Oh, pittore per antonomasia: qual mirabile pennello ha tinto l’ali di cotanta falena?

“Non andartene docile in quella buona notte, metamorfosi dovrebbe ardere e infierire quando cade il giorno; infuria, infuria contro il morire della luce” E sia! Molti tendono a tralasciare la saliente maniera in cui qualsiasi personalità creativa, sia l’individuo un pittore, musicista o poeta come Dylan Thomas, avesse in se il potenziale di diventare un entomologo. Poiché non è forse proprio tale categoria di esseri viventi, gli insetti, la più fenomenale testimonianza dell’ineccepibile capacità creativa della Natura, l’efficace dimostrazione che la bellezza può derivare dall’utilità, intesa come capacità di sopravvivere perpetrando una particolare soluzione dei problemi che ci rendono quasi fratelli? Contrattempi generalmente privi di fascino, quali il bisogno di mangiare, difendere il territorio, riprodursi… Essere il perfetto bruco e quindi l’infallibile farfalla. Scintille d’energia dinamica nella foresta museale di un certo mondo. E tutto ciò che inevitabilmente tende a derivarne. Se stessi compilando una fiaba, dunque, affermerei a questo punto: “C’era una volta un lepidottero. Il cui volo era tormentato da un migliaio di pericoli alla volta. Così come suo padre, sua madre e l’incalcolabile progressione dei suoi antenati, egli zigzagava schivando il becco d’uccelli. E ogni volta si posava aspettando le fauci di fiere in agguato, come gatti, mustelidi o i figli della stirpe scimmiesca.” Meno rara di quanto poteste pensare, nel saliente caso! Ci troviamo, dopo tutto, nel Sud Est asiatico e in India. Dove sin dall’epoca della fondazione di antiche discipline o religioni, la regola non scritta della meraviglia sembrerebbe aver determinato il corso di un trasversale destino. “Perciò il lepidottero scelse di essere come l’acqua che riflette il cielo. Scelse di sembrare molte cose allo stesso tempo.” Immagino abbiate capito ciò a cui sto alludendo. O quanto meno, a questo punto, la foto abbia sortito il doveroso effetto; poiché questo non è un insetto, nella propria forma adulta, che allinei la propria livrea all’aspetto di un pezzo di corteccia o la superficie di una foglia. Nossignore, Linneo. E lo stesso Darwin si sarebbe interrogato su quale processo di selezione potrebbe aver condotto per vie impreviste a qualcosa di tanto lontano dal consueto. Dopo tutto, questa specie scoperta, descritta e classificata per la prima volta nel 1882 in un catalogo illustrato del grande entomologo Frederic Moore, sembrerebbe essersi meritata a pieno titolo l’appellativo scientifico di Baorisa hieroglyphica. Con un diretto riferimento, per l’appunto, alla variopinta e complessa scrittura pittografica dell’antica civiltà egizia. Benché la più immediata ed istintiva sapienza popolare avrebbe preferito, in seguito, un riferimento ad uno dei più grandi creativi ed uomini più famosi del Novecento: Pablo Picasso in persona, utilizzatore in determinati “periodi” della sua carriera di armonie contrastanti di salienti colori. Così come quelli disposti, tanto artisticamente, sull’ali della nostra fluttuante amica…

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Di dame, armi e cavalieri, dipinti sulle mura del castello più illustrato del Medioevo

