Un passaggio tra le mura del prodigio costruito per portare l’elettricità in Irlanda

Pareti alte come quelle di una cattedrale, i cui scorci lasciano filtrare raggi infusi di un tenue lucore. La prua dell’imbarcazione attentamente misurata che s’insinua, come un verme piatto, nell’angusto ascensore rugginoso. E mentre l’acqua lentamente sale, cadendo lungo il ruvido perimetro pietroso, innanzi fa la sua comparsa la massiccia porta di un castello fluviale. Ardnacrusha, risuona la parola nelle nostre menti. Ardnacrusha, il cancello per il regno qualche volta realizzabile dei sogni.
Ogni grande ribellione, o cambiamento obbligato dello status quo, ha più di una singola ragione per verificarsi, costituendo l’effettiva sovrapposizione di cause immediate con fattori universali o inerenti. Ciò che le persone pensarono a Dublino, come il resto dell’Isola Verde nell’aprile del 1915 può essere riassunto nella singola espressione: “La misura è colma”. Per il rifiuto reiterato all’auto-determinazione anche parziale da parte del Parlamento inglese. Per la dura repressione di gruppi politici indipendentisti. A causa del reclutamento forzato di giovani irlandesi per la causa mai davvero sentita della Grande Guerra d’inizio secolo. E naturalmente, l’odio inveterato, di un paese che aveva subito la fame, la tirannia, l’occupazione militare a più riprese dall’ultima parte del periodo medievale. Soltanto per l’ostinato attaccamento ai propri simboli ed una bandiera distinta. Al “complotto” e conseguente rovesciamento dell’ordine britannico, in modo inevitabile, avrebbe fatto seguito un’accesa e continuativa guerriglia. Finché nel 1922, sarebbe nata la Saorstát Éireann o Libera Irlanda, la prima espressione autonoma di tale nazione da un breve periodo nel XVII secolo. Eccezionale è la potenza di un popolo unito, della convinzione della sua gente. Al punto da poter piantare, in modo innegabilmente proficuo, il seme ingegneristico del dubbio. Nel caso specifico, quello relativo alla fattibilità di un piano, proposto per la prima volta nel 1844, che avrebbe potuto contribuire grandemente ai propositi d’autonomia logistica di questa risorta nazione. Per l’approvvigionamento di carbone, diventato all’improvviso necessario dopo il diffondersi nel corso del ventennio antecedente dei sistemi d’illuminazione elettrica cittadina, il superamento dei motori a vapore in campo minerario e l’arrivo dei primi clienti privati al fine di ricevere l’energica scintilla della Nuova Era. “Perché non costruire” chiese allora il chimico ed educatore Sir Robert Kane “Una centrale idroelettrica tra Killaloe e Limerick, sul modello di quanto proposto da Nikola Tesla presso il Niagara statunitense?” Un progetto che la Board of Trade di Londra trovò innegabilmente interessante, benché al tempo stesso irrealizzabile. Chi avrebbe raccolto per anni le approfondite informazioni relative al flusso d’acqua del fiume Shannon, dove sarebbero state trovate le copiose risorse e la manodopera necessarie al fine d’imbrigliare la sua potenza? Ciascun ostacolo pareva inamovibile, finché il popolo non prese in mano la sua storia. Decidendo di seguire strade alternative verso la realizzazione delle proprie aspirazioni latenti…

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La tecnica desueta per costruire un acquedotto dai tronchi di pino

