L’idea del camion ribassato per incrementare l’efficienza dei trasporti continentali

Due scuole di pensiero contrapposte, sui sentieri logistici dei tempi moderni: da una parte il camion a 18 ruote statunitense, con il suo lungo cofano ed il potente motore, aerodinamico, spazioso, confortevole castello su ruote. Dall’altra, la tipica motrice stradale europea, compatta, efficiente, maneggevole, lo strumento calibrato per assolvere a uno scopo estremamente preciso. E se potesse esistere, nel mondo, una terza via? Un approccio che potesse al tempo stesso ottimizzare i costi e allontanare contrattempi, distrazioni, problematiche tangenti d’imprevista e occasionale natura. Che cos’è dopo tutto il trattore di un autotreno, se non la piattaforma usata dall’autista per spingere innanzi un semirimorchio? E se la cabina di quest’ultimo potesse, in fase progettuale, essere del tutto eliminata? Premettendo dunque che non siamo qui a parlare oggi di camion del tutto autonomi (troppo presto per questo oltre quattro decadi a questa parte) il mezzo infine presentato al salone di Francoforte del 1983 dall’ingegnere e imprenditore di Stoccarda Manfred G. Steinwinter era la più perfetta realizzazione del principio secondo cui nei trasporti “Ogni lasciata è persa”. Con un particolare riguardo al limite, introdotto come parte dei regolamenti della Comunità Europea, per una lunghezza massima di quella classe veicolare, esplicitamente finalizzata alla movimentazione di carichi pesanti. Poiché questo faceva in poche parole lo Steinwinter SuperCargo 2040, alias Cab-Under, pur senza dimostrare particolari manie di protagonismo. Essendo situato ad arte, in base a un piano logico ben preciso, al di sotto, piuttosto che davanti, il contenitore rettangolare del suo rimorchio. L’approccio è stranamente familiare per chiunque abbia mai visto il tipico inseguimento dei film d’azione, in cui ad un certo punto l’auto sportiva del protagonista sfugge ai cattivi o ai poliziotti insinuandosi in modo acrobatico tra il l’avantreno e il retrotreno di un Transport Internationaux Routiers, più comunemente detto “TIR”. Ciò in quanto resta del tutto possibile, rispettando i regolamenti e le norme della condivisione stradale, costruire un veicolo non più alto di 1,2 metri. Soltanto nessuno aveva ancora pensato, all’epoca, di fare esattamente lo stesso con il mezzo da lavoro che potremmo definire il sinonimo dele consegne stradali a medio e lungo raggio.
Un camion, ma basso: di sicuro una presenza destinata a far voltare lo sguardo ad automobilisti innumerevoli, nel corso della breve storia di utilizzo e sperimentazione del suo prototipo. Che anticipando in modo significativo alcuni crismi progettuali destinati a diffondersi soltanto in futuro ancora nebuloso e per lo più teorico, avrebbe ahimé fallito l’ardua missione di trovare un mecenate o finanziamenti adeguati. Finendo irrimediabilmente per naufragare, come innumerevoli altri bastimenti nell’oceano agitato dei commerci internazionali…

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L’ultima fermata dei semiautobus, connubio imperfetto tra due mondi

