Colpi e luci di candele nella notte giapponese, del rito che materializza l’odio inchiodando l’effige

Visitando determinati templi shintoisti del Giappone, in modo particolare quelli dedicati alla divinità guardiana Fudo Myō-ō, l’inamovibile re della saggezza e del fuoco, che presiede alle passioni come l’amore non corrisposto, è al giorno d’oggi possibile notare qualcosa d’inaspettato: un vecchio albero circondato dalla shimenawa, corda di canapa e paglia di riso utilizzata per sancire la sua qualifica di arbusto detentore di un potere spirituale, verso il quale è stata puntata una telecamera, posta in alto sopra l’architrave del santuario, rigorosamente al di sopra dello spazio raggiungibile da mano umana. Il furto di che cosa dovrebbe prevenire, esattamente, questo strumento di sorveglianza digitalizzata, se l’unico soggetto dell’inquadratura è una ruvida corteccia e rami che ricadono verso la terra scevra di altri significativi paramenti sacri? La risposta, chiaramente, è che proteggere la proprietà del clero non è mai stato l’obiettivo di una simile disposizione preventiva. Finalizzata, piuttosto, ad impedire che qualcosa di terribile possa accadere impunemente in questo luogo. Il più determinato, sanguinario, atroce augurio di sventura all’indirizzo di un’inconsapevole bersaglio. La cui esistenza su questa Terra, d’altra parte, non può essere in alcun modo definita innocente.
Il preciso e ben codificato rituale dell’ushi no toki mairi (丑の時参り – preghiera al tempio nell’ora del bue) ha una lunga storia risalente almeno all’epoca Heian, essendo citato in una sua forma preliminare nel romanzo epico dell’Heike Monogatari, la storia di una ribellione contro il potere accumulato dal clan guerriero dei Taira. Sullo sfondo della quale, si muoveva la figura prototipica di Hashihime, una donna mortale diventata demone, a seguito del tradimento e l’abbandono ad opera di suo marito, un samurai di cui non viene fornito il nome. Pregando e compiendo abluzioni per 21 giorni, secondo le istruzioni ricevute dal Dio del santuario di Kifune nel profondo della notte, nelle acque del fiume Uji. Una procedura in grado di donargli poteri sovrannaturali, sufficienti per uccidere il fedifrago, i suoi compagni d’armi e la sua famiglia, prima di essere finalmente sconfitta presso un ponte dall’eroico cacciatore di demoni Watanabe no Tsuna, seguace del generale Minamoto no Yorimitsu/Raikoh. Un motivo, questo, ripreso in vari modi attraverso lo scorrere dei secoli, fino alla creazione di una precisa metodologia tramandata dal folklore popolare, inclusiva di un serie di passaggi culminanti con la sofferenza, ed altrettanto auspicabile morte del proprio bersaglio. Per una sorta d’inaspettato parallelismo col malocchio della religione afro-caraibica del Voodoo, ulteriormente reso esplicito dal ruolo magico di un effige di paglia, dal ruolo simile a quello del poppet o mommet, il feticcio frequentemente usato nello stereotipo della cultura contemporanea al fine ottenere risultati simili all’altro capo del mondo. Ciò sebbene la precisa pratica nipponica abbia un grado di complessità e delicatezza molto superiori, richiedendo dedizione per periodi anche piuttosto lunghi e l’abnegazione sufficienti a mettere se stessi a rischio, qualora si fallisca vedendo ricadere su di se il jibun-no bachi, o punizione karmika delle proprie azioni. Un destino, al tempo stesso, ironico e spaventoso, tale da qualificare il ruolo delle praticanti come ancor più astioso e privo di speranza…

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Jiaohe, l’antica città fortezza costruita sulla foglia della Via della Seta