Convivere implica efficienza e le indistinte collettività attraverso i secoli, anche quando l’inerente umidità poteva risultare abbastanza, non si sono mai davvero accontentate di una pioggia ogni tanto. Poiché un conto è l’acqua che ricade dalle nubi tempestose, un altro è quello stesso fluido incamerato e veicolato come linfa di un sistema di distribuzione, del tipo che i Minoici, prima di chiunque altro, seppero costruire nel mondo antico. Per un labirinto sopra il suolo ed un secondo, in terracotta, in grado d’irrigare i bagni dei palazzi e residenze dei più affermati rappresentanti del potere supremo. Laddove già gli antichi Romani, tra le loro opere d’ingegneria profondamente rinomate, donarono alla gente l’acquedotto e ad irradiarsi da quel valido sentiero sopraelevato, fin dalle acque sorgive delle montagne disabitate, implementarono un sistema di condotte dell’ultimo miglio, create da diversi materiali attentamente selezionati allo scopo. Uno di questi era notoriamente il piombo, secondo alcuni responsabile dell’avvelenamento e conseguente degrado cerebrale di svariati Imperatori. Ed un altro decisamente meno problematico, il semplice legno prelevato in modo molto pratico da dove ce n’era ancora in abbondanza: le dense foreste della macchia mediterranea. Trascorsero i secoli e molto cambiò dal punto di vista tecnologico. Ma non questo: così fino alla fine del Medioevo, ancora nel Rinascimento e persino agli albori dell’epoca Moderna, vaste realtà cittadine continuarono a servirsi delle tubature in legno. Con particolare rilevanza in tal senso per gli insediamenti coloniali del nord-est degli Stati Uniti, storicamente e geograficamente collocabili nel punto antecedente all’invenzione di approcci moderni, in un luogo in cui l’abbondanza di alberi alti e forti superava di gran lunga le aspettative di qualsiasi altro territorio. Ecco allora come, ad oltre due secoli e mezzo distanza, le squadre addette alla manutenzione idrica si trovano a dissotterrare di tanto in tanto, in quel di Boston, New York ed altre città simili, interi tratti di acquedotto che sarebbero perfettamente a loro agio nell’alto capanno di una segheria. Qualche volta ancora in uso prima di essere scoperti e localizzati. Nei casi limite, ad un tal punto funzionali, che l’unica cosa da fare una volta effettuata la riparazione richiesta, è controllare i punti di raccordo e lasciarli dove sono, a svolgere quella mansione multi-secolare per cui erano stati originariamente posizionati. (Se non vengono tirati fuori e posti nelle sale di un pertinente e altrettanto spazioso museo).
Cosa potrebbe mai causare, d’altronde, il degrado sotterraneo di un tronco il cui interno è stato preventivamente svuotato? Nei profondi ambienti ctoni ove l’ossigeno non penetra, e gli insetti xilofagi non hanno l’opportunità di sopravvivere in alcuna immaginabile maniera. E l’acqua scorre, libera ed eterna, fino all’ideale fonte dei nostri candidi e magnifici lavandini…

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Zerbini asfaltati: l’utilizzo della fibra di cocco nella costruzione delle strade indiane

La metodologia moderna dei trasporti è la fondamentale applicazione di due campi tecnologici paralleli e distinti: la motorizzazione dei veicoli, la costruzione di strade. Spazi deputati che non siano mera terra battuta, o strisce di ghiaia percorribili, bensì uno strato resistente all’usura e il calpestio, per cui la pressione ripetuta di un carico pesante non sia altro che una mera nota a margine, di una vita utile non propriamente costellata d’interventi di manutenzione o ripristino della superficie usurata. Il che significa in parole povere che il manto ruvido da noi percorso, quella grigia superficie appiattita, non è altro che la superficie dell’iceberg, parte visibile di un sandwich costituito da cielo, terra e bitume. Costruito per ironica evidenza, proprio dagli scarti di lavorazione di quel tipo di carburante fossile, il greggio, che spinge la in una forma oppur l’altra il maggior numero dei motori contemporanei. E se ci fosse una diversa maniera? Volendo prendere in analisi l’intero novero delle alternative nell’industria globalizzata, tutt’ora esistono dei luoghi dove la principale produzione, in termini di tonnellate oggetto di processazione nelle fabbriche, può essere di una diversa natura. Sto parlando del Kerala nella “punta” meridionale dell’India, dove ogni anno vengono prodotte ed in parte esportate circa 5921 milioni di noci di cocco, pari al 15% dell’intero GDP agricolo dello stato. Una fortuna in termini economici e di alimentazione, senza ombra di dubbio, ma anche la fonte di migliaia di tonnellate di dure scorze di scarto ogni giorno, fonte di un inquinamento solido per quanto biodegradabile, che tende a richiedere ampi spazi di stoccaggio ai margini delle zone dedicate alla processazione del loro commestibile contenuto. Qui potrebbe anche finire la nostra storia, se la cultura popolare dell’India non si fosse dimostrata, nel corso delle ultime decadi, una base solida per l’implementazione di numerose valide iniziative di riciclo, non del tipo creativo bensì integrato in effettive filiere utili in diverse maniere alla società civile. Ed è pensando certamente ad una simile missione, che a partire dal remoto 1953 il governo di questo paese ha previsto l’istituzione di un ministero, detto “del coir” dal nome internazionale delle fibre tessili ricavate da tale materiale, dedicato alla gestione tra le altre cose di un tipo d’industria collaterale ma non per questo meno produttiva in termini di metri quadri ricoperti. Da un tipo di manto versatile che potremmo accomunare in linea di principio all’aspetto pratico di uno zerbino gigante…

