Le tombe lunghe 150 metri dedicate agli ancestrali capi della Polonia

Provate voi a spiegare a un contadino dell’epoca medievale, il valore intrinseco dell’archeologia. Prendete una persona nata nella semi-indigenza, forgiata dal bisogno, per cui risolvere i problemi quotidiani è un sinonimo diretto di sopravvivenza, e ditegli che non può piantare i suoi sementi in una particolare radura, né prelevarne gli atipici macigni al fine di costruire o rinforzare la sua dimora. Chiaramente egli resterà perplesso, indispettito. Forse persino ostile alle vostre argomentazioni, possibilmente sostenuto dalla percezione secondo cui Dio provvede, laddove antiche culture pagane, ormai dimenticate dagli uomini e dal tempo, possono soltanto essersi estinte per una specifica mancanza di fede. E furono effettivamente fatti dei tentativi, all’epoca del 1870 quando la studiosa autodidatta, giornalista e patriota polacca Natalia Kicka fece dissotterrare per la prima volta i notevoli gruppi di monoliti della regione di Kuyavia-Pomerania, nell’attribuire tali costruzioni agli antenati diretti dei popoli cristiani del suo paese, almeno finché negli anni ’30 del Novecento il celebre archeologo e futuro direttore del Museo Archeologico di Lodz, Konrad Jażdżewski non trovò prove evidenti capaci di collegare tale sito, assieme ad altri sparsi per l’intero paese alla cosiddetta Cultura del Bicchiere Imbutiforme, un gruppo culturale insediatosi nell’Europa Centrale avendo portato a termine una migrazione dalle terre nordiche della Scandinavia, all’incirca attorno al termine del quinto millennio prima di Cristo. Il che faceva della dozzina di tumuli in questione semplicemente uno dei più integri ritrovamenti risalenti a tale epoca, risparmiati dalla cupidigia dei ricercatori amatoriali proprio grazie al loro posizionamento odierno al centro di una profonda foresta, praticamente impossibili da identificare prima che la vegetazione venisse sfoltita, e la terra in eccesso rimossa dalle loro spioventi e lunghe pareti oblunghe. Già perché tali strutture, pur conformandosi almeno in parte all’aspetto generale dei classici tumuli neolitici, presentano proporzioni notevoli considerata la loro funzione principale, di fornire un luogo d’eterno riposo ad una singola persona ciascuna, il cui ruolo e l’importanza nella propri epoca non doveva conseguentemente essere di molto inferiore a quello di un faraone egiziano. Considerate, a tal proposito, lo sforzo ed il tempo necessario per comunità relativamente ridotte come quelle in cui l’agricoltura era ancora una tecnologia sperimentale applicata da pochi, affinché fosse possibile smuovere la terra per un lungo filare capace di raggiungere anche i 50 metri. Senza neppure menzionare le gigantesche pietre disposte ad intervalli regolari sui lati del basso edificio, dal peso unitario di fino a 10 tonnellate, utili a scongiurare il rischio che la pioggia potesse infiltrarsi all’interno della camera sepolcrale. Casistica indubbiamente capace di costituire un fosco presagio, per quelle che taluni hanno preso l’abitudine di definire metaforicamente come le “Piramidi della Polonia”…

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L’audace passatempo d’incontrare da vicino l’uccello più velenoso al mondo

