Non c’è visione maggiormente soggettiva che il concetto di una terra promessa, spesso interpretabile come un luogo dove realizzare a pieno titolo il proprio stile di vita e le risultanti idee. Paese di abbondanza, ampi territori e significative risorse, in un caso, oppure la destinazione dove allontanarsi dal bisogno di combattere per mantenere i propri spazi. Lasciar perdere l’implicito coinvolgimento nelle faccende del regno. In un certo senso, qui trovarono entrambe le cose. I coraggiosi uomini e donne che, probabilmente poco dopo l’anno Mille, lasciarono le coste Norvegesi o d’Islanda, a bordo delle stesse navi lunghe che per almeno due secoli avevano costituito il terrore di mezzo Nord Europa. Navigando, come stavano facendo i popoli di Polinesia in epoca coéva, verso un territorio precedentemente ignoto. Vinland, l’avrebbero chiamato, “Terra del Vino” come avrebbe figurato, facendone menzione, nelle saghe letterarie di Erik il Rosso esiliato per l’assassinio ingiustificato di un suo pari, lo Hauksbók ed il Flateyjarbók. Benché lo studio dei moderni filologi abbia saputo confermare, in base al senso comune e documentazione di contesto, un possibile fraintendimento nella traduzione di tali opere. Causa l’omofonia del termine in lingua Norrena, vin che avrebbe potuto anche significare “prati”. Un cambio di paradigma particolarmente significativo, nei fatti, poiché estendeva la possibile collocazione di tale area geografica molto più a nord, dove l’uva non avrebbe mai potuto crescere coi metodi agricoli del Medioevo. Fino a un luogo dove negli anni ’60, indagando in modo sistematico come investigatori del nostro passato, l’archeologa Anne Stine Ingstad e suo marito esploratore Helge Ingstad andarono a fondo nella menzione di strani manufatti ritrovati da alcuni abitanti della zona circostante la città settentrionale di St. Anthony, nella provincia canadese di Labrador e Terranova. Per trovare infine, lungo la striscia di terra che si estende da quell’isola, un sito che sembrava degno di essere disseppellito con la massima cautela. Destinato a lasciar riemergere qualcosa di tanto eccezionale, così privo di precedenti da non permettere neppure a loro stessi di comprendere il cambio radicale di paradigma a cui avrebbe portato la sua scoperta. Principalmente un gruppo di otto edifici, inclusa una forgia e svariate centinaia di manufatti a partire dalla prima, distintiva fibbia lavorata in metallo, unicamente classificabili come il prodotto di una civiltà lontana. Proprio quella che si sospettava, a quell’epoca in maniera più che altro empirica, aver “scoperto” le Americhe almeno quattro secoli prima di Cristoforo Colombo. Troppi erano i segnali, in effetti, per ignorarli a partire dai segni presenti sui materiali da costruzione, chiaramente derivanti da strumenti frutto di lavorazione metallurgica riconoscibile, l’arcolaio in pietra per la lana e soprattutto l’architettura stessa, fino alla grande casa di colui o coloro che dovevano costituire i capi della spedizione, persino maggiore di quella di un capo villaggio nel contesto europeo. E di sicuro non il frutto, per quanto possiamo desumere, dell’intento di un popolo nativo. Il che provava per la prima volta in modo inconfutabile l’avvenuto contatto tra i continenti. Aprendo nel contempo la strada a possibili spunti d’analisi ulteriori…
vichinghi
L’incredibile appetito per le alghe della pecora di mare
Nell’isola scozzese di North Ronaldsay, parte del gruppo verdeggiante delle Orcadi settentrionali, il fenomeno ricorrente della bassa marea accompagna i ritmi ed influenza il comportamento dei più numerosi abitanti di quel tratto di terra. Candidi quadrupedi comunemente associati a fattorie ed allevamenti delle valli verdi site nelle aree emerse più grandi, le pecore da queste parti sono infatti inclini a cadenzare i propri ritmi circadiani e digestivi sulla base delle fasi dell’influenza lunare. Ed ogni volta che la sabbia nel bagnasciuga torna ad essere battuta dai raggi del sole, assieme all’organica abbondanza dei rifiuti trasportati dalle onde, esse ritornano a esplorare le propaggini più estreme della Terra. Impegnandosi a fagocitare, un morso dopo l’altro, i capelli aggrovigliate delle sirene.
