In un mondo in cui la specializzazione sembra ormai rappresentare il nettare che nutre il fondamento stesso della società contemporanea, esiste ancora un tipo di mestiere, o attività che dir si voglia, in cui la somma delle proprie precedenti esperienze costituisce un carburante fattivo, la spinta implicita delle proprie aspirazioni comunicative latenti. Chi se non l’artista, d’altronde, può basare il proprio senso del dovere nei confronti delle moltitudini su di un’esperienza transitoria, durata appena una ventina di secondi collocati in senso cronologico all’inizio di un’ormai trascorsa stagione della sua vita? Ovvero nel caso del qui presente costruttore onirico, Reuben Heyday Margolin, l’aver visto un bruco che strisciava sulle sabbie del deserto, in una placida giornata di parecchi anni fa. Larva di un comune lepidottero, il cui movimento reiterato giunse tuttavia a rappresentare per la sua immaginazione tutto ciò che di dinamico e vivace può persistere nel pozzo subitaneo dell’Universo, da cui una rana scruta verso l’alto e prova il sentimento che può attribuire, ad ogni singola forma di vita, significati algebrici ulteriori. Coadiuvati da quello scopo esistenziale con immense proporzioni latenti.
Così l’uomo che ha studiato all’Università, nell’ordine: matematica, geologia, antropologia, lettere ed ha poi completato la sua erudizione presso celebri accademie di disegno a Firenze e San Pietroburgo, oggi è celebre per un particolare quanto distintivo tipo di scultura cinetica fondata su principi filosofici e naturalistici, che riesce ad evocare la natura pur mostrando fieramente i meccanismi che costituiscono il sistema funzionale di un meccanismo niente meno che impressionante. Nel modo in cui una semplice fonte di movimento, in genere un motore elettrico, anima la serie d’ingranaggi interconnessi e camme, rigorosamente analogici e per questo in grado di operare con funzionale discrezione dei singoli attimi, verso l’ottenimento di una sequenza in qualche modo pregna o in grado di condurre a multiple utili interpretazioni personali. Questo perché ciò che rappresenta forse il punto di maggiore distinzione dell’autore, rispetto ai molti colleghi attivi nello stesso campo dell’arte contemporanea, è una ferrea aderenza al tema principale di una singola ricerca: quella per ridurre un’ampia gamma di fenomeni e forme di vita allo strumento interpretativo di un’analisi numerica. Un vero e proprio codice, in parole povere, che dimostra di essere risolto nel momento stesso in cui comincia a svolgere l’attività per cui è stato creato…
bruchi
Lo stratagemma del bruco travestito per rubare tra gli avanzi degli aracnidi hawaiani
Un’osservazione spassionata della più popolosa isola dell’arcipelago del fuoco nel mezzo dell’Oceano Pacifico, la spesso visitata O’ahu, può risultare sufficiente a comprenderne l’unicità geologica, come parte della crosta continentale riemersa, col passaggio dei millenni, dalle oscuri abissi sottomarini. Su più livelli che risultano allo stato attuale adiacenti, incluse quelle due “catene” montuose di Koʻolau e Waiʻanae, così chiamate nonostante rappresentino la parte sommitale di altrettanti massicci vulcanici, la cui forma simile a uno scudo è andata persa innumerevoli generazioni prima della venuta dell’uomo su queste terre. Ma generazioni di cosa, esattamente? Secondo Daniel Rubinoff, professore di entomologia presso l’Università di Manoa, tra i più antichi esseri a poter vantare una linea d’esistenza ininterrotta da simile piattaforme paesaggistiche privilegiate, da oltre 6 milioni di anni può essere esplicitamente annoverata una minuscola falena. E conseguentemente a tale affermazione, quello che per circa un paio di decadi lui e il suo team hanno fatto il possibile per confermare essere il suo bruco. La ragione di tale insolita incertezza può esser dunque rintracciata in una caratteristica molto particolare della creatura, finalmente descritta sul finire di aprile (ma non ancora fornita di un nome scientifico) nella rivista Science, abituata come gli altri esponenti del genere Hyposmocoma a formarsi un’armatura protettiva con vari tipi di detriti ed ogni altro oggetto funzionale allo scopo che gli riesca di trovare in giro. Ma di un tipo molto più sofisticato e protettivo rispetto alle specie cognate, proprio a causa del pericoloso stile di vita che caratterizza la creatura in questione. In bilico per fame in mezzo a fili appiccicosi che in condizioni normali non sarebbero affatto raccomandabili, in quanto costruiti dal più stereotipico e temuto predatore tra gli artropodi: il ragno. Di ogni varietà e voracità possibile, nella diversificata biosfera isolana, tra la totale indifferenza di un intruso consumato la cui esperienza evolutiva ben conosce l’efficacia del singolare espediente. Questo perché il nostro amico lepidottero, soprannominato non a caso dalla stampa come il “collezionista d’ossa” può vantare la macabra ed originale abitudine di vestirsi degli avanzi dei cadaveri, lasciati in giro per la ragnatela dopo ciascun pasto del suo nemico…
Oh, pittore per antonomasia: qual mirabile pennello ha tinto l’ali di cotanta falena?
