L’insetto che ha costruito la più antica e vasta megalopoli del pianeta Terra

Con quale criterio valutiamo l’intercorso raggiungimento, da parte di una comunità di esseri, dell’auspicabile livello di civiltà preminente? Molti tracciano la linea presso l’implementazione di sistemi d’organizzazione complessi, che naturalmente portano alla creazione d’insediamenti vasti e stratificati. La storia è tuttavia popolata di numerosi esempi costituiti da popolazioni che, avendo costruito qualcosa di magnifico impiegando materiali non del tutto impervi agli elementi, gli avrebbero permesso di scomparire successivamente al declino della propria epoca dorata. Si usa dire, a tal proposito, che la maggior parte dei potenti imperi umani duri nella media tra i 200 e 250 anni, prima di autodistruggersi lasciando che l’entropia della materia faccia il suo dovere con il lascito dei precedenti dominatori. E se ora vi dicessi che esiste un luogo, situato in Sudamerica, dove una singola città esiste e viene abitata da membri di una serie di affiatate, ininterrotte famiglie, la cui discendenza può essere fatta risalire fino ad un periodo antecedente di 3 millenni? Non un centro abitato come qualsiasi altro, s’intende. Potendo essere identificato con largo margine come il più vasto in tutto il mondo, la cui portata è misurabile oltre i 230.000 Km quadrati, pari grosso modo all’estensione della Gran Bretagna e la terra movimentata attorno ai 10.000 Km cubi, equivalenti a 4.000 Grandi Piramidi di Giza. I suoi abitanti, d’altra parte, appaiono piuttosto diversi da come potreste aspettarvi. Essendo piccoli e rossicci, dotati di un gran totale di sei zampe segmentate e grosse zampe con mandibole pronte a scattare. Perfette rappresentanti della specie Syntermes dirus, costruttrice di cumuli originaria del territorio brasiliano.
Ed è proprio nel nord-est del principale territorio occupato dalla foresta amazzonica che trova posto questa meraviglia della tecnica animale, dov’è rimasta priva di effettiva documentazione e ignota alla stragrande maggioranza degli umani fino al 2019, quando il progressivo espandersi dei territori dedicati al pascolo e all’agricoltura non ha cominciato, inevitabilmente, a minacciare anche questo arido bioma. Ben lontano dall’universo pluviale del sopracitato polmone terrestre, in un’area molto distintiva di vegetazioni arida e discontinua, che prende il nome in lingua tupi di caatinga o “vegetazione bianca”. Essendo quest’ultima costituita da un melange di bassi alberi spinosi, cactus e piante a fusto largo, intercalato in modo molto stranamente regolare e come avrebbe per la prima volta documentato il team del ricercatore britannico Stephen J. Martin, da una serie di svettanti strutture di terra, segno inconfondibile della presenza di una fitta rete di gallerie sotterranee. Un’ottima ragione per schierare in campo l’utile arma della ricerca statistica ottenendo un modello, basato su fotografie satellitari, che avrebbe sfidato l’effettiva percezione dell’evidenza…

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Il ponte super-solido situato sopra il balzo fragoroso del grande fiume Iguazu

