La natura stessa della guerra è tale da evocare un diversificato sovrapporsi di profili di condanna, presupposti distruttivi e larghi propositi di annientamento. Per cui maggiormente una cosa ci è preziosa, per lo meno in linea di principio, tanto più diventa il più invitante bersaglio dell’artiglieria o i bombardamenti. Proprio PERCHÈ risulta essere umanamente basilare, perfettamente condivisibile, il sentimento di chiunque avrebbe avuto l’intento di preservarlo. L’abbiamo visto succedere ripetutamente in questi ultimi tragici anni tra Europa e Medioriente, con la continua qualificazione a validi obiettivi di scuole, ospedali, condomini largamente abitati. Ma si tratta di una storia vecchia quanto la civilizzazione stessa, che nel susseguirsi delle epoche ha portato a indicibili miserie, sofferenza e svariati casi l’imprevista distruzione di opere insostituibili del patrimonio più che mai tangibile dei nostri stimati antenati. L’Impero Ottomano, a tal proposito, aveva nel XVII secolo d.C. l’encomiabile reputazione di conservare, proteggere, persino restaurare i monumenti presenti nei propri territori di conquista. Avendo, al massimo, l’occasionale tendenza a trasformare chiese o antichi templi in luoghi di culto adibiti alla pratica della religione musulmana. Ciò detto, l’ignoto generale del Sultano che nel 1687 aveva ricevuto il compito di proteggere la provincia di Morea (chiamata Peloponneso sin dai tempi delle poleis greche) durante la sanguinosa guerra contro la potenza mediterranea di Venezia operò in tal senso un singolare stratagemma, per cui la storia avrebbe avuto il compito di condannarlo in eterno. Non potendo disporre di un luogo migliore ove piazzare la propria Santabarbara, costruì dunque un deposito di munizioni nel punto più alto della propria capitale, la millenaria città di Atene. Il quale niente affatto casualmente si trovava in corrispondenza dell’acropoli stessa e la struttura, allora straordinariamente integra, di uno degli edifici più importanti e lungamente celebri del Mondo Antico, risalente all’ancestrale 432 a.C, quando Pericle l’aveva fatto costruire come simbolo e riserva aurea della potente lega di Deli. Trasformato in chiesa di Maria durante il Medioevo, ed ingrandito con ridotte e bastioni nei periodi di guerra, come fortezza dalla collocazione privilegiata, prima che i cosiddetti infedeli ne facessero, successivamente alla conquista del 1456, una moschea con tanto di minareto. Ma ciò che avveniva al piano terra non rifletteva la sua funzione ulteriore nascosta nel solaio pieno di polveri e ordigni di varia natura, della quale il generale Francesco Morosini accompagnato dal suo inseparabile gatto, destinato a diventare l’anno successivo il doge incontrastato della Serenissima, fu pienamente al corrente per fattori di contesto ed informazioni ricevute militarmente. Fu così del tutto inevitabile da un certo punto di vista, nonché perfettamente evitabile da altri destinati a rivelarsi un miraggio lontano, che del tetto ligneo dell’antico tempio di Atena parthenos (vergine) venisse fatto un legittimo bersaglio di guerra. Di quel tipo altamente predisposto alla detonazione che, raggiunto da un qualsiasi tipo di esplosivo, sarebbe saltato in aria con roboante e devastante deflagrazione. Il che avvenne, puntualmente, nel modo in cui sareste pronti ad immaginarvi…
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Primosten, l’isolotto con la forma di un pesce sulla costa della Croazia medievale
Attraverso i lunghi e complicati anni dell’antichità guerreggiante, molte furono le soluzioni ricercate per proteggere gli insediamenti dall’invasione, e conseguente conquista, da parte di collettività ostili. Così rovina degli eserciti, furono di volta in volta le alte mura, i fossati o le scoscese pareti di collina in cima alle quali intere generazioni di agglomerati urbani furono laboriosamente edificate, nella speranzosa consapevolezza che anche una semplice milizia di arcieri e combattenti all’arma bianca avrebbe potuto respingere una forza molto più numerosa. Mentre comparabilmente più difficile da sfruttare risultava essere, di suo conto, l’uso di quel territorio che risulta invalicabile per sua esplicita definizione. Per lo meno da parte di un’armata di terra dotata di mezzi per lo più convenzionali: sto parlando del mare salmastro e qualche volta tempestoso, ambiente adatto per lo più a pesci, crostacei ed altri esseri nettamente distinti dalla genìa militare umana. Ed ecco, se cercaste la conferma nettamente chiara ed altrettanto tangibile di un simile teorema, l’esempio pressoché perfetto all’altro lato dello stretto Mar Adriatico; la cittadina dell’ex-Jugoslavia che eravamo soliti chiamare per qualche ragione Capocesto (da Caput Cistae) ma che i suoi abitanti battezzarono fin da qualche anno dopo l’epoca della remota fondazione attorno al XV secolo, Primošten. Dal verbo in lingua locale primostiti che significa “gettare un tramite” su qualcosa, come il passaggio pedonabile costituito da quell’utile ponte levatoio, che al sopraggiungere di una situazione di crisi poteva essere immediatamente fatto scomparire, trasformando il piccolo borgo in una letterale fortezza particolarmente difficile da espugnare.