Bilanciato sull’obliquo piatto della convenienza, praticità, semplicità d’impiego, il trasporto pubblico di massa rappresenta al giorno d’oggi uno dei molti aspetti fraintesi dell’urbanistica moderna. In cui l’offerta dei costruttori di veicoli stradali parrebbe essersi fossilizzata su un tipo di carrozza a motore particolarmente specifica, dotata di quattro ruote, dalla forma di un parallelepipedo allungato, egualmente funzionale nel trasporto di passeggeri in piedi, e seduti. Il che rientra nel pratico piano di standardizzazione dei modelli: scendi da un aereo, al termine di un lungo viaggio, e riconoscerai sempre un autobus per quello che è davvero. A meno che tu sia arrivato, magari spostandoti anche addietro nel tempo di cinque o sei decadi, nella città di Havana, Cuba. Probabilmente l’ultimo luogo in tutto il mondo ad aver mantenuto, assieme ad altre tradizioni imposte dalla particolare situazione socioeconomica di quel paese, l’approccio alternativo di gestione dell’umana problematica, per lo spostamento di un certo numero d’individui da una fermata all’altra del grande circuito cittadino. Il che ci porta, senza ulteriori indugi, al segno e l’espressione di un’idea: perché mai, dopo tutto, camion e corriere dovrebbero essere qualcosa di fondamentalmente diverso? Oggetti inanimati e persone, dopo tutto, si assomigliano dal punto di vista logistico se queste ultime si trovano in condizioni intenzionali di stasi. Come all’interno di uno degli ultimi camellos ancora in grado di muoversi, unione di un distintivo tipo di rimorchio con motrici provenienti in genere dagli Stati Uniti. Che qualcuno riusciva, storicamente, a far filtrare attraverso le maglie dell’embargo con la terra caraibica del socialismo per definizione. E il pragmatismo in base alla necessità: difficile immaginare d’altra parte in quella terra, tra gli anni 70 ed 80, un altro modo per spostare una cinquantina di persone alla volta (o anche di più scegliendo di accantonare, come spesso capitava, i limiti normativi in materia di sicurezza) entro un cabinato dalle iconiche due “gobbe” che rappresentavano la risultanza di una sezione centrale ribassata, al fine di facilitare la salita a bordo del gremito popolo dei passeggeri che volevano accorciare le distanze. Nient’altro che uno dei vantaggi possibili, rispetto all’originale concezione dei trasporta-gente cittadini, offerta dall’oggi accantonata e quasi dimenticata categoria dei cosiddetti trailer bus, o semiarticolati che percorsero le tratte circolari nei capolinea di svariate città nel mondo. Senza tuttavia riuscire mai a cambiare il paradigma imposto in parte dalla convenzione, nonché il senso pratico che tende a risultare dalle problematiche vicende pregresse…

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Un mini cingolato che parcheggia il rimorchio nel tuo garage

