Frequentando determinati recessi d’interscambio digitalizzato per quanto riguarda questioni marinaresche, le parole tendono a veicolare argomenti di scambio quanto meno imprevisti: “Attraverseremo il passaggio la prossima settimana. Siamo dotati di bottiglie di detersivo, carburante diesel e potenti altoparlanti. Che genere di musica mi consigliate d’usare?” E poco sotto: “Se perdo di vista la costa, veleggiando in alto mare al volgere del vespro, dite che potrebbe essere più sicuro?” Ed ancora l’immancabile, ma cionondimeno condivisibile: “Sto pensando di evitare totalmente la Spagna e il Portogallo. Apprezzerei una lista di possibili destinazioni alternative in Europa.” Perché il timore fa prendere decisioni difficili e tutto ciò è ancor maggiormente vero, quando si configura sulla base di circostanze contestuali non del tutto prive di effettive cognizioni di causa. Per il peso funzionale di questioni come, nel caso qui presente, l’effettivo rischio di essere attaccati da gruppi di creature con il peso unitario di 7-8 tonnellate, singolarmente dedite alla demolizione sistematica di tutto ciò che si presenta galleggiando entro i confini del proprio territorio. Quel tratto di mare che si estende tra le punte di due continenti risultando, da ogni aspetto rilevante, la porta principale del Mediterraneo. E non c’è alcun Cerbero che possa costituire, in tali circostanze, un terrore più incombente di questo. Le fonti del tutto credibili dal punto di vista statistico, d’altronde, appaiono concordi: dall’inizio del 2020 e fino all’attuale stato delle cose, in modo particolare per determinate piccole barche inclini ad affrontare quel determinato tratto di navigazione, le opportunità d’incontri ravvicinati con il popolo delle cosiddette orche assassine si sono moltiplicate sistematicamente. Con un gran totale di 239 casi documentati scientificamente nel periodo di un singolo anno, tre dei quali con danneggiamenti anche gravi delle imbarcazioni coinvolte. Il più grave dei quali verificatosi lo scorso 4 maggio e culminante, addirittura, con l’affondamento dello yacht svizzero Champagne a poche centinaia di metri dal vicino porto di Barbate, ad ovest di Gibilterra. Un’esperienza semplicemente terrificante per l’equipaggio a bordo, che aveva pensato inizialmente di aver colpito un qualche tipo di detrito galleggiante, finché non si accorsero delle tre ombre sotto il pelo delle acque, corrispondenti ad un cetaceo adulto e due più giovani, che si stavano accanendo contro la chiglia ed il timone della loro barca a vela modello Sun Odyssey 519. Ed a nulla è valso il tentativo di chiamare sul posto la guardia costiera, giunta comunque quando ormai era di gran lunga troppo tardi per porre rimedio al destino di un naufragio incombente. Ma la domanda che tutti si sono posti, in merito all’effettivo rischio delle persone convolte in questo ed alti casi simili è la seguente: che cosa sarebbe successo se le persone a bordo, prima dell’arrivo dei soccorsi, si fossero trovare a bordo di una piccola scialuppa di salvataggio, o persino a dover nuotare?
delfini
La strana e vera storia del delfino che amava prevenire i naufragi
Almeno quattro sono i significati nella storia della navigazione della parola dal suono vagamente latino Pelorus, corrispondente al nome proprio del navigatore impiegato dal generale cartaginese Annibale nel 200 a.C. per attraversare il Mediterraneo. Attrezzato con l’omonimo strumento, costituito da una plancia numerata e un foro d’osservazione stenopeico, utile a individuare la posizione di un singolo punto in relazione con la rotta di una singola nave. Così come fatto all’altro capo del globo, parecchi anni dopo, dai popoli oceanici della Polinesia, mediante l’individuazione ed utilizzo come riferimento delle stelle notturne, fino al raggiungimento di una terra promessa come la Nuova Zelanda. Luogo dove, certamente non a caso, in corrispondenza dello stretto Francese tra l’Isola del Sud e d’Urville sussiste un tratto di mare particolarmente pericoloso, pieno di scogli e correnti trasversali, che i coloni avrebbero chiamato Pelorus Sound. E di nuovo con la classica ricerca di una valida corrispondenza concettuale, tra cosa inanimata e personaggio, lo stesso appellativo avrebbe finito per essere attribuito a una creatura che viveva nelle sue immediate prossimità, spingendosi frequentemente all’interno. Niente meno che un delfino, ma di quel tipo particolarmente celebrato e incline a rendersi un amico fedele dell’umanità, ottenendo comprovata riconoscenza nel momento del nostro maggiore bisogno. I primi a parlarne furono i giornali neozelandesi ed inglesi del 1888, trovatosi a raccontare una di quelle storie marinaresche tanto simili a leggende, capaci d’ispirare il folklore di coloro che vivevano nelle immediate prossimità o si ritrovavano frequentemente ad attraversare l’azzurro mare. Pare, infatti, che l’amichevole cetaceo destinato ad essere soprannominato