Chiunque abbia frequentato per un tempo sufficientemente lungo certi distretti di Internet avrà familiarità intrinseca con la coscienza videografica, pulsione collettiva che allontana l’istintiva percezione del pericolo ogni qual volta si stringe saldamente in mano il cellulare, puntando l’obiettivo della videocamera verso qualcosa di unico, meraviglioso e dunque memorabile per chiunque potrà osservarlo in differita, sui social o altrove. È il segreto pretesto dietro al tipico comportamento di coloro che scavalcano i parapetti del Grand Canyon, o si sdraiano agli estremi margini della Trolltunga, pietra norvegese in bilico sopra l’ondoso abisso del fiordo antistante. Eppure esistono dei luoghi, presso alcuni dei siti turistici potenzialmente più pericolosi al mondo, dove simili comportamenti vengono sapientemente veicolati. Tramite l’installazione d’infrastrutture che paiono soltanto all’ultimo stadio di precarietà evidente; ma costituiscono, in ogni loro singola parte, l’espressione di uno studio ingegneristico davvero approfondito. Offrendo il massimo della sicurezza possibile, considerato un contesto come il colossale ferro di cavallo scrosciante di Iguazu, al confine esatto tra Brasile e Argentina. Per coloro che, atterrati al vicino aeroporto eponimo e saliti sopra il treno dei visitatori che accompagna le persone all’ottava cascata del mondo per flusso idrico complessivo (e certamente una delle più spettacolari, assieme a Niagara e Victoria) ogni predisposizione all’effettivo sdegno del pericolo parrebbe allora realizzarsi, nel momento in cui mettono il primo piede sul cosiddetto Circuito Superiore, una rete d’interconnesse passerelle, costruite primariamente sul lato di Buenos Aires, capaci di condurli a pochissima distanza da un balzo di 40 metri giù nel colossale inferno bianco di schizzi e gorghi fluviali. E fin qui nulla di strano, finché non si guarda verso il basso per prendere atto del flusso medio di 1746 metri cubi al secondo, che in determinati momenti parrebbe concentrato concentrato in buona parte contro quei piloni ben piantati nel suolo basaltico sottostante. Soprattutto quando nel periodo della stagione delle piogge, il livello delle acque s’innalza ulteriormente, evocando l’immagine esecrabile degli abitanti di un centro abitato, che si affollano per raggiungere attraverso un battistrada instabile l’altro lato di un precario attraversamento prossimo alla chiusura. Nulla di più diverso potrebbe d’altronde costituire la realtà, vista la lunga storia ed i trascorsi di acclarata sicurezza degli stretti corridoi, esistenti ormai in diverse iterazioni da un periodo di quasi cent’anni a questa parte…

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Dietro una cortina di aculei, l’albero che simboleggia la struttura del mondo

Schiacciando cespugli ed altri agglomerati arbustivi sotto l’imponente massa delle sue zampe, l’immenso mammifero procedeva dondolandosi nella foresta. Di tanto in tanto accovacciato, il lungo naso mobile proiettato perpendicolarmente al suolo, tentava di fiutare fonti funzionali ad acquisire il necessario nutrimento. Simile ad un orso, grande quanto un elefante, non poteva certo sospettare in quell’epoca remota che un giorno gli esseri umani l’avrebbero chiamato Megatherium, bradipo di terra del Pleistocene. Giunto dunque presso una radura, scorse ciò che aveva lungamente cercato: fiori rosa ed attraenti, pomi verdi oblunghi dall’aspetto invitante. La piccola regione per l’elaborazione d’informazioni del suo minuto cervello, lenta ma inesorabile, lo portò quindi ad avvicinarsi all’arbusto dalle fondamenta ovoidali dell’altezza approssimativa di una ventina di metri, con l’intenzione di fare ciò che gli riusciva meglio: non tanto arrampicarsi, bensì spingere con tutta la sua forza e demolire, in modo pressoché letterale, la colonna vegetale antistante. Allorché nell’implementazione di quel piano, avvertì un improvviso e lancinante dolore ai polpastrelli delle zampe anteriori, dai lunghi artigli ricurvi fatti per difendersi dai predatori. Infastidito e rabbioso, lanciò un verso simile a un muggito ruggente. Qualcosa lo aveva punto, e stava continuando a farlo! Se un individuo umano coadiuvato dall’impiego del pensiero speculativo fosse stato lì ai margini, ed intenzionato a prevenire il peggioramento ulteriore di cotal frangente, costui non avrebbe certo ulteriormente temporeggiato, prima di gridare: “Fermo! Non lo vedi che ha il tronco ricoperto di spine?”
L’animale non-così-fantastico del nostro ipotetico scenario aveva appena scoperto, suo malgrado, il (falso) kapok. O albero “del filo di seta bianco” o ancora come lo chiamano in buona parte del Sudamerica dove cresce in modo endemico, il palo borracho (bastone ubriaco) in riferimento al serbatoio naturale per i liquidi incorporato nella parte bassa del tronco, capace di farlo sembrare un’oblunga fiaschetta prodotta dalla natura stessa. Benché a nessuno potrebbe venire mente che abbia voglia farsi nuovi amici, osservando l’impressionante struttura protettiva di cui l’evoluzione si è premurata di dotarlo. Prima ed ultima linea di difesa nei confronti degli antichi erbivori di quei distretti, che oggi continua a rendere i suoi frutti e fiori totalmente inaccessibili a creature che non siano dotate d’ali, al fine di potervi giungere dall’alto. Nonché gli umani, va da se, che avendolo nel frattempo incorporato nel genere Ceiba con la definizione di C. speciosa, hanno scoperto di poter far uso dei suddetti frutti ripieni di una coltre lanuginosa. In effetti non così diversa, sebbene lievemente meno pregevole, da quella associata tradizionalmente al C. pentadra, ovvero l’albero comune del kapok. Usato da secoli se non millenni dai popoli precolombiani, come isolante, imbottitura, materiale per accendere il fuoco. Così come la forma riconoscibile di tali arbusti fu associata, lungamente, ad un’antica leggenda…

