Dall’apice del potere raggiunto dalle monarchie europee sarebbe derivato il loro stesso e imprescindibile disfacimento. Poiché cosa poteva essere maggiormente desiderabile, per il titolare del diritto divino a governare, che un’intera nazione unificata sotto il riconoscimento identitario di una bandiera, un inno, un emblema? E nel contempo aggiungere, attraverso manovre di tipo diplomatico e militare, il maggior numero d’individui possibili al di sotto della propria egida autoritaria, allargando strategicamente la portata dei propri confini. Una tattica per cui la Prussia era già famosa attorno alla seconda metà del XVIII secolo, principalmente grazie all’operato di un singolo monarca: Federico II di Hohenzollern detto “il Grande”, figura illuminata, promotore di (un certo tipo di) giustizia civile, autore anni prima del trattato Anti-Machiavel, in cui si descriveva il dinasta come un paladino al servizio del popolo, mansione cui occorreva subordinare ogni aspirazione di accumulo di privilegi personali senza un perché. Ma anche il fiero generale che condusse con successo le tre campagne in Silesia, per strappare i territori dell’odierna Polonia al predominio austriaco, in quanto ritenuti parte imprescindibile della cultura ed il diritto esplicito del suo paese. Un sanguinoso percorso destinato a concludersi soltanto nel 1786, con significative perdite da ambo le parti e la sospirata vittoria attribuita ai colori dell’Aquila Nera, ma non prima che il grande artefice politico decise di operare affinché nessuno potesse togliergli ciò che si era tanto faticosamente saputo guadagnare. Il che comportava all’epoca, come nella maggior parte delle situazioni analoghe, il passaggio obbligato della costruzione di opere difensive, per cui sarebbe stato scelto nel caso specifico un sistema relativamente atipico nella sua cruda efficienza: una singola, gigantesca fortezza di montagna, che fosse la più grande e moderna mai costruita in Europa, destinata ad ospitare una guarnigione minima di 4.000 soldati. Un’opera tanto gargantuesca ed impegnativa, da risultare in effetti capace di cambiare l’intera prerogativa e ragion d’essere di una comunità pre-esistente, l’allora piccolo villaggio di Srebrna Góra. Così chiamato, con un termine binomiale significante Montagna d’Argento, per le vicine miniere sul massiccio eponimo, un importante luogo d’approvvigionamento per la zecca statale. Destinato tuttavia ad essere completamente eclissato a partire dal 1764, per l’istituzione dei massicci cantieri completi di segheria, multiple fornaci e strade d’importanza logistica significativa, destinate al trasporto di materiale procurato per lo più localmente da utilizzare per le incombenti, plurime mura costruite a oltre 600 metri d’altitudine dal livello del mare. Capaci di costituire, senz’ombra di dubbio, il più grande progetto civile o militare che la Silesia avesse conosciuto fino a quel particolare momento della propria storia…
Chiamata talvolta “Gibilterra di Prussia” per la sua importanza strategica e la collocazione sopra un duro zoccolo in pietra calcarea, la fortezza di Srebrna Góra vide susseguirsi come progettisti alcuni dei più rinomati ingegneri dell’epoca, tra cui Foris, Hartmann, Gontzenbach, Lahr, Wetig e Strauss. È altamente ragionevole pensare inoltre che lo stesso Federico II, figura di esperto condottiero militare nonché conduttore di svariati assedi pregressi, avesse rivendicato un’importante voce in capitolo relativamente a specifiche quanto importanti scelte progettuali. Soltanto grazie al privilegio incontrastato del suo nome furono effettivamente stanziati gli oltre 4 milioni di talleri dell’erario statale, una percentuale non trascurabile dei quali raccolti con piglio autoritario dagli abitanti e proprietari terrieri locali che giunsero a chiamare il tributo con il soprannome di tassa della Montagna d’Argento. Entro i primi tre anni di lavori, nel 1768, aveva già preso forma il mastio centrale con le gallerie antistanti e i bastioni ausiliari sulla cima chiamata Góra che sovrasta il passo Srebrna, mentre nei tre anni successivi si sarebbe passati a una struttura simile, ma lievemente più piccola situata in corrispondenza del rilievo di Ostróg. Entro il 1771 sarebbero stati completati i forti a supporto di Rogowy e Wysoka Skała, nonché le loro spianate e soltanto nel 1777 l’intera opera poté dirsi