Per un’attenzione nei confronti della sicurezza che possiamo facilmente individuare, nella necessità da parte dei suoi primi abitanti di nascondersi e prosperare lontano da una civiltà ostile. Narra infatti il sito ufficiale della cittadina, gestito direttamente dall’amministrazione comunale, di come queste genti in cerca di rivalsa fossero dei seguaci della problematica eresia del Bogomilismo, che credendo nell’esistenza di due figli del Signore, Michael e Sataniel, attribuivano il mondo sensibile all’opera del secondo, princìpio malvagio dell’esistenza. Il che aveva generato non pochi conflitti con la chiesa ortodossa della Bulgaria e zone limitrofe, portando ad una piccola diaspora dalla quale sarebbe nata, secondo alcune interpretazioni, la corrente catara del pensiero cristiano. Avendo più volte ricevuto la protezione della locale nobiltà di Sebenico, soprattutto durante gli anni dell’invasione turca tra il XV e il XVI secolo, la popolazione dell’isolotto a forma di pesce crebbe esponenzialmente a partire dalle circa 80 famiglie del primo insediamento. Con il tempo, e un successivo lungo periodo di dominio da parte della Serenissima Repubblica veneziana, la situazione religiosa di Primosten si sarebbe normalizzata, portando alla costruzione della chiesa a San Giorgio che costituisce tutt’ora la più antica testimonianza storica dell’isolotto, assieme alla porta e le mura costruite mediante tecniche d’importazione italiana. Il cui pinnacolo tutt’ora si erge, al centro della piccola collina circondata dalle acque oggi collegata alla terraferma mediante l’impiego di un istmo artificiale, anche perché i circa 2.800 abitanti del paese hanno da tempo costruito abitazioni sulla costa stessa, in maniera molto più conveniente per continuare a gestire i propri allevamenti e campi. Accentuando ulteriormente quella connessione con la vita agreste che per lungo tempo fu il fondamento economico di questa intera regione, portando alla creazione e successiva diffusione del particolare sistema delle vigne di Šibenik, create mediante lo spostamento e successiva settorializzazione del terreno pietroso e infertile della regione, verso l’implementazione di una serie di appezzamenti progressivamente ordinati al fine di trarre il massimo da un suolo tutt’altro che ospitale. Il tutto, a partire dal recente del 2017, sotto la sguardo di una sentinella particolarmente attenta ed immediatamente riconoscibile per il suo distintivo aspetto…
L’amore al tempo dei criceti veneziani
Tutto quello che puoi sperare quando si realizza l’ipotesi di un appuntamento al buio organizzato su Internet e che lui/lei non sia un piccolo quadrupede peloso/a, con le orecchie da topo ed una coda ritta ma spesso invisibile, tanto è sottile. Perché a quel punto, sarà difficile dire di no. C’era un criceto, una volta, tanto grazioso che si diceva avrebbe fatto strada e così fu: grazie alla mano degli umani, anzi dell’umano suo padrone, ma che dico di HelloDenizen, un’intera compagnia di social marketing autrice di una serie di cortometraggi in cui l’avvenente bestiolina veniva messa da principio, occasionalmente in solitaria, molto più spesso con diversi amici, direttamente a contatto con il gusto ed il piacere della vita principesca delle star. Che non si cucinano da sole, salvo l’eccezione di una sera e tanto per cambiare, bensì ricevono, su piatti metaforici d’argento, ogni sorta di delizia e pantagruelica vivanda da gourmet. È giusto così: a San Valentino anche un appartenente alla famiglia dei roditori Muroidei può sfruttare l’eleganza di un contesto particolarmente pregevole per trovare la sua lei. E non c’è luogo maggiormente adatto a tale scopo, come ampiamente dimostrato da stereotipi internazionali, che l’antica città di Venetiarum Civitas, formatasi a partire da un gruppo di piccole comunità nel 421 d.C. per meglio sfruttare le saline e le risorse ittiche di una laguna ricca di opportunità. Ma che nei lunghi e variegati secoli si è trasformata, attraverso stadi successivi di miglioramento, nella perfetta manifestazione di un sogno terreno, in bilico tra ricche architetture, piccioni svolazzanti e luce della Luna che si specchia lì nell’acqua del canale, sotto ponti che sussurrano parole di suggerimento simili a quel Bergerac: “Gioisci, dunque. Inspirar amore sol per una caduca maschera esteriore dev’esser per un nobile cuore uno strazio. Ma l’anima tua cancella il tuo bel viso…” Dal naso rinomato, tanto spesso riproposto in mille inutili varianti, ma mai in questo modo, immobile, davvero concentrato su suoi baffi. Perché l’amore è cieco ma ci sente benissimo e due criceti che risucchiano mini-spaghetti, posti su di un tavolo a misura nel celeb(errimo?) Ristorante di quel Tony presunto-nome, producono soltanto un tipo di poesia. Masticatoria ed entusiasta, certamente famelica, attentamente direzionata per l’acquisizione di risorse caloriche nelle vistose guance a forma di sferette, segno di riconoscimento di quell’animale. Che tale tornerà finita quella sera, tutt’altro che romantico e meditabondo. Che corre nella ruota! Che mangia la sua innamorata! (E pure i figli, se osi dargli tempo e modo).
Pur ricordando sul concludersi del pasto cannibalesco, possiamo ben sperare, l’estasi umanizzante del gradevole contorno consumato, commestibile al pari del quibus gastronomico che viene lì proposto. Di una gondola cartonata, di una candela torreggiante, dell’intera città del doge riprodotta grazie all’uso di una serie di..Buste? Con finestre, prese chissà dove, tanto variopinte da sembrar casette fatte con il marzapane. Per non parlar del cameriere-Super-Mario che suona la miagolante fisarmonica, immancabile segno d’amorevole italianità (ehm?)