Non è difficile comprendere perché, in termini di reperti archeologici che sono giunti fino a noi in condizioni adatte allo studio, la quantità di spade ed altri implementi metallici risulta maggiore delle armi a lunga gittata, ivi inclusi archi, giavellotti, lance o fionde costruite con fibre vegetali o pelli di animali. Un problema che coinvolge in modo similare tutto ciò che venne sollevato al concludersi all’Età del Bronzo, quando la scoperta di metodi di purificazione e fusione di un minerale già naturalmente pronto all’impiego nelle forge sostituì la complicata procedura necessaria alla creazione dell’amalgama di stagno e rame. Di un ferro che, non essendo almeno inizialmente più flessibile o resistente delle alternative data la mancanza del processo di riscaldamento mediante l’uso di carbone fossile capace di creare gli “antenati dell’acciaio moderno”, presentava già il problema collaterale di una maggiore propensione ad ossidarsi. E conseguentemente arrugginirsi e deperire del tutto. Ragion per cui ogni tradizione consistente nell’impiego di tecniche di sepoltura in condizioni anossiche, come all’interno di una torbiera dell’Europa Settentrionale, viene oggi giudicata un colpo di fortuna per gli studiosi, al punto da poter costituire un’effettiva capsula temporale verso i campi di battaglia dei nostri più remoti antenati. In luoghi come la palude danese di Nydam, ad otto chilometri da Sønderborg, dove a partire dal 1830 il proprietario di una fattoria locale divenne celebre nella regione, per l’abitudine di regalare vecchie spade e scudi ai bambini come attrezzatura per i loro giochi di ruolo. Ci sarebbero volute tuttavia altre quattro decadi affinché l’archeologo Conrad Engelhardt, giungendo presso il sito lungamente sottovalutato, iniziasse a scavare in modo sistematico sotto quel fluido scarsamente newtoniano, giungendo negli anni tra il 1859 ed il ’63 ad estrarre una significativa quantità di reperti databili al terzo e quarto secolo d.C: alcuni già familiari al mondo accademico, benché molto significativi per il loro stato di completezza ed ottima conservazione. E certi altri estremamente insoliti all’interno di un tale contesto, al punto da risultare del tutto privi di precedenti.
Ma benché l’attenzione dei cronisti tenda a concentrarsi sulla cosiddetta Nydambåden o Barca di Nydam, uno scafo di quercia che anticipa molte delle convenzioni tecnologiche destinate a raggiungere ampia diffusione nella successiva epoca vichinga, ciò che ha lungamente costituito una questione ardua da contestualizzare fu la serie di 8 archi da tiro in legno di tasso, dotati di una caratteristica a dir poco peculiare: la presenza di una punta acuminata con accenni di seghettatura, saldamente incollata ad una delle due estremità in modo tale da assorbire l’energia di un colpo vibrato con forza considerevole. Il che, considerata la lunghezza unitaria di una di queste armi misurabile attorno al metro e 76, non può fare a meno di evocare nella mente l’immagine di qualcosa d’inusitato: la carica di un gruppo di tiratori che, lanciata l’ultima freccia, abbassavano questi lunghi bastoni ricurvi. Piegandoli all’indirizzo del nemico in rapido avvicinamento…
A presentare al mondo una questione di tale natura, lungamente rimasta appannaggio di studi isolati e disquisizione negli ambienti dall’elevato grado di specializzazione, ci pensa ancora una volta l’interessante personaggio di Lars Andersen, arciere, pittore ed archeologo sperimentale diventato celebre nel mondo grazie al suo video su Internet del 2012, in cui si occupava di sfatare in modo dinamico ed accattivante alcune delle convenzioni affermatisi attraverso i secoli nell’interpretazione del tiro antico. Come l’idea, a suo dire inesatto, che i praticanti di una tale disciplina fossero abituati a estrarre una freccia alla volta dalle proprie faretre, incoccandola e scagliandola prima d’estrarre come da copione il dardo seguente. Laddove egli dimostrava agevolmente la capacità d’impugnare agevolmente molti proiettili alla volta e scagliarli a guisa di mitragliatrice umana, fino al caso estremo delle 45 frecce contemporanee dell’inizio di quest’anno così da battere un record “vecchio di mille anni” dove si parlava di appena 15 unità. Un tenore di ricerca filologica che ritorna nella più recente avventura mirata a ricostruire la storia degli archi-lancia, rimasti lungamente nascosti tra le collezioni del Museo Nazionale della Danimarca a Copenaghen, dopo che una parte del tesoro di Nydam era stato sottratto durante l’occupazione tedesca della seconda guerra mondiale e trasportato all’interno del castello di Slesvig, in Germania. In modo tale da permettere ad Andersen, previa corrispondenza preliminare con il curatore Mads Dengsø Jessen, di accedere finalmente ad uno di questi manufatti, studiandone l’aspetto a prendendo approfondite misure.
Il che ci porta al video d’apertura per il quale l’abile divulgatore, commettendo il passo falso questa volta di ricorrere agli algoritmi generativi (tanto che assicura nei commenti di voler montare da capo il video) oltre a narrare della sua ricerca visita il celebre collega archeologo Harm Paulsen, prima di mettersi come quest’ultimo faceva negli anni ’60 e ’70 a ricostruire fedelmente l’arma storica, così da sperimentarne le caratteristiche e potenzialità inerenti. Ottenendo in questo modo una certa quantità di archi di Nydam con le loro caratteristiche riconoscibili, ivi inclusa la tacca o cocca incisa direttamente nel corpo dell’implemento per assicurarvi la corda, ma soprattutto la misteriosa punta di ferro potenzialmente capace di penetrare un’ampia varietà d’armature. Segue workshop con un certo numero di appassionati seguaci, che impugnando l’insolita arma tentano ed infine dimostrano l’efficacia non trascurabile che questa possiede nell’attaccare le gambe e i fianchi, mediante la forma curva naturalmente utile ad aggirare la protezione di uno scudo nemico.
Di sicuro, l’intera dimostrazione assume per lo più le caratteristiche di un’ambiziosa teoria. Con studi archeologici precedenti che hanno evidenziato per archi simili trovati ad Altdorf, in Svizzera (Reto Marti, 1995) l’alta probabilità che le punte dovessero servire per far presa sul terreno, costituendo in tal senso più che altro i componenti di semplici bastoni da passeggio. Considerate anche in tal senso come un fucile, o persino una balestra dotate di un pugnale facente funzione di baionetta siano armi che vengono impugnate già con la parte appuntita rivolta verso il nemico, laddove il tipico arciere non potrà disporre certamente dell’opportunità di scagliare un’ultima volta, prima di dover rivolgere la sua attenzione alla carica finale dell’incipiente battaglia. Laddove “lance” di siffatta natura, inerentemente diverse per solidità strutturale e caratteristiche rispetto ad un’arma lunga costruita secondo i crismi usuali, risulteranno per lo più impiegabili come strumenti leggeri, dall’efficacia fortemente variabile a seconda delle protezioni avversarie.
Dal che l’imprescindibile domanda, benché la punta di ferro non leda all’efficacia degli archi in qualità di armi a lunga gittata, se non sarebbe stato meglio per queste popolazioni di epoca remota portarsi dietro un’aggiuntiva arma da fianco. Come ad esempio un’ascia, un pugnale o una spada? Il fatto stesso che ogni domanda in materia debba sfruttare forme grammaticali ipotetiche, non può che costituire il nocciolo stesso dell’intera questione. Permettendo a prove tecniche come quella di Andersen di stimolare, in modo particolarmente valido, il potente strumento della nostra fantasia.