Primo e ultimo comandamento isolano: tu non salirai sulla scala del paradiso hawaiano

A partire dallo scorso aprile, letterali decine di persone allo stesso tempo hanno iniziato a tentare l’impensabile. Non solo ignorare innumerevoli cartelli di divieto come fatto in precedenza, ma lanciare corde con arpioni oltre la cima di alberi maestosi, dietro il recinto di una chiesa in un tranquillo quartiere residenziale. Per poi arrampicarsi, con tutto l’impeto degli esploratori di zone off-limits, fino al residuale inizio di una vecchia e arrugginita struttura lineare di metallo, ormai parzialmente smontata. Nient’altro che l’inizio di un serpeggiante, discontinuo sentiero da 3.922 scalini, molti dei quali già rimossi, fino a qualcosa d’impossibile da sperimentare altrove: una squadrata casamatta sulla sommità della verzura infinita. Ove gli occhi scorgano la superstrada sottostante. Ed al di là di quella, nubi e picchi strabilianti, fino al mare.
Nel sistema folkloristico e religioso dei popoli polinesiani, con particolare riferimento alle comunità riuscirono a perpetrare il proprio insediamento presso l’arcipelago selvaggio delle Hawaii, sussiste una lunga storia di tabù e divieti categorici, strettamente imperniati nel tessuto sociale delle successive generazioni. Tra questi, uno dei più radicati è l’accesso a particolari montagne, residenze ideali della moltitudine di spiriti ed entità divine, in buona parte derivate da quattro esseri supremi, Kū, Kāne, Lono e Kanaloa. Quando nuovi residenti, gli occidentali provenienti dalla terra ferma a partire dal XVIII secolo, si dichiararono esenti dal codice comportamentale del kapu (legislazione tribale) ciò provocò dunque un senso d’incombente disagio e preoccupazione. Poiché dove il sacro è subordinato alla transitoria percezione di quanto possa essere considerato utile, nulla di buono può accadere; vedi il caso verificatosi sopra la catena di rilievi Ko’olau, presso l’isola di Ohau, a partire da qualche mese dopo il dicembre del 1941. Nel momento in cui la guerra contro i giapponesi diventò del tutto inevitabile. E con essa, la necessità di costruire un nuovo tipo d’impianti di comunicazione che potessero raggiungere una flotta oltre la curvatura del globo terrestre. Il che prevedeva in modo pressoché inerente, all’epoca, l’implementazione di un singolo sistema possibile, l’alternatore Alexanderson di onde radio con modulazione di ampiezza (AM) così chiamato dal nome del suo inventore. In altri termini un potente generatore, collegato a lunghissimi cavi destinati a svolgere il ruolo di antenne, idealmente fatti scendere da torri dell’altezza di svariate centinaia di metri. O dirupi di paragonabile entità, qualcosa di decisamente più facile da reperire nel principale arcipelago vulcanico del Pacifico settentrionale. Da qui l’idea di costruire la stazione radio di Haiku, così chiamata dal nome del massiccio roccioso sottostante, affinché le cime risultanti potessero essere ancorate alla valle posta innanzi ad esso, oltre uno strapiombo accessibile soltanto tramite l’impiego di tecniche d’alpinismo avanzate. Gli addetti ai sondaggi del CINCPAC (il Comando del Pacifico) e del BuDocks (Bureau dei porti e cantieri navali) inviati al fine di pianificare l’opera, con operazioni istituite a partire dal maggio del 1942, si affrettarono perciò a facilitare l’accesso alla vetta mediante l’uso di chiodi permanenti e corde assicurate al versante. Che gradualmente vennero sostituite da scale a pioli. Ed in seguito, una vera e propria scalinata di gradini metallici, con tanto di corrimano…

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I rischi delle buste di plastica utilizzate per alimentare i fornelli pakistani