Gli ovini in questione, membri indiscutibili della solita specie a noi precedentemente nota (Ovis aries) sembrerebbero infatti aver sviluppato un appetito e gli strumenti necessari per riuscire a trarre nutrimento dal secondo tipo di vegetazione, contrapposto agli alberi, l’erba e le piante che siamo soliti vedere nel corso delle nostre scampagnate: esse mangiano, da un tempo estremamente lungo, preferibilmente ed obbligatoriamente le alghe trascinate a riva, soprattutto quando appartenenti al genere Macrocystis o kelp, tradizionalmente usate in questi luoghi per la preparazione del carbonato di sodio o potash. Un’indubbia fonte di sostanze nutrienti e preziosissime vitamine, sebbene sbilanciate dal punto di vista dei metalli chimici ed inclini ad inibire l’assunzione da parte dell’organismo degli erbivori del necessario apporto di rame. Da cui l’alterazione pregressa, nel sistema digestivo delle nostre belanti fabbriche di lana, tale da permettergli di massimizzare l’assunzione di questa sostanza, rendendole inclini ad intossicarsi col consumo reiterato di qualsiasi altro tipo di alimentazione. Una caratteristica talmente rara in natura negli animali di terra, che l’unica altra specie sufficientemente studiata a presentarla è l’iguana marina delle Galapagos (A. cristatus) giunta d’altra parte ad un simile stile di vita per l’effetto esclusivo del proprio ambiente naturale. Laddove la North Ronaldsay sembrerebbe essere stata incoraggiata, almeno in parte dall’influenza e dalla mano operosa dell’uomo. Sebbene studi scientifici recenti abbiano ridimensionato, almeno in parte, tale narrativa. Riconfermando l’inclinazione degli animali ad adattarsi verso determinate pressioni ambientali come un’inclinazione generazionale di lungo respiro, piuttosto che la rapida e spontanea reazione a fattori trasversali dall’impostazione relativamente transitoria. Vedi la costruzione, molto amata da disegnatori di arbitrari confini, di un muro…
Apocalisse Anno Domini 793: la tragica devastazione vichinga di Lindisfarne
Come in molte altre isole disseminate lungo la costa della Britannia, il vecchio castello interrompe la linea prevedibile della costa, emergendo a guisa d’imponente monumento sopra l’unica collina di Lindisfarne. Accumulo tidale di suolo emerso, collegato al topos principale solamente da una stretta passerella di sabbia, così notoriamente incline a scomparire almeno due volte al giorno. Ma chi volesse immaginare tale solido edificio, fatto costruire nel XVI secolo da Enrico VIII per servire da punto difensivo strategico contro un possibile assalto proveniente dalla Scozia, come il più importante manufatto storico geograficamente interconnesso a questo luogo, starebbe adeguandosi al tipo di revisionismo in qualche modo causato, e fortemente agevolato, dai primi visitatori “esterni” approdati su questi lidi. Uomini con armi di ferro ed armature altrettanto solide, capaci di spingere le proprie navi in su e lontano dalla spuma dell’Oceano. Per poi lanciarsi, invocando i propri Dei pagani, all’indirizzo del sito sacro di tutta la Northumbria. Siamo nell’Ottavo secolo dunque, quando ancora l’odierna Inghilterra era divisa nei canonici sette regni, il più settentrionale dei quali aveva recentemente accumulato potere militare e prestigio grazie all’unione dinastica tra Etelfrido della Bernicia ed Acha, sorella del re della Deira. Quasi 100 anni dopo dunque, durante il periodo di relativa pace e prosperità, fu il loro nipote Oswald a convertirsi per primo al cristianesimo, decidendo di dare rilevanza a questa sua fede mediante la costruzione di un sito di studio e venerazione, un importante polo monastico a cui potessero fare riferimento i sudditi dei suoi domini. Fu così che per poter alimentare questa possibilità, chiamò a corte l’unico sant’uomo abbastanza influente da poterci riuscire, il rinomato araldo di una filosofia e stile di vita monoteista noto al popolo come Aidano. Siamo nel 634 d.C. e costui, predicatore proveniente dall’Irlanda, aveva a questo punto della sua esistenza già trascorso lunghi anni vagando per le terre limitrofe, diffondendo e sostenendo la novella ecumenica in termini per la prima volta comprensibili per la gente comune, senza latinismi o approfondite analisi sulla bibbia e le sue implicazioni complesse. Tanto da essersi visto attribuire diversi miracoli e doti di guarigione mistiche, destinate soltanto ad aumentare con l’incedere degli anni. Ma la sua eredità destinata a lasciare una traccia particolarmente tangibile nella storia della Cristianità britannica sarebbe giunta con la fondazione di quella che sarebbe in seguito diventata col nome di abbazia dell’Isola Sacra, un luogo di studio ragionevolmente indipendente e polo culturale di riferimento per