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Uomo premuroso mostra al mondo che non tutti i piranhas nascono uguali

Giorno dopo giorno, con il sovrapporsi degli impegni e le difficoltà dell’esistenza, sempre più cerchiamo un modo per trovare il tempo di considerare una diversa via d’uscita. È una forma, da un’alternativa angolazione, di meditazione moderna, il metodo per ritrovare un’armonia con l’Universo. Per alcuni l’unica maniera è leggere, dipingere, creare. Altri preferiscono congiungere le mani per rivolgersi a un’autorità superiore. E poi esistono coloro che, metaforicamente o meno, decidono di dedicarsi a nutrire i piccioni. Essere l’aiuto per creature dai bisogni semplici, diventare un punto di riferimento contro l’insistente incedere l’entropia: ci sono grandi potenziali benefici, nel decidere di ritornare alla natura. Ma come si usa dire in campo antropologico, paese che vai, pennuti che trovi e talvolta, gli animali rispondenti alle caratteristiche implicate possono persino presentarsi con le pinne, invece che le ali. Per Valdemir Alves da Silva, utente brasiliano di successo su TikTok ed altri social, gli amici animali sono per esempio una nutrita comunità di Colossoma macropomum, alias pacu dalle pinne nere, alias “super-piranha mangiatore di nuts (noci/testicoli).” Una battuta per un doppio senso spiritoso, nato quasi una decina d’anni fa su Internet in seguito all’avvistamento di alcuni esemplari nei fiumi europei, che potrebbe aver compromesso in modo sempiterno la reputazione della specie, al pari di quanto avvenuto per i pescecani con il film di Steven Spielberg “Lo Squalo”. Laddove i qui presenti serrasalmidi, di un tipo in verità diverso dal piccolo e vorace stereotipo sudamericano, paiono mansueti come dei gattini, mentre aspettano di essere nutriti a turno dal creatore di contenuti digitali, mediante quelli che potrebbero essere dei pellet per acquaristi ma per quanto ne sappiamo, anche dei pezzi di prosciutto tagliati a dadini. Questo perché non è oro tutto quel luccica e in effetti, il pacu non è proprio o necessariamente un tranquillo erbivoro del tutto incline al pacifismo, bensì un onnivoro del tipo meglio attrezzato, con una bocca piena di denti dal bordo tagliente ed altri fatti per triturare la suddetta frutta a guscio duro. E pesci più piccoli, molluschi, crostacei, le dita d’incauti bagnanti umani! Il che suscita l’implicita e immediata questione: cosa garantisce, a costui, l’impossibilità del verificarsi d’eventuali incidenti? Difficile immaginare un tipo di scenario in cui, come per addestratori africani di iene e leoni, egli possa essere cresciuto in stretto contatto con gli avannotti nel loro ambiente di appartenenza, venendo incorporato nel branco fino a diventare una presenza costante e rassicurante. Un tale livello d’interazione pesci-umani, molto semplicemente non PUÒ verificarsi. Eppure…

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