Esiste il caso iscritto nelle pagine della storia dell’arte, in cui i tentativi di raggiungere o ricostruire un modello possono riuscire a generare un qualche cosa d’autentico, del tutto in grado di donare un senso di continuità ai grandi maestri del passato. Che andati possibilmente perduti al declinare di un’epoca, finiranno per lasciare necessariamente spazio ai loro imitatori, destinati in questo modo ad acquisire la scintilla ragionevolmente meritoria della grandezza. Non abbiamo a tal proposito, una grande quantità di opere parietali risalenti al Medioevo Classico, inteso come il periodo che si estende nei secoli XI, XII e XIII, semplicemente troppo distanti dall’epoca odierna perché possa risultare facile una valida conservazione dei pigmenti e dell’intonaco delle pareti. Per non parlare del destino ancor più sfortunato degli arazzi, pardon, cibo per le tarme del continente europeo. E molto di ciò di cui disponiamo, per lo meno al di fuori del campo ecclesiastico, si trova concentrato in un singolo castello del Trentino Alto Adige, situato pochi chilometri a nord della città di Bolzano. Sopra uno sperone vulcanico di porfido, non molto più ampio della sua cinta muraria esterna, accessibile con uno stretto e tortuoso sentiero montano, nessuno potrebbe mettere in dubbio i trascorsi militari dello Schloss Runkelstein (alias Castel Roncolo) più volte assediato, difeso a spada tratta e custodito come chiave di volta di un intero feudo redditizio nella valle antistante. Ma l’aspetto molto interessante, ed insolito, per una residenza ornata al fine di celebrare un particolare stile di vita e i miti all’origine della nobiltà ereditaria, è che era stata commissionata da persone che sostanzialmente non appartenevano a quel mondo. Ma che più di ogni altra cosa, avrebbero desiderato farlo.
Non quei Friedrich e Beral von Wangen, che già nel 1237 si erano visti sottrarre la dimora avita a seguito dell’assalto di Mainardo II conte del Tirolo, per uno sgarbo che la storia sembrerebbe aver dimenticato. E neppure il suo servo emancipato Gottschalk Knoger, che dopo averla ricevuta in dono riuscì a trasmettere l’impervia residenza a sua figlia e i successori per oltre un secolo fino al 1385. Quando forse per l’estinguersi di una linea di sangue, o un antico affare del mercato immobiliare, ad acquisire il maniero furono i fratelli Franz e Niklaus Vintler, mercanti di vino con sede a Bolzano che pur vantando uno stemma e possibile possesso di un titolo decaduto, corrispondente all’immagine di due o tre zampe d’orso, appartenevano ormai da multiple generazioni alla “nuova” borghesia del Tirolo. Ma da sempre avevano aspirato ad un qualcosa in più. E così diedero l’inizio, grazie alle proprie considerevoli finanze, ad un lungo processo di restauro, ampliamento e decorazione del castello, destinato grazie a diventare per un gioco del destino forse la migliore capsula del tempo di cui disponiamo per quel secolo in qualche maniera perduto

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Benvenuti al tribunale con un condominio cubista nel suo cortile

Ecco il prototipo di un edificio controverso: nel 2016, interrogati su quali fossero le mura più antiestetiche della loro provincia, gli abitanti di Ångermanland stilarono una lista con al primo posto la colorata, bizzarra, distintiva opera del rinomato architetto Gert Wingårdh. Il mese successivo, su quella rivista, il Ting1 dal nome assonante avrebbe figurato invece come il secondo palazzo più amato di Örnsköldsvik. Facile comprenderne la ragione, giusto? Quanto spesso capita d’intravedere all’orizzonte la perfetta commistione di un pomeriggio trascorso a giocare con i lego, l’estetica della scuola Bauhaus mescolata con la Pop Art post-moderna, il tutto avvolto in un vago sentore di cubismo. Sia nel senso di Picasso che dei voxel digitalizzati del videogame Minecraft, una risposta basilare all’esigenza di dare una forma alle proprie idee. Ma non c’è davvero nulla di spontaneo, semplice, naïf nell’espressione qui presente dell’ingegno svedese, applicato alla necessità di dare forma ad uno spazio abitativo là dove non ti saresti mai aspettato, in condizioni normali, d’individuarne l’esempio. Almeno finché l’amministrazione cittadina, prendendo atto degli spazi poco utilizzati del suo vecchio tingshus il tribunale distrettuale distaccato dal municipio, non pensò nel 2010 di cedere alla proposta dietro lauto compenso dell’imprenditore edile Nicklas Nyberg, che oltre ad essere un visionario può essere anche messo tra i maggiori appassionati nonché collezionisti di un prezioso autore della storia dell’arte. Probabilmente conoscerete l’autore Bengt Lindström, di numerose sculture, quadri monumentali ed altre creazioni dedicate alla sua particolare interpretazione dell’arte astratta, tanto variopinta quanto imprevedibile e non sempre facile da decifrare.
Magari riuscirete addirittura a scorgerne l’influenza, nell’aspetto straordinariamente distintivo di questo notevole Ting1. Ovvero “la Cosa” ma anche un gioco di parole che può essere tradotto come “Trib-1-ale” con riferimento alle precise mura brutaliste che parrebbero costituire a tutti gli effetto il suo straniante basamento, fino al terzo dei 13 piani dell’edificio. Un’illusione del tutto fittizia nella realtà dei fatti, quando si apprende l’effettiva collocazione del suo variopinto cappello: una struttura a sbalzo che sporge da un pilastro centrale, incastrato direttamente nella dura roccia situata nel cortile interno del tribunale, con ingresso separato e nessun tipo di collegamento tra le due strutture. Su richiesta specifica del governo, ancora interessato a utilizzare la tingshus come archivio. Ma è proprio questo uno degli aspetti di maggiore interesse, alla fine…