“Non andartene docile in quella buona notte, metamorfosi dovrebbe ardere e infierire quando cade il giorno; infuria, infuria contro il morire della luce” E sia! Molti tendono a tralasciare la saliente maniera in cui qualsiasi personalità creativa, sia l’individuo un pittore, musicista o poeta come Dylan Thomas, avesse in se il potenziale di diventare un entomologo. Poiché non è forse proprio tale categoria di esseri viventi, gli insetti, la più fenomenale testimonianza dell’ineccepibile capacità creativa della Natura, l’efficace dimostrazione che la bellezza può derivare dall’utilità, intesa come capacità di sopravvivere perpetrando una particolare soluzione dei problemi che ci rendono quasi fratelli? Contrattempi generalmente privi di fascino, quali il bisogno di mangiare, difendere il territorio, riprodursi… Essere il perfetto bruco e quindi l’infallibile farfalla. Scintille d’energia dinamica nella foresta museale di un certo mondo. E tutto ciò che inevitabilmente tende a derivarne. Se stessi compilando una fiaba, dunque, affermerei a questo punto: “C’era una volta un lepidottero. Il cui volo era tormentato da un migliaio di pericoli alla volta. Così come suo padre, sua madre e l’incalcolabile progressione dei suoi antenati, egli zigzagava schivando il becco d’uccelli. E ogni volta si posava aspettando le fauci di fiere in agguato, come gatti, mustelidi o i figli della stirpe scimmiesca.” Meno rara di quanto poteste pensare, nel saliente caso! Ci troviamo, dopo tutto, nel Sud Est asiatico e in India. Dove sin dall’epoca della fondazione di antiche discipline o religioni, la regola non scritta della meraviglia sembrerebbe aver determinato il corso di un trasversale destino. “Perciò il lepidottero scelse di essere come l’acqua che riflette il cielo. Scelse di sembrare molte cose allo stesso tempo.” Immagino abbiate capito ciò a cui sto alludendo. O quanto meno, a questo punto, la foto abbia sortito il doveroso effetto; poiché questo non è un insetto, nella propria forma adulta, che allinei la propria livrea all’aspetto di un pezzo di corteccia o la superficie di una foglia. Nossignore, Linneo. E lo stesso Darwin si sarebbe interrogato su quale processo di selezione potrebbe aver condotto per vie impreviste a qualcosa di tanto lontano dal consueto. Dopo tutto, questa specie scoperta, descritta e classificata per la prima volta nel 1882 in un catalogo illustrato del grande entomologo Frederic Moore, sembrerebbe essersi meritata a pieno titolo l’appellativo scientifico di Baorisa hieroglyphica. Con un diretto riferimento, per l’appunto, alla variopinta e complessa scrittura pittografica dell’antica civiltà egizia. Benché la più immediata ed istintiva sapienza popolare avrebbe preferito, in seguito, un riferimento ad uno dei più grandi creativi ed uomini più famosi del Novecento: Pablo Picasso in persona, utilizzatore in determinati “periodi” della sua carriera di armonie contrastanti di salienti colori. Così come quelli disposti, tanto artisticamente, sull’ali della nostra fluttuante amica…
Il vantaggio pratico del bruco con la testa di due misure più grande
Non dovremmo mai dirci predisposti a sottovalutare le doti che derivano dal possesso di un grande cervello. In un’ideale rassegna delle possibili specie aliene che hanno visitato la Terra, è frequente l’attribuzione di particolari poteri psichici o prerogative sovrannaturali ai cosiddetti grigi, umanoidi esili, dai bulbosi occhi d’insetto e un cranio a dir poco enorme. Quali eccezionali pensieri, quante ardite metafore o concetti trasversali, potranno dunque aver fatto la propria comparsa, inseguendosi tra le sinapsi ultramondane di simili filosofi della Galassia ulteriore? Ancorché d’altronde, risulti essere tutt’altro che scontata l’effettiva corrispondenza tra il contenitore e ciò che occupa il suo spazio interno, come largamente noto agli estimatori di frutta tropicale, alle prese con l’occasionale drupa dall’aspetto lucido e splendente, nel cui interno si nasconde una polpa non così attraente o dalla consistenza inappropriata al delicato palato umano. Quando al suo interno non figura addirittura, placido e satollo, la strisciante forma di una larva che conosce chiaramente il proprio posto riservato nell’Universo. Come un elfo sulla mensola, come il Jolly fuori dalla scatola, un serpente ipnotizzato nella cesta, l’incomparabile silhouette del piccolo animale non più lungo di un paio di centimetri potrà quindi comparire in controluce. Dando l’immediata e non del tutto apprezzabile impressione che sul proprio corpo flessibile gravi il carico di uno sproporzionato parassita dalla forma globulare. Qualcosa che s’insinui nello spazio largamente cavo di quella parte di esoscheletro situata in corrispondenza del cranio. Per pensare validi e sofisticati anatemi, al posto di colui che non possiede nella sua panoplia genetica una tale predisposizione operativa… Ma facente in realtà parte del segmento dell’addome dell’artropode immaturo. E le apparenze spesso inganno e di certo questo è un bene. Soprattutto per il qui presente bruco della famiglia di falene Nolidi, originaria dell’India e della parte meridionale del resto dell’Asia, che su tale predisposizione al fraintendimento si è dimostrato capace di orchestrare la sua intera carriera. Di creatura che non possedendo nessun tipo di difese operative (peli urticanti, sapore sgradevole…) si è del resto fatta scudo di un’alternativo metodo d’autoconservazione: quello che permette, o per lo meno dovrebbe favorire, l’impresa di passare ragionevolmente inosservati. Chi l’avrebbe mai detto?
Perché di certo una creatura come questa non vuole in alcun modo assomigliare ad altri esseri del regno animale. Bensì qualcosa di ragionevolmente comune all’interno delle foreste da cui provengono, come un esemplare ancora lungi dall’essere maturo di prugna, jujube o mela di Ambri. Ovvero un cibo per gli uccelli che risulta facile da procacciarsi e al tempo stesso, inferiore a quello procurabile a partire da una pletora di circostanze topograficamente vicine. E chi vorrebbe accontentarsi, dunque, di una scelta di siffatta provenienza e/o natura…