi: “Obiettivo in vista, armare il cannone principale!” Come un solo uomo, gli addetti all’arma si affollarono attorno alla grande bocca di drago di prua, l’arma principale della Ludwigslust. Che si trovava, in quel momento, puntata verso un’alta e indistinguibile figura. “È lui, è lui, il falso Dio-Imperatore!” Gridò qualcuno, e poi: “Per Augusto, che il nostro colpo possa trafiggere il suo cuore…” Aggiunse l’artigliere, che ad un semplice quanto drammatico gesto del suo ufficiale al comando, tirò la corda utilizzata per fare fuoco. Un suono roboante scosse il vascello dal profondo, con un rinculo possente in grado di farlo arretrare per almeno un quinto della sua lunghezza. E mentre la nebbia e il fumo iniziavano, finalmente, a diradarsi, la scena si fece più chiara. Innanzi alla prua c’era lui, l’odiato Rodolfo II d’Asburgo. Alto come dieci torri dell’orologio a Norimberga, con un’espressione stranamente deliziata e compunta. Quindi, almeno in apparenza completamente illeso, il nemico invincibile iniziò lentamente a battere le mani. Ben presto gli altri giganti, che ormai circondavano la nave, iniziarono a fare lo stesso, ridendo ed emettendo orribili schiamazzi. E fu giusto allora, che l’equipaggio della nave d’oro ricordò la natura ciclica del suo destino…