Serpenti alati: tutti conoscono l’aspetto del potente Quetzalcoatl, Dio del quinto sole, gemello prezioso, spirito del vento sudamericano. Ma dall’altro lato del pianeta, nelle terre emerse della seconda isola più grande al mondo, c’è una ragione differente per guardare in alto e preoccuparsi di possibili animali tossici, capaci in linea teorica d’indisporre in modo significativo un elefante. Se soltanto tale pachiderma fuori sede, in un’impeto di carnivora imprudenza, tendesse la proboscide verticalmente verso il cielo. Cogliendo al volo la creatura di passaggio, ali, becco, coda e tutto il resto. “Ridicolo” mi sembra quasi di sentire gli aspiranti biologi dal coro: “Gli elefanti non mangiano gli uccelli! Ed anche se lo facessero, di sicuro questi ultimi non potrebbero arrecare alcun danno al più imponente sistema digerente posseduto da un animale dei nostri giorni.” Orbene son qui oggi per dirvi, che se in merito alla prima affermazione siete sulla strada giusta, nel caso della seconda i fatti vi sono nemici. Come già sapevano studiosi della filosofia naturale quali Aristotele, Filone di Alessandria, Lucrezio e Galeno; ciascuno dei quali, all’interno dei propri scritti, ebbe la ragione e sensibilità di citare la condizione medica da tempo nota come coturnismo: vomito, paralisi muscolare, insufficienza respiratoria e renale. Il tutto come conseguenza del consumo poco accorto, di quantità eccessive di quaglie selvatiche europee (Coturnix Coturnix) durante il periodo delle loro migrazioni primaverili. Quando transitando oltre le montagne che dividono i confini arbitrari delle nazioni, mangia ingenti quantità dei semi della pianta che i latini chiamavano Conium e i moderni, molto più semplicemente, cicuta. Il cui contenuto tossico, grazie al perfezionamento evolutivo, non può nuocere al volatile. Ma colpisce e annienta gli organi di colui che ne fagocita le carni avvelenate. Ora la quaglia, in circostanze normali ed al di fuori di quella stagione maledetta, risulta essere perfettamente commestibile ed invero anche apprezzata, come una versione occidentale del potenzialmente mortale pesce palla o fugu cucinato dai giapponesi. Ma se ora vi dicessi che ci sono uccelli, altrettanto immuni all’effetto di una particolare pietanza letale, che risultano pericolosi tutto l’anno? I cosiddetti Pitohui ed Ifriti dell’Indonesia. Ma soprattutto una particolare specie dei primi nota come P. dichrous, simile ad un merlo nero e marrone dalla cresta erettile e sbarazzina letteralmente intriso, fino alla radice delle proprie piume bicolori, della temutissima sostanza nota come BTX o per esteso batracotossina, un termine che viene dalla parola usata scientificamente per riferirsi alle cosiddette rane-freccia, usate per avvelenare le armi degli indigeni colombiani. Col che non voglio certamente affermare che il volatile in questione, un passeriforme della famiglia degli orioli del Vecchio Mondo non più lungo di 22-23 cm, sia solito ghermire e fagocitare l’orribile anfibio che raggiunge una percentuale significativa della sua dimensione totale. La soluzione è molto più semplice, ed al tempo stesso inaspettata, di così. Trattandosi effettivamente di un rarissimo caso di convergenza evolutiva tra classi distinte, avvicinate dall’inclinazione a fare un singolo boccone (avvelenato) di un insetto della famiglia Melyridae, rappresentato nel caso della Nuova Guinea dal diversificato genere degli scarabei Choresine. L’origine, nonché una zampettante concentrazione, del Male…

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Lo strano verme del Cambriano, fossile rimasto a lungo senza un sopra, sotto, davanti o dietro

Quanti milioni di anni occorre andare addietro perché le forme di vita precedenti alla nostra diventino sostanzialmente microscopiche, irriconoscibili, del tutto differenti dalle varie configurazioni che comunemente assumono le cellule secondo l’attuale cognizione della scienza? Un tempo variabile, attraverso un lungo processo necessariamente discontinuo, come sempre tendono a esserlo i rapporti tra le cause e gli effetti all’interno del vasto regno della Natura… Eppure con un punto di riferimento relativamente preciso: 485 milioni di anni fa, cui è convenzione riferirsi come inizio del periodo del Cambriano. L’era geologica durata 484 Ma nel corso della quale emerse, e riuscì a prendere forma, ogni declinazione immaginabile del concetto biologico di metazoa che risulti a noi noto. Termine riferito all’organismo multicellulare complesso, ovvero in altri termini, il tipico appartenente al regno degli animali. Vermi, molluschi, crostacei, qualche timido prototipo di artropode (sebbene non terrestre) mentre i rami del grande albero della vita continuavano a divergere, creando basi valide per nuovi approcci evolutivi ai fondamentali problemi dell’esistenza. Ma sarebbe certamente un significativo tentativo di semplificare, il pensiero che ogni aspetto di quell’epoca possa immediatamente essere condotto alle sue attuali conseguenze, tramite l’abbinamento tra l’aspetto fisico e il possibile funzionamento delle cose. Uno spunto d’analisi capace di condurre molto spesso a degli errori, sebbene largamente comprensibili considerata la mancanza di elementi validi ad approfondire le questioni di base.
Passi falsi come quello compiuto nel 1977 dal paleontologo britannico Simon Conway Morris, messo al cospetto di un improbabile ritrovamento lungo appena 5 cm all’interno di quella straordinaria capsula temporale che è lo strato di Burgess nella Columbia Inglese (Canada) importante residuo geografico di quello che costituiva all’epoca l’enorme supercontinente di Pannotia, attorno al quale e sopra cui sopravvivevano una straordinaria varietà di esseri, progressivamente morti, decomposti e qualche volta preservati negli strati sovrapposti simili a una scatola ricolma di segreti, dai molti ripiani pronti a svelare un’ampia serie di occulte e strabilianti verità. Vedi quelle contenute nell’effettiva pregressa esistenza di un fossile come questo, prontamente definito con il termine assai pregno di Hallucigenia o “allucinazione vivente”, poiché non sarebbe stato certamente fuori luogo in un dipinto surrealista o le mostruose rappresentazioni degli inferni di Hieronymus Bosch. Tanto difficile da interpretare, nell’aspetto presentato dalle pietre in cui era stata immortalata la sua forma oblunga, che ogni conclusione da principio fu tratta in base a semplici illazioni: le rigide protrusioni furono considerate delle zampe. Le propaggini dorsali, dei peduncoli o misteriosi ornamenti. Mentre l’estremità rigonfia e sferoidale, in virtù di logica, fu chiaramente fatta corrispondere alla testa dell’animale. Tutto molto plausibile, senz’altro. E purtroppo, come avremmo scoperto assai dopo, completamente sbagliato…