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Sgargianti aeroplani, canguri bellicosi: i serbatoi sul tetto che decorano le case del Punjab

Successivamente alla partizione dell’India dopo la disgregazione del Raj inglese, alcune zone di confine tra lo stato riformato e il Pakistan moderno si trovarono a gestire situazioni economiche complesse. Per non parlare di circostanze climatiche, ulteriormente esacerbate in epoca contemporanea, non propriamente valide alla conservazione di standard di vita dall’elevato coefficiente di confortevolezza. È questo senza dubbio il caso del Punjab, culla dell’originale civiltà della valle dell’Indo, dove a parte il periodo dei Monsoni, l’inaridimento dell’epoca contemporanea avrebbe concentrato copiose piogge nel periodo dei monsoni, lasciando l’estate propriamente detta, ma anche l’inverno, sprofondate in lunghi e pervicaci periodi di siccità. Basta aggiungere a questo l’attaccamento, da parte della gente di questi territori, a tecniche agricole tradizionali come l’assetata risaia nonché l’utilizzo esclusivo di acqua procurata localmente, piuttosto che fornita tramite acquedotti o canali al fine d’irrigarla, per comprendere quanto frequentemente gli abitanti di una zona come il distretto di Jalandhar possano trovarsi all’asciutto, dovendo ricorrere a soluzioni di approvvigionamento idrico tutt’altro che ideali. Facile giustificare, a questo punto, l’alto numero di strutture per lo stoccaggio sistematico dell’acqua incorporati nella maggior parte delle soluzioni architettoniche auto-gestite, principalmente appartenenti alla categoria più popolare nei villaggi, di spaziose villette o palazzine appartenenti a una singola famiglia multi-generazionale. Ingombranti serbatoi, che in altri luoghi apparirebbero esteticamente stranianti, distopici nell’incombente cozzare di forme utilitaristiche con qualsivoglia tentativo di abbellire le adiacenti mura. Ovunque, ma non qui. Diventati celebri recentemente grazie ad una mostra fotografica in Gran Bretagna del fotografo Rajesh Vora, ma anche per la loro inclusione nella trama del film di Netflix sull’emigrazione Dunki, del regista Rajkumar Hirani, i variopinti serbatoi diventati sono diventati un importante simbolo locale dall’incredibile tripudio di forme, colori e metafore appariscenti. Molti di essi atti a simboleggiare proprio l’insediamento di un membro della famiglia in paesi lontani, ed il conseguente aumento d’introiti con capienti contenitori dalla forma di canguri australiani (con tanto di guantoni da pugilato) Statue della Libertà statunitensi ed altri celebri simboli nazionali. Piuttosto che celebrazioni del concetto di viaggio in quanto tale, vedi la famosa replica in mattoni e intonaco di un jet di linea della Air India, situato presso l’insediamento di Uppal Bhupa di proprietà di Santokh Singh Uppal dalla lunghezza complessiva di 25 metri. Edificato, come la stragrande maggioranza dei suoi simili, durante la prima decade dell’anno duemila, quando iniziò a propagarsi a macchia d’olio questa ingegnosa, quanto altamente caratteristica fad popolare. La realizzazione particolarmente tangibile, di un privilegiato filo conduttore tra senso comune ed arte popolare del quotidiano…

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