l’intera costa orientale dell’Inghilterra nell’ultima parte dell’Alto Medioevo. Luogo di culto ragionevolmente indipendente, destinato a veder crescere ulteriormente il proprio prestigio nove anni dopo la sua morte, quando nel 651 vide giungere la figura di un ex soldato incline al romitaggio, destinato a passare alla storia grazie a una serie di ulteriori miracoli con il nome di San Cutberto. La cui venerazione, molti anni dopo aver acquisito per volere del sovrano la qualifica di vescovo ed aver così contribuito all’organizzazione delle pratiche monastiche di Lindisfarne, avrebbe in seguito subito un brusco arresto. Quando, per volere divino terribile e imperscrutabile, le sue reliquie furono sottoposte ad una profanazione del tutto priva di precedenti…
La sacra coppa che fu perduta e ritrovata, diventando l’emblema museale d’Irlanda
“Sbrigati, il bastione del forte non terrà ancora per molto!” Il giovane Coll, con il lungo coltello stretto nella mano sinistra, in assenza del fodero lasciato in casa nella fretta di raggiungere il rath, guardava ansiosamente verso la porta dell’oratorio quadrangolare in legno lavorato, mentre il fratello Sean, secondo aiutante del sacerdote del villaggio, apriva l’armadio con i paramenti, tirandone fuori il calyx ministerialis, singolo oggetto più sacro dell’intero insediamento. Costoro erano i due più giovani membri della milizia e figli di famiglia nobile, inviati a svolgere il doloroso compito proprio perché ritenuti, a torto o ragione, i meno utili nel breve assedio che stava per cominciare contro i razziatori provenienti dal golfo di Corryvreckan, forse gli stessi che avevano attaccato il celebre monastero di Lindisfarne. Uomini spietati, vestiti di metallo e con alti elmi conici, che secondo le storie dei viaggiatori molti avevano iniziato a chiamare i “vichinghi”. Uscendo in tutta fretta dal basso e finemente ornato edificio, Coll fece segno di fermarsi, mentre osservava di sfuggita per un’ultima volta il meraviglioso oggetto, donato con gran sfarzo al capoclan di Ardagh dal suo Re legittimo, a seguito dell’aiuto ricevuto nell’ultima campagna militare con il tuatha (piccolo dominio) confinante. La coppa usata per dire messa, e principalmente costruita in argento, oro, bronzo e vari smalti colorati, conteneva una quantità di altri metalli che nemmeno in due, sarebbero stati in grado d’identificare al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed in quel giorno fatidico, nel sesto mese del 723° anno dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, essa sarebbe stata sepolta, per salvarla dal pericolo più grande: quello di cadere in mano a predatori spietati ed infedeli, per finire tra i tesori di una stretta e lunga nave di ritorno nell’oscuro settentrione innevato. Così Sean, guardandolo dritto negli occhi, fece un cenno inequivocabile, verso la fossa già preparata coi principali oggetti di valore dell’insediamento. Proprio lì sotto la vecchia quercia, dove un altro calice di bronzo si trovava in attesa, assieme a vari gioielli tra cui le grandi spille circolari dei due esattori delle tasse, inviati qui dal sindaco prima di prendere anche loro le armi. Con la massima deferenza, i fratelli posarono la reliquia tentando d’ignorare i suoi della terribile e disperata battaglia. La vanga, d’altra parte, era ancora lì accanto. Quindi una volta completata l’opera Coll, impugnando saldamente il coltello, alzò lo sguardo oltre le mura circolari del rath: già la punta di un’ascia ed una spada sporgevano oltre il bordo della palizzata. Suo fratello aveva in mano un piccolo arco da caccia, materializzatosi chissà da dove. Era l’ora di tentare il tutto per tutto, dimostrando la propria forza d’animo e convinzioni contro i barbari alle porte della civiltà. A Dio piacendo, nella speranza di essere presi come schiavi e forse, un giorno, ritornare a conoscere la libertà. E forse tornare fino a qui, uomini diversi. E ancor più saldi nella propria fede nei confronti della Provvidenza.
Lieta e pacifica, l’Isola Verde probabilmente non lo era più stata, fin dal posizionamento dei primi vessilli sulle alte colline, strumenti validi all’aggregazione di gruppi sociali in grado di riconoscersi in un antenato comune, con la ferma intenzione di combattersi per delineare i limiti dei propri territori. Ma il tipo di crudeltà e conflitti che questi abitanti poterono sperimentare per la prima volta attorno al sesto e settimo secolo, assieme al resto delle isole britanniche, furono di un tipo e una portata totalmente diverse. Tale da giustificare, in più di un caso, il tentativo di seppellire i propri averi più importanti, nella speranza di un domani migliore. Un giorno che talvolta non aveva proprio alcun modo, né ragione di venire a manifestarsi…