Dalla Svezia un’efficace alternativa ai sacchetti sabbia per le alluvioni

Rosso, solido, di plastica, con una riconoscibile struttura angolare. Dotato dell’aspetto pratico di uno strumento conveniente nel quotidiano, come una graffetta, una puntina, una vite per l’intonaco dei muri. Che un individuo in tuta da lavoro pone sul sentiero dell’incombente, imprescindibile devastazione. Andando incontro ad un palese margine di miglioramento.
“L’acqua non può essere fermata” L’avevate mai sentito dire? È uno degli assiomi più frequentemente ripetuti negli ambienti della protezione civile, come presa di coscienza di una delle caratteristiche basilari del secondo elemento più abbondante del pianeta Terra, sempre e in ogni circostanza incline ad essere animato dal potente desiderio di procedere verso il basso. Per cui la sua unica sconfitta a lungo termine può essere individuata nel processo naturale di evaporazione, che richiede spazi idonei per l’accumulo, ed un tempo abbastanza lungo perché il l’astro diurno compia il suo miracolo quotidiano. Ma che dire in tutte quelle situazioni d’incombente disordine o naufragio metaforico, dovute all’occorrenza di una pioggia significativa, possibilmente accompagnata dalla tracimazione dei corsi o bacini idrici pre-esistenti? Quando la propagazione dei torrenti si trasforma, in un risvolto totalmente prevedibile ma non meno tragico per questo, nell’azione invadente degli spazi normalmente occupati dall’uomo e i suoi tesori, i suoi santuari, le sue abitazioni di pregio… Con l’unica possibilità rimasta di “sviare” il grande impulso verso luoghi alternativi, ovvero mettere al servizio collettivo l’essenziale assenza di un intento nel verificarsi dei disastri. Offrendo, per quanto possibile, un sentiero di minore resistenza attraverso la collocazione di barriere temporanee d’incanalamento. Granuli all’interno di contenitori globulari, normalmente, ovvero quegli ammassi di sabbia e stoffa che un tempo erano associati alla necessità di arrestare l’energia cinetica dei proiettili sparati dallo schieramento nemico. Ma i sacchetti non sono leggeri, né maneggevoli, né semplici da stoccare o trasportare presso il luogo del bisogno. Ecco l’idea alla base del sistema Boxwall della NOAQ Flood Protection AB di Näsviken, con sede presso i laghi di Dellen a nord di Stoccolma. Una compagnia che ha fatto della plastica la propria arma, e dello stampaggio di angolari forme geometriche un percorso privilegiato verso la risoluzione di uno dei maggiori problemi dell’umanità in pianura…

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Cemento e pietra: la scala surreale che serpeggia oltre una diga in Portogallo

Ci sono luoghi, esistono paesaggi nella nostra cara vecchia Europa che paiono evocare stati d’animo profondi, allontanare ogni pensiero logico e trasportare il corso del pensiero verso lidi remoti. Come quello della fiaba tipica della regione di Douro in Portogallo, dove si diceva che sopra l’omonimo fiume svettasse l’ombra di un dirupo. Lungo la parete del quale, scrutando con sufficiente attenzione, era possibile scorgere le tracce di una caverna in cui, avendo perso interesse per ogni aspetto della vita mondana, aveva optato di stabilirsi un sovrano moresco assieme a sua figlia, immortalata nella tradizione folkloristica con il nome di Dona Mirra. Il cui padre stregone, in base alle regole del misterioso mondo d’Oriente, aveva scelto di operare un profondo mutamento nella suddetta formazione rocciosa, in modo tale che durante il giorno si presentasse soltanto come una stretta ed insignificante apertura. Mentre la notte si spalancava, permettendo alla beneamata principessa di scrutare nella valle ed ammirare lo splendore dell’astro lunare. E se qualcuno, scioccamente, avesse mai tentato d’introdursi in tale residenza per impadronirsi dei preziosi tesori di famiglia, la roccia si sarebbe chiusa su di lui, schiacciandolo come un insetto che tentava di oltrepassare lo stipite di una finestra. Naturalmente, l’effettivo aspetto verificabile della vicenda è per lo più improbabile. Le grandi opere materiali costruite dall’uomo, per quanto attraverso l’utilizzo di un potere superno, tendono ad essere del tutto permanenti attraverso il procedere dei secoli a venire. Così come l’alta struttura dell’antistante diga sul fiume Varosa, i cui primi progetti risalgono addirittura al 1899.
Una barriera dall’aspetto alquanto normale, finché la si guarda dalla parte del suo bacino, rispondente ai crismi ragionevoli di una funzionale centrale idroelettrica ad arco, capace di generare l’energia di 24,7 MW. Coi suoi 76 metri d’altezza sopra la valle antistante e 213 di lunghezza complessivi, rispondenti a 81.000 metri quadri di volume occupato dal suo terrapieno ricoperto dalle solide pareti di cemento. Perché è soltanto nel momento in cui la nostra prospettiva dovesse spostarsi all’altro lato, qualora non fosse stata già quella la direzione da cui ci siamo avvicinati al sito, che compare nella nostra percezione il singolare aspetto maggiormente distintivo di una simile struttura. Situato sul lato sinistro, in opposizione allo scivolo convenzionale per la fuoriuscita dell’acqua in eccesso, come la struttura totalmente fuori dal contesto di una letterale dimensione alternativa. Scale che s’inseguono, salendo obliquamente, tra un dedalo di escheriane terrazze, cromaticamente riconducibili alla colorazione chiazzata che fu lungamente un crimsa visuale del Brutalismo. Corrente architettonica probabilmente assai lontana dal pensiero di chi giunse a costruire tale inusitato apparato infrastruttura verso la metà del secolo scorso, con l’obiettivo dichiarato di poter garantire un pratico sentiero d’accesso alla manutenzione della diga stessa. Senza rendersi effettivamente conto, o forse rimanendo del tutto cosciente, di aver creato a tutti gli effetti la versione iberica del celebre accesso alla città sacra degli Incas, Machu Picchu tra la nebbia delle alte montagne peruviane. Ancorché priva, dal punto di vista comparativo, delle stesse ragionevoli strutture a sostegno della sicurezza per eventuali ed imprudenti turisti…