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L’annosa ed inspiegabile questione delle viti più antiche al mondo

Che la storia si svolga attraverso il ripetersi di una serie di cicli è una questione risaputa. Ciò che riesce più difficile da definire, è la lunghezza esatta di questi periodi relativamente uguali a loro stessi: Atlantide, Kitež , il continente perduto di Mu, le massicce ed inspiegabili mura di Nan Madol… Tutte ipotesi, o nell’ultimo caso una tangibile realtà, di antichi e ormai perduti agglomerati di persone, capaci di creare quello che saremmo inclini a definire una possibile approssimazione del concetto di civiltà. Anche senza l’intervento di fattori esterni, alieni e sovrannaturali ed anche in quel caso, quali sono esattamente gli strumenti per scartare a priori tali alternative possibilità? Laddove oggetti fuori dal contesto, a più riprese nella linea ideale disegnata dalla ricostruzione archeologica delle epoche, sembrano esulare da qualsiasi tentativo di spiegarli, integrarli o contestualizzarli sulla base di una logica apparente. OOPArt, li chiamano gli anglofoni: Out Of Place ARTifacts, “oggetti fuori posto”, così come risultò senz’altro essere, negli anni tra il 1991 e il 1993, una serie di minuti orpelli metallici, apparentemente ritrovati dai cercatori d’oro operativi nella parte orientale delle montagne degli Urali, tra i fiumi di Narada, Balbanyu e Kozim. Così come dettagliatamente riportato in una trattazione ufficiale, spesso citata dagli amanti delle teorie parascientifiche, dell’ente governativo moscovita ZNIGRI – Istituto Centrale di Geologia e Ricerca di Metalli Preziosi, aridamente intitolato rapporto n. 18/485. Dove l’improbabile diviene un fatto sostanzialmente acclarato, almeno in base a quanto riportato da quei pochi fortunati che si sono ritrovati a leggerne il contenuto, tra cui a quanto pare l’autore tedesco Hartwig Hausdorf, noto ufologo nonché sostenitore delle teorie sui pregressi contatti extra-terrestri.
D’altra parte, le foto provenienti dall’assurdo documento sembrerebbero aver goduto di una significativa circolazione, accompagnate dalla dettagliata descrizione del soggetto: una serie di oggetti del tutto indistinguibili da una vite dei nostri giorni, fatta eccezione per le dimensioni straordinariamente ridotte: da un massimo di 3 cm, fino a un minimo di 0,003 mm, perfettamente in linea con le proporzioni di un’assurda componentistica nanotecnologica, soprattutto considerato l’aspetto relativo delle tempistiche. In base alla profondità degli strati geologici all’interno dei quali è stato possibile fare il ritrovamento, infatti, gli scienziati dello ZNIGRI sarebbero stati capaci di datare approssimativamente questi oggetti: attorno ai 20.000 anni di età, con le stime più conservative in grado di farli risalire fino a 100.000. A rendere ancor più difficile lo spontaneo tentativo di spiegazione tramite un qualche tipo di formazione naturale, la varietà e tipologia di materiali utilizzati, tra cui il rame per gli esempi di maggiori dimensioni, e metalli rari e di difficile lavorazione per quelle più piccole, tra cui tungsteno e molibdeno.
Volendo escludere perciò l’idea che l’intera faccenda sia uno scherzo o falso storico di qualche natura (sempre possibile in simili circostanze) apparirà evidente come il tipo d’incertezze sollevate sia di un genere piuttosto arduo da spiegare con mere irregolarità e coincidenze. E non si può semplicemente capovolgere l’intera cronologia della vicenda umana sul pianeta Terra, senza una serie di prove inconfutabili dei nostri precedenti errori. Come ALTRE viti, in ALTRI luoghi…

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