Essere pieni di risorse non è necessariamente una colpa: saper provvedere alla propria famiglia, traendo il meglio da una situazione problematica. Ricavare spunti di sopravvivenza quando tutto ciò che resterebbe è fare i conti con lo stato della situazione. E limitare le peggiori conseguenze di una sconveniente deriva. Ma è pur vero che le strade alternative, per loro implicita occorrenza, implicano un certo numero di rischi. E compromessi fatti con le Fate del destino, tessitrici insonni che determinano il corso degli eventi persino quando tutto ciò che viene fatto parte dai migliori presupposti. Se i crismi operativi sono collaudati dalla mera e inconfutabile necessità di Fare… Di più. Ed allora, è veramente giusto andare contro ogni comune e ragionevole regolamento e normativa di sicurezza? Sarebbe giusto rimanere al freddo e fare la fame, operando in senso contrario? Chiedetelo, se proprio volete saperlo, agli abitanti della Khyber Pakhtunkhwa, provincia settentrionale del Pakistan, che dallo scorso inverno hanno acquisito su Internet un tipo di fama imprevedibile e molto probabilmente indesiderata. Per la prassi nata dal bisogno di riuscire a procurarsi e trasportare privatamente un carico di alto valore nel modo più efficiente immaginabile. O più pericoloso immaginabile. Poiché una bombola non è soltanto un recipiente metallico riutilizzabile e per questo, il tipo d’investimento che si ripaga da solo. Bensì parte di una serie di processi industriali ben precisi, che comportano la compressione di un gas a molte volte la pressione dell’atmosfera, facilitandone la trasportabilità e stoccaggio all’interno di un’umana dimora. Laddove nel momento in cui si rinunciasse a tale approccio, una quantità per uso personale di quei fluidi risulterebbe molto più ingombrante. Ma anche, leggera. È il principio, a ben pensarci, del dirigibile nonché il principio di QUESTI dirigibili della lunghezza di due o tre metri, il diametro di uno, trascinati per la strada da bambini e adulti che ritornano con entusiasmo sulla via di casa. Poiché non c’è maggior soddisfazione di chi ha trovato il metodo per affrontare i casi della vita. E continua a viverla, imperterrito, scegliendo d’ignorare ciò che è fuori dal catalogo delle questioni risolvibili al momento. D’altra parte il tipo di sostanza al centro di questa nuova categoria di video virali non è il più incendiabile e comprimibile gas metano, bensì un tipo di miscela a base di propano e butano, chiamata LPG, non tossica, non corrosiva e priva del terribile piombo tetraetile, pur risultando altrettanto combustibile nel caso di scintille inopportune o colpi di calore improvviso. Il che non può prescindere da un certo numero di rischi, come esemplificato dagli almeno 7 incidenti registrati nel corso dell’anno nei pronti soccorso locali, tutti relativi a persone più o meno gravemente ustionate. Ma nessuna palazzina rasa al suolo perché come dicevamo, c’è ovviamente un limite alla compressione raggiungibile da un fluido entro la versione sovradimensionata di una busta per la spesa…

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Una prospettiva storica sul nuovo trionfatore tredicenne al gioco del Tetris

Il carattere di un anno viene spesso definito dall’estendersi di eventi significativi, in grado di dare un carattere all’estendersi della costante concatenazione di eventi. Il che può essere talvolta soggettivo, sulla base delle cose ed argomenti che ciascuno è incline a considerare, per i suoi trascorsi, gli interessi e le inclinazioni personali, davvero importante. Soltanto non può essere capitato tanto spesso, persino all’interno di ambienti estremamente specifici o settori di nicchia, che un fondamentale cambiamento di paradigma possa verificarsi tre giorni dopo l’ingresso in un nuovo ciclo solare, per il fondamentale contributo di qualcuno che, allo stato attuale dei fatti, ne ha vissuti già soltanto poco più di una decina. Così giusto ieri, il 4 di gennaio hanno squillato i corni degli araldi digitali: il player possibilmente avviato a una brillante carriera professionale, Blue Scuti (al secolo Willis Gibson) aveva “vinto” a Tetris, ottenendo un risultato che non soltanto era stato ricercato dalla comunità di coloro che avevano dedicato una parte significativa della propria esistenza al gioco, ma esulava addirittura di gran lunga dai margini originariamente previsti nel 1985 dal creatore Alexey Pajitnov ed i programmatori della versione usata in ambito competitivo di quel videogame, quella uscita 4 anni dopo per l’ultra popolare sistema NES di Nintendo. Il che potrebbe anche significare, contrariamente alle aspettative che derivano dalle premesse, qualcosa di totalmente contrario alle comuni aspettative. In quanto determinato, nell’effettiva realtà dei fatti, da una singola stringa difettosa nel codice sorgente di questo passatempo che, in una maniera o nell’altra, potrebbe aver influenzato l’intera storia del media digitale interattivo. Già perché “vincere” o “battere” Tetris significa, essenzialmente, mandarlo in tilt. Comprometterne il fondamentale funzionamento, causando un blocco irrecuperabile che necessita il riavvio del sistema! Qualcosa di assolutamente contrario al principio stesso del gaming competitivo in epoca moderna, basato su margini precisi imposti all’effettiva abilità dei partecipanti. Eppure paradossalmente, in qualità di limitazione pseudo-fisica inerente, molto più estrema di quanto alcun progettista avrebbe mai potuto esplicitamente integrare nelle proprie soluzioni procedurali. Il che trova riscontro d’altra parte in un ampio ventaglio degli originali giochi arcade degli anni ’70 ed ’80, concepiti per funzionare a gettoni all’interno d’istituzioni come bar, pub o sale d’intrattenimento e antecedenti al concetto stesso di una schermata finale. I quali avrebbero semplicemente garantito la conclusione della partita, e conseguente inserimento del token successivo, tramite l’aumento esponenziale della velocità dei propri singoli componenti, fino all’oggettiva impossibilità di sopravvivenza. Un momento calcolabile in maniera matematica nel caso di Tetris per il Nintendo, come il livello 29, a causa dei limiti artificialmente imposti nello spostamento e rotazione dei pezzi durante la loro ultra-rapida discesa gravitazionale, e conseguente accumulo senza la possibilità di farli scomparire in assenza del corretto accatastamento. Una barriera presumibilmente invalicabile che il mondo avrebbe visto invece superare già nel remoto 2011, quando l’infinita sveltezza delle mani dell’allora trentaquattrenne Thor Aackerlund (e la mente che riusciva a guidarle) trovò finalmente un modo per spingersi oltre…