Pelorus Jack fosse comparso di fronte ad uno schooner intento ad attraversare il temuto stretto, inducendo la reazione istintiva dell’equipaggio fin da subito pronto ad arpionarlo. Se non che la moglie del capitano, sconvolta da un tale proposito, riuscì a dissuadere i suoi compagni di viaggio, un gesto a cui fece seguito l’affiancamento e progressivo avvicinamento del delfino alla nave. Che l’avrebbe seguita per un tempo approssimativo di almeno 12 ore, provvedendo in base ai resoconti a “guidarla e preservarla” ogni qual volta si stava avvicinando eccessivamente a potenziali rocce sommerse. Il che fu l’inizio, venne scritto nelle settimane e mesi a venire, di una lunga serie d’occasioni in cui l’animale avrebbe fatto la sua comparsa senza nessun tipo di preavviso, accompagnando l’una o l’altra imbarcazione prossima all’incontro con la sua ora più pericolosa e potenzialmente letale. In questo periodo, per quanto ci è possibile notare, vennero scattate anche delle foto della misteriosa creatura, che ci permettono d’identificare con un ragionevole grado di certezza Pelorus come un maschio di Grampus griseus o delfino di Risso, dal nome del naturalista che per primo lo studiò permettendo in seguito a Georges Cuvier di classificarlo quasi un secolo prima di tali eventi. Non che tale qualifica sembrasse particolarmente degna di essere notata agli autori dell’inizio del secolo, tanto che il London Daily Mail nella prima decade del Novecento avrebbe provveduto a descriverlo più volte come “una strana creatura ibrida a metà tra uno squalo e un delfino”. Forse in funzione dell’alta pinna dorsale, sebbene la specie in questione, con diffusione cosmopolita, assomigli piuttosto a una piccola balena, priva di rostro e lunga fino a un massimo di 4 metri, costituendo effettivamente uno dei più grandi mammiferi marini ad essere chiamati ancora delfini. Famosi per i marchi longitudinali o cicatrici che comunemente ricoprono i loro dorsi grigio chiari, potenzialmente causati dagli scontri tra maschi, la caccia delle seppie di cui si nutrono o come nel presente caso, l’urto occasionale con gli scafi delle navi che notoriamente amano seguire. Sebbene i pericoli che una di queste creature può trovarsi ad affrontare nel corso della propria esistenza possano essere anche di un tipo maggiormente occasionale, causato effettivamente dalla condivisione dei momenti con creature molto più subdole e crudeli di loro…
L’urgente revisione sistematica degli ultimi delfini ciechi come pipistrelli
Saldamente situata alla base del concetto stesso di evoluzione darwiniana, risiede una fondamentale tendenza all’ottimismo secondo cui ogni specifico tratto ereditario di una specie, non importa quanto singolare o in apparenza privo di vantaggi, si è in realtà riconfermato nelle plurime generazioni con un valido obiettivo. Contribuendo, in qualche modo, alla capacità di sopravvivere del suo portatore. Ivi inclusa addirittura l’atrofizzazione d’importanti organi, come quelli della vista, da parte di creature che potevano tranquillamente riuscire a farne a meno. Come nella progettazione di un veicolo o strumentazione tecnologica da parte degli umani, del resto, ogni funzione ha un prezzo e tra tutti i tipi di percezione sensoriale nessuna comporta un maggior numero di compromessi che la vista, frutto dell’ingresso della luce all’interno di due o più buchi attraverso l’epidermide e fin dentro il cranio stesso, i vulnerabili, delicatissimi bulbi oculari. Vie d’accesso non soltanto per possibili stiletti medievali attraverso la visiera di un elmo, ma ancora oggi le autostrade principali di un esercito di germi, potenziali parassiti, vettori d’infezione virali. Per quale ragione dunque un agile mammifero di fiume, dotato della capacità d’emettere i segnali necessari all’ecolocazione assieme lo speciale organo globulare all’interno del cranio, il cosiddetto melone, utile a recepirne il ritorno con estrema precisione, dovrebbe preoccuparsi del mantenimento di ulteriori approcci utili al rilevamento e misurazione delle sue prede? Una considerazione che di certo può non essere il diretto frutto d’elaborazioni o considerazioni coscienziose, pur essendo niente meno che cruciale nella definizione dell’intero genere descritto scientificamente per la prima volta da due ricercatori indipendenti nel 1801, Lebeck e Roxburgh, con il nome derivato dal greco di Platanista. Un tipo di creature caratterizzate da un particolare habitat fangoso, con visibilità ridotta e le acque estremamente torbide, dove la più pura sopravvivenza, all’interno dei fiumi Indo e Gange, richiedeva metodi e soluzioni figlie di un diverso approccio all’esistenza. E che avrebbero di sicuro permesso a simili animali di continuare a prosperare, se non fosse stato per il progressivo sfruttamento e conseguente contaminazione di questi due grandi corsi d’acqua, in maniera progressivamente risultante dall’affermazione della moderna civiltà industriale.