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Entrate pure, disse lo scultore policromo del Microverso

“L’ora del rintocco, l’ora del rintocco è giunta.” Disse l’invisibile creatura del pertugio, mentre i funghi pulsavano nell’espressione di un senso d’aspettativa latente. La grande tromba del giardino di campanule suonò due note grazie all’energia del vento, mentre la ruota elettrica iniziava a veicolare l’energia tangibile del flusso. “L’assedio è terminato, miei cari. Liberate il krakkon” L’estrusione periambulatoria, allora, si allungò fuori dall’implicito confine perimetrale, sfociando nell’iperbole celeste senza neanche l’assistenza di una pratica colomba della Pace. Certo, non c’è dubbio, amici pietre variopinte delle circostanze manifeste: il gran portone della cassaforte è ormai prossimo ad aprirsi. Affinché il bagliore immaginifico possa incontrare, così come profetizzato, quello di uno spazio privo d’interpretazioni alternative della mente. L’essenzialmente grigia, eppure spesso sorprendente, inconcludente ed altrettanto illusoria Verità. Ma c’è davvero bisogno, per quest’ultima, di occupare uno spazio talmente vasto?
Tra le capacità di un abile critico, o esperto fruitore dell’Arte, figura quella di osservare un’opera dipinta non come uno stato dei fatti completo ed immutabile, bensì un susseguirsi di pregressi eventi. Uno strato dopo l’altro, un colpo di pennello alla volta, la creazione in divenire si dipana progressivamente nella loro mente. Permettendo di ricostruire a ritroso, minuto per minuto, l’evolversi dell’apprezzabile messaggio di partenza. Ma cosa succede se al depositarsi progressivo dei colori, l’uomo al comando del progetto semplicemente sembra incapace di raggiungere un qualche tipo di soddisfazione creativa? E continuando a sovrapporre sui livelli già deposti, per ore, giorni e settimane, permette alla vernice di superare il dipanarsi delle semplici due dimensioni… Sfociando nella terza e al tempo stesso, innumerevoli ulteriori luoghi della mente del tutto inesplorati allo stato dei fatti correnti. Posti come quelli visitati e al tempo stesso riprodotti dalla mano eclettica di Chris Millar, artista canadese originario di Claresholm, Alberta, per cui l’unico limite alla comunicazione di un messaggio incerto sembrerebbe essere quello meramente fisico imposto dalla necessità di creare un singolo “mondo” alla volta. Riproduzione in miniatura dell’ambiente visitabile in un passaggio onirico della nostra esistenza, pur premurandosi di restare del tutto conforme ad una serie di regole non del tutto prive di coerenza. Poiché è soltanto in tal senso che può andare incontro a un qualche tipo di precipua classificazione psicanalitica, il suo metodo espressivo nato in modo progressivo dopo l’ottenimento del titolo di studio presso l’Università di Arte e Design di Calgary (ACAD) nel 2000. Quando assieme all’amico e collega Patrick Lundeen decise di rifiutare il canone espressivo imposto per il tramite dei metodi d’insegnamento della pittura. Andando decisamente oltre, nei rispettivi metodi ed intenti procedurali…

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