Una nazione unita ed omogenea, per cultura, sistemi di governo, religione e metodi di mantenimento dell’ordine civile: questo è la Cina, agli occhi dell’opinione pubblica contemporanea, sulla base di una generalizzazione ereditata dalle superficiali trattazioni socio-politiche del tardo Novecento. Il che non fu mai realmente corretto, come può esserlo per certi versi quando si tratta l’arcipelago nipponico ad Oriente, sebbene sia del tutto ragionevole individuare nei preconcetti dell’uomo della strada un qualche tipo di collegamento tra le due culture, che trasversalmente non ha luogo in alcun modo ad essere, fatta eccezione per determinati tratti legati all’interscambio d’idee filosofiche e beni d’uso e consumo comunitario. Soprattutto visto come, fatta eccezione per l’ancestrale battaglia contro gli Ainu del remoto settentrione, i Giapponesi non ebbero frequentemente a che vedere con la pletora di popoli ed imperi contrapposti, ciascuno armato ed animato dalle proprie reciproche ambizioni di conquista. Entità come quella la cui storia dinastica, dinamiche di potere e sistemi d’organizzazione sono andati perduti nel tempo, dei parlanti delle lingue Tochariane, una periferica derivazione del ceppo identitario Indo-Europeo, che attorno al termine del primo millennio a.C. avevano costituito un vero e proprio impero nella depressione di Turpan, corrispondente all’odierna “regione autonoma” uigura dello Xinjiang. Essenzialmente formato da una pletora di piccole città e villaggi, ciascuno situato in corrispondenza di un’oasi mantenuta sulle sabbie grazie ad un’effimera pozza d’acqua potabile, eppure tutti detentori di una spropositata ricchezza materiale, grazie alla loro collocazione lungo l’estendersi di una delle più importanti vie commerciali del Mondo Antico, destinata a diventare nota in seguito col nome di Via della Seta. Non c’è perciò nulla di stupefacente nel notare come questo particolare popolo non meno eterogeneo, riunito sotto la bandiera nazionale del regno di Jushi, avesse potuto costruire una propria vasta capitale, posizionata in mezzo all’opulenza e lusso sfolgorante di due corsi d’acqua ai margini della catena montuosa del Tian Shan. Ciò che colpisce, piuttosto, è la specifica ubicazione e l’aspetto di questa metropoli ormai lungamente disabitata, edificata sopra l’armoniosa forma di una mesa sopraelevata all’altezza di circa 30 metri, lunga 1760 e larga 300, circondata dal fossato naturale più invalicabile contro il quale un esercito nemico abbia dovuto pianificare un tentativo d’assedio. Un centro urbano, in altri termini, condizionato profondamente nella sua dislocazione ed organizzazione da uno spazio chiaramente definito e impervio a qualsivoglia tentativo d’espansione, in modo tale da incentivare un tipo di pianificazione urbanistica decisamente anacronistica per l’epoca, in cui ogni quartiere aveva una funzione attentamente definita, senza tuttavia poter ricorrere alla simmetria tipicamente utilizzata in questa tipologia d’insediamenti. Il tutto tramite l’applicazione di uno stile architettonico particolarmente distintivo, originariamente fondato sullo scavo in profondità nella terra friabile della formazione composta di loess, per poi passare all’utilizzo dell’adobo o mattone di terra, sapientemente compattato al fine d’erigere grandi templi, maestosi stupa e veri e propri condomini adibiti a spazi abitativi per le diverse classi sociali (militare, nobile, religiosa e civile). Verso l’ottenimento di un complesso dedalo di strade interconnesse, le cui fonti d’ombra avrebbero potuto superare relativamente indenni le generazioni d’incuria a venire, grazie alle caratteristiche climatiche di una regione dove cadono comunemente pochi centimetri di pioggia l’anno. Con buona pace degli amanti di fontane e giardini…

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L’ornato cormorano che costruisce piccoli vulcani sul confine del Polo Sud

Nel primo terzo del XIX secolo si presentò finalmente occasione, durante la navigazione del brigantino britannico Magnet impegnato nella caccia delle foche, di posare l’occhio su una terra emersa precedentemente non segnata su alcun mappa. Questo piccolo arcipelago ancora privo di nome, citato nel diario di bordo del capitano Peter Kemp, era situato a metà strada tra le isole Kerguelen e l’Antartico, potendo costituire effettivamente un importante punto di sosta e rifornimento sulla strada di uno dei nuovi territori di caccia più vasti e redditizi dell’interno meridione terrestre. “L’approdo risulta essere abbastanza semplice” scrisse, “e la posizione delle isole evidente anche al di sotto della linea dell’orizzonte, grazie al sorvolo di un particolare tipo dell’uccello di mare che si è soliti chiamare shag” Seguiva descrizione del volatile in questione, facilmente riconoscibile per una serie di caratteristiche piuttosto distintive: “Bianco e nero, come un pinguino, dell’altezza approssimativa di una settantina di centimetri. Un ciuffo sulla testa, il becco giallo e sopra di esso, due sporgenti sfere di colore arancione, più o meno dove dovrebbero trovarsi le sue narici.” Ciò che l’esperto lupo di mare aveva visto in quel frangente, e come lui avrebbe avuto modo d’incontrare per secondo il collega John Heard ma soltanto a una distanza temporale di oltre due decadi, era la popolazione locale del cosiddetto cormorano dagli occhi blu “imperiale” o Leucocarbo nivalis la cui suddivisione tassonomica risulta ancora oggi tra le più complesse e discusse dell’intero mondo animale. Per la somiglianza notevole con la specie sudamericana L. atriceps, ma anche una vasta serie di volatili inseriti originariamente dal grande ornitologo Charles L. Bonaparte nel genere Phalacrocorax, famiglia dei phalacrocoracidae, prima che un pluri-decennale tentativo di riflettere le linee evolutive lo facesse suddividere ulteriormente in un diverso genere, secondo alcuni quasi monotipico e diviso in un numerose sottospecie indistinte. Sebbene come spesso capiti, la continuativa presa di coscienza della diffusione frammentaria di questi uccelli possa mantenere un valore prezioso, al fine di preservarne le singole popolazioni situate, alternativamente, dalla costa della Patagonia fino a quella che sarebbe diventata per l’appunto, ispirandosi al nome del suo secondo “scopritore”, l’isola di Heard. Tutti accomunati tra le altre cose da uno sguardo niente meno che magnetico, grazie alla colorazione blu cobalto delle loro iridi, probabilmente utilizzate come strumento di seduzione. Nel corso della breve ma sinuosa danza effettuata con il lungo collo, primariamente tra ottobre e novembre di ogni anno, al fine di trovare una compagna all’interno della gremita colonia, con cui fare l’esperienza di costruire il nido e mettere su famiglia. Una dimora necessariamente costruita in terra, per l’assenza di efficienti arbusti a queste latitudini, benché dotata di un prestigio e presupposti abitativi chiaramente superiori alla media di simili uccelli. Essendo la dimostrazione di come gli esseri biologici, talvolta, amino ispirarsi alla geologia terrestre…