È davvero una vita grama questa, in cui molte delle cose più divertenti comportano il fastidio della “preparazione”. Dipingere un quadro è impossibile, se prima non si appronta il cavalletto, tirano fuori i colori e trascorrono svariati appiccicosi minuti, nella preparazione della tavolozza cromatica da tenere in mano. Giocare a scacchi è sempre un piacere, a patto che si prenda la scacchiera, liberi il tavolo da pranzo e dispongano i pezzi uno per uno con grande cautela. E avete mai pensato, ad esempio, di andare a pescare in maniera naturale? Sarà meglio che abbiate qualche ora a disposizione, per andare a raccogliere le esche vive nel fango bene idratato. E persino tutto questo non è nulla, in confronto alla noia di rimettere tutto com’era. Quando il rush biochimico dello svago si trova agli sgoccioli, e senza endorfine, né aspettative immediate di ulteriore soddisfazione, dovete ancora affrontare il tormento del riordino, la domenica pomeriggio, con la mente già orientata al lavoro. Di certo ci sono alcuni, tra i più disordinati, che evitano semplicemente di farlo. Trascorrendo le proprie serate dei giorni feriali con la bicicletta in salotto, il puzzle in mezzo al tappeto, il windsurf di traverso nell’androne di casa. Dopo tutto, che cosa cambia? Ciò che importa è associare tutto questo, non tanto alla pigrizia, quanto ai piaceri passati e futuri dell’esistenza.
Ma vi sono cose che, per quanto ciò possa essere la nostra preferenza, semplicemente non possono essere lasciate a portata di mano. E una di queste è l’appartamento su ruote, la casa trainabile, ovvero quella che in molti chiamano, con pratico francesismo, la costosa e spaziosa roulotte (che poi, colmo dei colmi, nel paese del vino è definita caravane). Immaginate, se avete il tempo, la scena: trascorso il week-end al lago/in campagna/sulle pendici pedemontane, fate il vostro accesso nel vialetto di casa, pienamente consci di quanto sta per succedere: è giunta infatti, la più terribile delle ore, quella trascorsa nel parcheggiare l’attrezzo nel vostro garage. Ora, generalmente parlando, tutti conoscono la problematica d’incastrare una grossa automobile dentro un parallelepipedo poco più grande di lei, con all’interno, per di più, colori a tempera, scatole degli scacchi, canne da pesca disposte in giro… Che ci vuoi fare, non tutti dispongono della cantina! Ma ora provate a considerare le problematiche di fare lo stesso, con un “pezzo” attaccato dietro, ancor più grande del veicolo a quattro ruote in questione. Un’operazione che non è soltanto il doppio più difficile, ma una cifra moltiplicata più volte, poiché come saprete la retromarcia di due mezzi incatenati tra loro, inverte la direzione dei controlli per il primo vagone, ma lascia invariata quella del secondo. In altri termini, per il guidatore medio, simili operazioni richiedono quasi sempre l’aiuto di uno spotter (persona che guarda da fuori) e una lunga, paziente porzione di pomeriggio. Roba da sovrascrivere, nei propri ricordi, il gusto immediato di una piccola vacanza. O cercare soluzioni alternative, come l’impiego del nuovo Trailer Valet RVR, un aiuto tecnologico a disposizione di tutti coloro che hanno bisogno d’affrontare l’infelice questione. Ovvero la trasposizione di terra, ridotta di molte volte nelle dimensioni, del semplice concetto di una pilotina portuale telecomandata.
La portata della semplificazione appare evidente dalla pubblicità, girata con la consueta verve drammatica del marketing statunitense; scene sincopate, brevi, accompagnate da una grandinata d’esclamazioni. Sembrerebbe del resto trattarsi di un prodotto, a tutti gli effetti, utile ed innovativo. È un piccolo veicolo telecomandato a batteria, dal peso approssimativo di un cane di taglia media, ma una potenza sufficiente a trascinare, a seconda del modello, 1.588, 2.495 o 4.082 Kg. Ora, tutto questo non sarebbe neanche lontanamente altrettanto impressionante, se l’oggetto in questione non fosse anche dotato di un pratico telecomando, che sostanzialmente vi permette di agire come foste gli spotter di voi stessi. Il che in altri termini, non vi pone più al volante nella cabina di guida, mentre tentate nervosamente di acquisire coscienza degli spazi attraverso gli specchietti inadatti, bensì rilassati al livello del suolo, come veri figli del faraone, mentre osservate il problema che sembra, letteralmente, risolversi da solo. E i vicini che vi guardano, invidiosi, non possono fare a meno d’interrogarsi su come una cosa tanto piccola, possa vantare una simile potenza. Una questione che in effetti, troverebbe risposta nello stesso video promozionale…

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L’agilità di un camion con rimorchio sterzante