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L’atletica maniera per domare il mostro di cemento che protegge il Giappone

In un video alquanto memorabile l’esperto di parkour australiano Michael Khedoori procede con agilità spettacolare in quello che potremmo definire un vero e proprio percorso di guerra. Da una stretta superfice all’altra, sopra un mare letterale di estrusioni geometriche, salta innanzi e sotto ed oltre una foresta pietrificata di ottime intenzioni, effettivamente più simili allo scheletro di un grande animale. Lasciato lì ad assorbire l’energia solare un mese alla volta, un anno dopo l’altro, finché il giorno non verrà in cui egli dovrà ritornare finalmente utile, innalzandosi a formare il baluardo del terzo pianeta di un kaijū benefico dell’era Seijin. Godzilla scorporato e replicato a profusione, dalla stessa energia atomica che gli aveva dato i natali. E sebbene sia altamente probabile che la scena in questione si svolga nell’Australia natìa del suo protagonista, c’è soltanto un luogo, tra tutti, in cui un simile principio creativo potrebbe essere condotto fino alle sue più estreme conseguenze, considerato il modo in cui l’oggetto tende a ricoprire circa il 50% dello spazio utile sui sui 35.000 Km di costa.
In un’antica leggenda folkloristica dell’arcipelago nipponico, un colossale pesce gatto giace incatenato ad una pietra tra le tre isole maggiori del Kyushu, Honshu e lo Shikoku. Intrappolato in questo luogo dal dio del fulmine Takemikazuchi, esso trascorre i secoli dormiente, restando immobile ad immaginare tempi migliori. Di tanto in tanto, tuttavia, agitandosi per qualche minuto, scuote la Terra dalle sue stesse fondamenta, causando alcuni dei disastri più terribili che l’uomo abbia mai conosciuto. Inclusi terremoti e maremoti, la condanna senza data di scadenza del popolo più a Oriente di tutta l’Asia. E questo, spiega, almeno in parte, l’amore smodato di costoro nei confronti del cemento armato. Calcestruzzo, cassaforme, bentonite, pozzolana: ogni aspetto possibile ed immaginabile del materiale di edilizia solido per eccellenza, ma soprattutto relativamente pronto ad assorbire forze energetiche di provenienza obliqua o trasversale. Senza spezzarsi, con semplicità procedurale, dando inizio al tragico esito della vicenda. Ma prevenire i crolli non è altro che un singolo aspetto dell’intera questione, quando si considera il tipo e gravità di danni che possono essere creati in modo diretto alla popolazione civile, dall’occorrenza di quel tipo di disastro che viene identificato nella lingua nazionale con il termine di “onda del porto” ovvero in modo più sintetico, tsunami. E chi non vorrebbe poter disporre, in quei brevi e drammatici momenti, della protezione di una costa stessa che sia coperta interamente di quel sacro materiale, capace come l’armatura dei fieri antenati samurai di resistere ad un tipo di danneggiamento e d’invasione, inclusa quella condotta dalle particelle equanime e indivise di un singolo elemento intento a reclamare ciò che un tempo era stato suo, e suo soltanto? Ciò che abbiamo sin qui descritto dunque, per chi non lo sapesse, viene definito in gergo tecnico un tetrapode o “creatura dotata di quattro zampe”. Così come avviene per un’ampia categoria di animali di questa terra, ma anche la caratteristica creatura inventata all’inizio degli anni ’50 dai francesi Pierre Danel e Paul Anglès d’Auriac all’interno dell’avanzato Laboratoire Dauphinois d’Hydraulique di Grenoble, Francia. Quando si giunse finalmente a capire come la protezione delle coste dall’energia corrosiva delle onde fosse conducibile ancor meglio condotta fino alle sue estreme conseguenze dall’impiego di forme geometriche create ad-hoc, ovvero create mediante la manifestazione pratica dell’occhio Platonico e pineale che dir si voglia, capace di comprendere le leggi più fondamentali dell’Universo…