Per quanto concerne l’effettiva notazione tassonomica del cosiddetto delfino gangetico, così chiamato in forza di una mera antonomasia, si è quindi pensato fino al 1998 che questo potesse suddividersi in due specie distinte, finché studi maggiormente approfonditi del suo sequenziamento genetico, realizzati soprattutto grazie al miglioramento degli strumenti, non portarono la comunità scientifica al raggruppamento in una singola categoria divisa in due sottospecie, troppo simili perché potesse parlarsi d’insiemi distinti. Con un colpo di scena decisamente inaspettato, tuttavia, l’ulteriore revisione sarebbe giunta proprio a marzo di quest’anno 2021, grazie alla mera osservazione fisica da parte di un team con ricercatori dell’Università inglese di St. Andrews a Fife e altre istituzioni locali ed internazionali, il cui studio (vedi) avrebbe aperto gli occhi di tutti in merito alla questione. Per notare finalmente una significativa quanto ovvia differenza nella posizione e il numero dei denti, nonché la forma del cranio dei due delfini, tali da rendere impossibile considerarli come due semplici varietà dello stesso animale, bensì le specie distinte di Platanista gangetica e P.g. minor, situato principalmente in Pakistan lungo il corso e gli affluenti dell’Indo. Una considerazione niente meno che primaria al fine di organizzarne la difficile conservazione, con poco più di 1.000 esemplari stimati ancora in vita per ciascuno dei due casi ormai distinti. Ed un’opera particolarmente difficile, dinnanzi ad una cultura tradizionale inclini a considerarli come legittimi bersagli delle attività di pesca umane, non soltanto al fine di consumarli direttamente, ma anche per ricavarne un olio utilizzato nella cattura sistematica dei pesce gatti. E se mai c’è stata un’altrettanto lugubre, quanto efficace dimostrazione del vecchio modo dire: “[Uccidere] due piccioni, con una fava”….
Un muso rosa tra i flutti, strano delfino dell’Amazzonia
Ricorrente nelle culture di paesi molto diversi tra loro è la leggenda folkloristica dei mutaforma: esseri non-del-tutto-umani talvolta benevoli, molto più spesso crudeli o dispettosi, che sfruttando la propria dote per mescolarsi tra la gente colpiscono chi meno se lo aspetta, producendo un qualche tipo di effetto deleterio sulla sua esistenza. Sventura, dannazione, il rapimento delle persone. Quest’ultima credenza, in particolare, viene talvolta attribuita alle creature animali che possiedono un aspetto inquietante, siano esse di terra, di cielo o d’acqua salata e dolce. E nel suo complesso sarebbe certamente azzardato negare che il cosiddetto boto, bufeo o delfino rosa di fiume, il più imponente della sua famiglia (Iniidae) coi notevoli 160-180 Kg di peso, possieda un certo fascino ultramondano. Quando affiora occasionalmente, con la strana pinna dorsale e il melone tondeggiante della sua testa ma senza mostrare la tozza coda, a lato delle canoe indigene di Brasile, Colombia, Perù, Bolivia, Ecuador e Venezuela, in genere per giocare o chiedere del cibo. Sorgendo dalle acque per orientare quindi, con movimenti rapidi e scattosi, la sua testa in tutte le possibili direzioni, neanche si trattasse di un improbabile gufo sottomarino. Ma la flessibilità di quelle vertebre cervicali, del tutto paragonabili alle nostre, non è l’unico tratto di distinzione coi più conosciuti cugini di mare: a cominciare dalla colorazione eponima della sua carnagione, non dovuta a particolari pigmenti bensì alla presenza di un numero particolarmente elevato di capillari vicini alla rigida scorza esterna, spesso ricoperta di cicatrici e altri segni dovuti alle feroci lotte tra maschi nella stagione degli accoppiamenti. Ciò che ciascuno di questi esseri può tuttavia fare, secondo una diffusa diceria dei popoli indios sudamericani, è assumere nelle notti (possibilmente di luna piena) l’aspetto di una donna conturbante, allo scopo di sedurre un individuo malcapitato e giacere in segreto con lui per il periodo di una settimana. Tempo al concludersi del quale, secondo la leggenda, la vittima sparirebbe improvvisamente nel nulla, iniziando una nuova vita come esemplare femmina di delfino all’interno del grembo della consorte del suo rapitore sovrannaturale.
Una ragione estremamente estremamente valida, questa, per adornare se stessi di numerosi talismani e amuleti diversi a seconda del proprio background culturale, prima di trarre guadagno dall’accompagnamento dei turisti nelle zone abitate da simili mostruosità. Utilizzando l’occhio critico della modernità scevra di superstizioni, tuttavia, apparirà chiaro come la leggenda dell’Encantado non possa avere alcuna base possibile di verità, dinnanzi ai chiari fatti di una creatura benevola e persino a noi affine, capace di sorprenderci coi suoi comportamenti spesso selvaggi e impossibili da prevedere.