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Cosa farete quando la cometa diabolica sfiorerà con le sue corna l’orbita del pianeta Terra?

Che l’uomo antico amasse le metafore e la creazione di similitudini eleganti, mentre quello contemporaneo cerca soprattutto di coinvolgere ed intrappolare l’inconscio ad un livello quasi istintivo, è largamente desumibile dai rispettivi criteri utilizzati per denominare le diverse tipologie di corpi celesti. Laddove il primo, pensando alle costellazioni delle stelle fisse, decise d’identificarle con i termini di animali, figure mitologiche o i personaggi del suo canone di leggende. Mentre l’ennesima questione prettamente scientifica, relativa ad un’anomalia di media rilevanza nel comportamento di una cometa di corto periodo relativamente simile a quella di Halley, ha visto accumularsi nel corso degli ultimi mesi termini come diabolica, infernale, apocalittica ed esiziale. “Grande tre volte il monte Everest” o “Più vasta di un’intera città” Con continue menzioni di corna, braccia infuocate, scie minacciose… Nonché notazioni formalmente corrette, vedi quella relativa alle multiple esplosioni verificatosi nel corso dell’ultimo anno. Che vedendo accelerare ulteriormente il bolide denominato 12P/Pons–Brooks fino alla velocità di 65.000 chilometri orari, l’ha vista perfezionare ulteriormente la propria rotta dirigendosi con fare minaccioso all’indirizzo del pianeta Terra. Il che, approcciandosi alla questione da un punto di vista meramente statistico, non basterebbe in alcun modo a incrementare il senso di pericolo che incombe sulle nostre teste. Ma poiché un’aspetto della mente umana che accomuna sia gli antichi che i moderni, da che sussiste l’intenzione pratica di approfondire e studiare il mondo, è una capacità non particolarmente sviluppata d’interpretare istintivamente le probabilità inerenti, sarebbe irrealistico non menzionare come l’intento minatorio implicito sia effettivamente riuscito, almeno in parte, a centrare il punto.
C’è d’altronde più di un mero fattore estetico nel tratto distintivo il quale, di contro, caratterizza e connota questo ricorrente ospite del nostro cielo stellato, probabilmente notato per la prima volta nel quindicesimo secolo da astronomi cinesi ed italiani, per venire in seguito scoperta formalmente solo nel 1812 dal francese Jean-Louis Pons. E poi di nuovo, in modo autonomo, nel 1884 dall’americano William Robert Brooks che costituisce la seconda parte di quel nome scevro di ulteriori connotazioni. Diversamente dall’identificativo mediatico impiegato in epoca corrente, fatto derivare dalla caratteristica in questione, consistente in una doppia coda curvilinea parallela al senso di marcia, la cui forma e orientamento ha favorito l’invenzione ed utilizzo reiterato dell’associazione con il grande maligno. Non che mucche, capre o simili creature erbivore sarebbero state meno calzanti, se ancora a qualcuno fosse parso pratico indirizzare l’associazione poetica verso una proporzione più ottimistica e tranquillizzante. Benché un tentativo, per lo meno, sia stato fatto grazie all’evocazione da parte di un gruppo di scienziati e pubblicisti (difficile capire chi sia stato il primo) di un altro oggetto cosmico dall’iconica forma di un ferro di cavallo: l’astronave cinematografica del Millenium Falcon, istantaneamente riconoscibile per tutti i fan di Star Wars. Il che d’altronde offriva molti pochi appigli, per cominciare ad approcciarsi al tema dell’effettivo funzionamento e ragion d’essere di questa insolita cometa…

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