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La sacra coppa che fu perduta e ritrovata, diventando l’emblema museale d’Irlanda

“Sbrigati, il bastione del forte non terrà ancora per molto!” Il giovane Coll, con il lungo coltello stretto nella mano sinistra, in assenza del fodero lasciato in casa nella fretta di raggiungere il rath, guardava ansiosamente verso la porta dell’oratorio quadrangolare in legno lavorato, mentre il fratello Sean, secondo aiutante del sacerdote del villaggio, apriva l’armadio con i paramenti, tirandone fuori il calyx ministerialis, singolo oggetto più sacro dell’intero insediamento. Costoro erano i due più giovani membri della milizia e figli di famiglia nobile, inviati a svolgere il doloroso compito proprio perché ritenuti, a torto o ragione, i meno utili nel breve assedio che stava per cominciare contro i razziatori provenienti dal golfo di Corryvreckan, forse gli stessi che avevano attaccato il celebre monastero di Lindisfarne. Uomini spietati, vestiti di metallo e con alti elmi conici, che secondo le storie dei viaggiatori molti avevano iniziato a chiamare i “vichinghi”. Uscendo in tutta fretta dal basso e finemente ornato edificio, Coll fece segno di fermarsi, mentre osservava di sfuggita per un’ultima volta il meraviglioso oggetto, donato con gran sfarzo al capoclan di Ardagh dal suo Re legittimo, a seguito dell’aiuto ricevuto nell’ultima campagna militare con il tuatha (piccolo dominio) confinante. La coppa usata per dire messa, e principalmente costruita in argento, oro, bronzo e vari smalti colorati, conteneva una quantità di altri metalli che nemmeno in due, sarebbero stati in grado d’identificare al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed in quel giorno fatidico, nel sesto mese del 723° anno dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, essa sarebbe stata sepolta, per salvarla dal pericolo più grande: quello di cadere in mano a predatori spietati ed infedeli, per finire tra i tesori di una stretta e lunga nave di ritorno nell’oscuro settentrione innevato. Così Sean, guardandolo dritto negli occhi, fece un cenno inequivocabile, verso la fossa già preparata coi principali oggetti di valore dell’insediamento. Proprio lì sotto la vecchia quercia, dove un altro calice di bronzo si trovava in attesa, assieme a vari gioielli tra cui le grandi spille circolari dei due esattori delle tasse, inviati qui dal sindaco prima di prendere anche loro le armi. Con la massima deferenza, i fratelli posarono la reliquia tentando d’ignorare i suoi della terribile e disperata battaglia. La vanga, d’altra parte, era ancora lì accanto. Quindi una volta completata l’opera Coll, impugnando saldamente il coltello, alzò lo sguardo oltre le mura circolari del rath: già la punta di un’ascia ed una spada sporgevano oltre il bordo della palizzata. Suo fratello aveva in mano un piccolo arco da caccia, materializzatosi chissà da dove. Era l’ora di tentare il tutto per tutto, dimostrando la propria forza d’animo e convinzioni contro i barbari alle porte della civiltà. A Dio piacendo, nella speranza di essere presi come schiavi e forse, un giorno, ritornare a conoscere la libertà. E forse tornare fino a qui, uomini diversi. E ancor più saldi nella propria fede nei confronti della Provvidenza.
Lieta e pacifica, l’Isola Verde probabilmente non lo era più stata, fin dal posizionamento dei primi vessilli sulle alte colline, strumenti validi all’aggregazione di gruppi sociali in grado di riconoscersi in un antenato comune, con la ferma intenzione di combattersi per delineare i limiti dei propri territori. Ma il tipo di crudeltà e conflitti che questi abitanti poterono sperimentare per la prima volta attorno al sesto e settimo secolo, assieme al resto delle isole britanniche, furono di un tipo e una portata totalmente diverse. Tale da giustificare, in più di un caso, il tentativo di seppellire i propri averi più importanti, nella speranza di un domani migliore. Un giorno che talvolta non aveva proprio alcun modo, né ragione di venire a manifestarsi…

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