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Militari mostrano il sistema più rapido per costruire una muraglia

Uno dei più antichi e universali assiomi del conflitto bellico è che non esiste fortificazione, non importa quanto impervia e invalicabile, che possa risultare maggiormente resistente di coloro che ricevono l’incarico di sorvegliarne i confini. Il che diventa tanto maggiormente vero nella guerra moderna, in cui la naturale progressione di armi, mezzi e addestramento sono giunti a realizzare l’ideale di trovarsi in ogni luogo in qualsiasi momento, senza nessun tipo di preavviso. Quando il nemico si trova alle porte, dunque, con i suoi pick-up Toyota armati fino ai denti, le sue autobombe, i colpi dell’artiglieria ormai desueta ma non per questo meno efficace, è davvero importante quale sia l’altezza dei propri bastioni, quante feritoie sono disponibili e la precisione della sovrastante merlatura? Quanto piuttosto, poter contare su un perimetro non facilmente scavalcabile, pronto in poco meno di un pomeriggio mediante l’applicazione di un sistema attentamente calibrato? Hesco è il commerciale della pratica risposta a un simile quesito, e sebbene tutti sembrino pensare possa trattarsi di un acronimo è piuttosto acclarata la sua corrispondenza a una particolare azienda britannica, fondata nel remoto 1989 per riuscire a realizzare la visione originaria del suo fondatore: la creazione di un sistema di fortificazioni portatili dalla più semplice, nonché rapida modalità d’impiego. Collocabile e rimuovibile con estrema facilità procedurale, la stessa in grado di permettergli di rimanere, invece, in posizione per interi mesi, anni o generazioni. Così come sapevano riuscivano a operare gli antichi, fin da quando nell’Egitto dei faraoni un simile approccio veniva utilizzato per instradare e contenere la piena del fiume Nilo. Stiamo parlando, in effetti, di quello che in gergo tecnico è il “gabbione” che poi rappresenterebbe un contenitore molto stabile di forma cubica, a parallelepipedo o a losanga, da riempire con copiose quantità di terra, ghiaia e pietre affinché niente o nessuno, senza un qualche tipo di sforzo notevole, possa aspirare a spostarlo dalla posizione designata. Pratico. Inamovibile. Conveniente.
La versione contemporanea di una simile risorsa logistica d’innegabile e continuativo valore, perfezionata mediante la capacità di ripiegarsi su se stessa a fisarmonica prima e successivamente all’uso, è stata quindi soprannominata nel corso degli ultimi due conflitti del Novecento, Iraq ed Afghanistan, con il portmanteu di concertainer, dalle due parole concertina e container; la prima delle quali riferita chiaramente alla forma e funzionalità dell’oggetto, mentre la seconda in senso maggiormente metaforico allo strumento musicale, simile alla fisarmonica, già utilizzato per il filo spinato confezionato con la forma di spirale, la più basilare, rapida e temporanea delle fortificazioni. Laddove una barriera Hesco, una volta adeguatamente installata, risulta essere l’esatto opposto dimostrandosi perfettamente capace di ostacolare, oltre a uomini e veicoli, anche la traiettoria di munizioni o schegge d’esplosivo indirizzate verso le aree maggiormente dense del campo militare. Ed in tal senso più di un veterano, nel corso di entrambi i conflitti citati, avrebbe potuto fare affidamento sulla sicurezza garantita di un perimetro costituito da questi blocchi assai versatili, disposti in fila singola o persino sovrapposte, con l’unico sistema di giunzione garantito dalla stessa forza di gravità. Ciò che colpisce maggiormente, nell’impiego dei modelli della serie MIL con altezza variabile tra 1,37 e 2,74 metri, è la maniera in cui possono venire preventivamente stipati molti metri di recinzione all’interno di un autocarro con rimorchio ribaltabile. Per poi procedere nello scaricamento progressivo e dislocazione sulla base del progetto nel semplice tempo necessario a guidare tra un punto A e B. Lasciando alla squadra di genieri il solo compito di collegare e bloccare in posizioni le giunzioni ai vertici dei cubi, prima di procedere al riempimento tramite l’impiego di copiose quantità di materiale. Un passaggio non meno semplificato, d’altronde, rispetto alla preparazione degli ormai superati sacchetti di sabbia, grazie alla possibilità d’impiego di un singolo mezzo pesante dotato di benna, mediante il quale spostarsi lungo l’intero estendersi del muro e provvedendo in questo modo a completarne l’effettiva funzionalità operativa. Qualcosa in grado di riuscire utile, allo stesso modo, sia in tempo di guerra che durante i brevi e più pacifici periodi dell’articolata vicenda umana…

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