conclusa, con le fortificazioni e batterie d’artiglieria di Chochołów. Come avrete potuto già desumere a questo punto, Srebrna Góra era complessivamente la risultanza di una quantità di strutture non direttamente connesse tra loro, ciascuna dotata del proprio pozzo non sempre purtroppo potabile, i magazzini ed armerie sufficienti per l’intera guarnigione. Con panifici, birrifici ed altri stabilimenti produttivi incorporati, si stimava quindi che le principali componenti della fortezza avrebbero potuto resistere a un’assedio condotto con metodologie moderne per un periodo minimo di tre mesi. Si narra a tal proposito che le condizioni dei soldati all’interno fossero tutt’altro che ideali, trattandosi primariamente di giovani reclutati a forza nelle zone limitrofe e mantenuti tra le mura, come fossero stati dei prigionieri. Per questo mortalità e diserzioni, tra le loro fila, risultavano essere piuttosto elevate. Ma il vero punto di forza dell’intero sistema era la collocazione topografica, con batterie di cannoni e mura formidabili collocate in mezzo a tratti dall’elevato grado d’inaccessibilità ad opera di qualsivoglia potenziale avversario. Il cui palesarsi restò totalmente teorico, per l’intero regno di Federico il Grande e quello del suo diretto successore, il nipote Federico Guglielmo II. Che continuò a tenere in alta considerazione la fortezza, mantenendo stabile la guarnigione in fiduciosa attesa di un nemico che ancora una volta, mancò ostinatamente di palesarsi. Fino alla successione di suo figlio Federico Guglielmo III, un dinasta notoriamente indecisivo e talvolta inefficace, destinato a lasciarsi trascinare con riluttanza dell’alleanza della Sesta Coalizione, nell’ambizioso tentativo di arrestare l’avanzata incontenibile di Napoleone. Il che avrebbe portato, tra le molte altre battaglie, ad un assedio portato avanti dal fratello più giovane Hyeronimus (Girolamo) Bonaparte alla stessa fortezza della Montagna tra il 1806 e il 1807, ancora fornita di una guarnigione ragionevolmente completa e pronta a resistere fino allo stremo delle proprie forze. Chi avrebbe potuto vincere tale confronto, tuttavia, non fu mai scoperto, in forza della stipula dell’armistizio e pace di Tilsit, con rinuncia di ampi territori prussiani a beneficio del grande Imperatore di Francia. Ciononostante, Srebrna Góra restò in tali circostanze imbattuta e ciò contribuì a cementare la sua reputazione impareggiabile tra il novero degli alti castelli costruiti in Europa.
Lungamente abbandonato, quindi trasformato in attrazione turistica già negli anni ’30, con la costruzione del titanico ristorante che porta ancora il nome di Donjon (“Mastio”) il complesso principale della fortezza venne quindi utilizzato durante la seconda guerra mondiale come campo di prigionia dai tedeschi, presso cui vennero ospitati loro malgrado alcuni dei più importanti ufficiali dell’esercito polacco. Celebre resta, a tal proposito, la fuga organizzata dal contrammiraglio Józef Unrug e il comandante Stefan Frankowski, assieme ad alcuni dei propri commilitoni che riuscirono successivamente ad attraversare mezza Europa ed unirsi allo sforzo bellico degli Alleati in Libia. Sottoposta ad importanti opere di restauro all’inizio degli anni 2000, oggi la fortezza è il sito di un importante museo ed un passaggio pressoché obbligato per chiunque pratichi il turismo nella regione storica della Silesia, nonché teatro di frequenti quanto interessanti ricostruzioni storiche e dimostrazioni pratiche delle tecniche d’artiglieria in uso all’inizio dell’Era Moderna. In quale altro luogo, d’altronde, le guide sono solite far udire ai visitatori il boato prodotto da un cannone a polvere nera, racchiuso tra quattro pareti di solida pietra? Un’esperienza che difficilmente i timpani coinvolti potrebbero tendere a dimenticare, o almeno così narrano coloro che vi hanno assistito e ne fanno menzione nelle proprie recensioni online. Con conseguenze a lungo termine non troppo difficili da immaginare per l’udito di chi lavora da queste parti. Ma si sa molto bene che la guerra, per quanto possa essere reale o simulata, difficilmente tende a mantenere un significativo riserbo a vantaggio dell’integrità fisica individuale. Difficile immaginare al giorno d’oggi, tuttavia, l’opportunità di ottenere l’atteso risultato pacifico che scaturisca dall’ennesima, quanto ripetitiva Rivoluzione.