Fin dall’epoca remota, il piccolo ponte ha segnato il punto in cui lo strapiombo cessava d’influenzare la viabilità. Un arco di pietra non più lungo di 15-20 metri e largo all’incirca una carreggiata e mezzo, sostanzialmente dimenticato dall’ente francese per la viabilità. Certo, perché mai prevedere il doppio senso? È talmente corta, questa struttura, che un automobilista potrà facilmente controllare se la via è libera prima di afferrare saldamente lo sterzo e impegnare l’area percorribile, delimitata da un basso muretto facente funzioni di una sorta d’inefficiente guard rail. Ad esempio, immaginate una motrice gialla con semirimorchio, o in altri termini, il tipico camion semi-articolato sul modello europeo. Che trasporta tronchi in quantità sufficiente a costruire una manciata di granai. O una singola longhouse vichinga, magari edificata per la scena più importante di un grande film. Chi si sognerebbe mai di pretendere la precedenza, dinnanzi a un simile mezzo imponente… Anzi, diciamo la più probabile verità: tutti gli spettatori accidentali se ne andrebbero via fischiettando il motivetto del ponte sul fiume Kwai. Perché se la geometria non è un’opinione, e nessuno potrebbe mai definirla tale, il mezzo in questione tale ponte non potrà riuscire ad attraversarlo. Due possibili esiti si profilano sull’immediato: 1 – Manovrare per quasi un’ora, raddrizzando progressivamente il rimorchio nella speranza di riuscire a piegare la realtà, finendo in ultima analisi per sfinire se stessi e chi ti aspetta dall’altro lato. Oppure 2 – Un guidatore troppo poco prudente, che rifiutando di considerare il problema, si mette follemente di traverso e rischia di finire dritto nel burrone. Apparirà dunque più che mai chiara, la posta in gioco mantenuta incandescente dal qui presente, spericolato autotrasportatore.
Se non che, nel momento della sovrana e ultima verità, un fremito sembra percorrere lo spaziotempo. E succede qualcosa che richiede un secondo sguardo chiarificatore: le 12 ruote del rimorchio posteriore, impossibilmente, sembrano essersi messe di traverso. Esatto: le ruote di dietro hanno sterzato. Pochi secondi trascorrono mentre la motrice s’inoltra sulla stretta lingua transitabile nel vuoto ed il rimorchio, impossibilmente, la segue. Sembra di assistere alla scena di un bambino che solleva il suo giocattolo, posizionandolo nella maniera più corretta alla sua visione corretta d’impiego. Non è una mistica magia surreale, ma l’impiego di un effettivo strumento tecnologico, stranamente poco diffuso nonostante la sua lampante utilità. Il rimorchio sterzante, o per meglio dire il carrello, a tre, sei o dodici assi, che viene usato sui carichi eccezionalmente lu-uuunghi per permetterne la consegna in qualsivoglia tipo di situazione. Pensateci, è un’idea geniale: il tipico scenario urbano non permette la navigazione dei giganteggianti autotreni senza finire per incontrare un’auto parcheggiata in doppia fila, un autobus in senso contrario o altre insuperabili amenità. Il che significa, in effetti, che tutte le consegne devono essere effettuate da piccoli furgoni, poco più che automobili, ciascuno dei quali produce emissioni velenifere e contribuisce all’inquinamento dell’atmosfera. Immaginate adesso, che cosa succederebbe se i veicoli pesanti fossero dotati di un sistema che gli permette d’inserirsi nei più stretti viottoli, senza sradicare e portarsi dietro un semaforo o due. Esistono naturalmente, diverse tipologie di simili apparati: la prima e più semplice, prevede un telecomando a mano che tramite la pressione di una levetta analogica, permette all’impiegato preposto di direzionare il retro del veicolo nella maniera più pregna ed efficace. Nei modelli più recenti, sarà invece lo stesso guidatore, tramite un sistema di telecamere, a gestire l’impresa dalla comodità della sua cabina. Discorso a parte meritano poi gli approcci computerizzati, in cui il rimorchio non farà altro che seguire, in assoluta autonomia, il preciso tragitto percorso dalla sua motrice. Esistono inoltre svariati tipi di approcci propulsivi, tra cui sistemi idraulici, elettrici e persino cinghie di trasmissione, che al momento di praticare la magia possono sfruttare ed incanalare passivamente l’energia delle (numerose) ruote anteriori. È un approccio infallibile a un problema universale: nel momento in cui il rimorchio acquisisce la capacità di manovrare in maniera indipendente, esso non è più una peso per così dire morto, bensì il secondo occupante di un vero e proprio convoglio, più o meno pensante, ma pur sempre pronto a fare tutto quello che gli si chiede. Ed a quel punto, non c’è un solo piccolo ponte francese che sia ancora in grado di costituire un problema.

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