Bilanciato sull’obliquo piatto della convenienza, praticità, semplicità d’impiego, il trasporto pubblico di massa rappresenta al giorno d’oggi uno dei molti aspetti fraintesi dell’urbanistica moderna. In cui l’offerta dei costruttori di veicoli stradali parrebbe essersi fossilizzata su un tipo di carrozza a motore particolarmente specifica, dotata di quattro ruote, dalla forma di un parallelepipedo allungato, egualmente funzionale nel trasporto di passeggeri in piedi, e seduti. Il che rientra nel pratico piano di standardizzazione dei modelli: scendi da un aereo, al termine di un lungo viaggio, e riconoscerai sempre un autobus per quello che è davvero. A meno che tu sia arrivato, magari spostandoti anche addietro nel tempo di cinque o sei decadi, nella città di Havana, Cuba. Probabilmente l’ultimo luogo in tutto il mondo ad aver mantenuto, assieme ad altre tradizioni imposte dalla particolare situazione socioeconomica di quel paese, l’approccio alternativo di gestione dell’umana problematica, per lo spostamento di un certo numero d’individui da una fermata all’altra del grande circuito cittadino. Il che ci porta, senza ulteriori indugi, al segno e l’espressione di un’idea: perché mai, dopo tutto, camion e corriere dovrebbero essere qualcosa di fondamentalmente diverso? Oggetti inanimati e persone, dopo tutto, si assomigliano dal punto di vista logistico se queste ultime si trovano in condizioni intenzionali di stasi. Come all’interno di uno degli ultimi camellos ancora in grado di muoversi, unione di un distintivo tipo di rimorchio con motrici provenienti in genere dagli Stati Uniti. Che qualcuno riusciva, storicamente, a far filtrare attraverso le maglie dell’embargo con la terra caraibica del socialismo per definizione. E il pragmatismo in base alla necessità: difficile immaginare d’altra parte in quella terra, tra gli anni 70 ed 80, un altro modo per spostare una cinquantina di persone alla volta (o anche di più scegliendo di accantonare, come spesso capitava, i limiti normativi in materia di sicurezza) entro un cabinato dalle iconiche due “gobbe” che rappresentavano la risultanza di una sezione centrale ribassata, al fine di facilitare la salita a bordo del gremito popolo dei passeggeri che volevano accorciare le distanze. Nient’altro che uno dei vantaggi possibili, rispetto all’originale concezione dei trasporta-gente cittadini, offerta dall’oggi accantonata e quasi dimenticata categoria dei cosiddetti trailer bus, o semiarticolati che percorsero le tratte circolari nei capolinea di svariate città nel mondo. Senza tuttavia riuscire mai a cambiare il paradigma imposto in parte dalla convenzione, nonché il senso pratico che tende a risultare dalle problematiche vicende pregresse…
Volendo ripercorrere la storia dei semiautobus dalla sua remota genesi, dunque, è probabile che approderemmo ad un particolare esperimento condotto dalla città di Amsterdam nel 1924, consistente nella costruzione di tre prototipi costruiti su misura, corrispondenti almeno in linea di principio al concetto ante-litteram di corriere articolate. In cui la motrice, dall’aspetto prevedibilmente desueto, avrebbe trainato il vagone simile ad una corriera per gli stretti vicoli e soprattutto, i gibbosi ponti sui canali della capitale d’Olanda, se non che venne determinato tardivamente che tali recessi venivano effettivamente toccati molto raramente dai tragitti del trasporto cittadino, portando al ritiro anticipato i singolari veicoli prodotti fino a quel momento. Il che ci porta, dopo l’esperienza australiana di 123 vetture allestite e fatte circolare verso la fine degli anni ’30 dalla Parramatta-Ryde Bus Service e la Rover Coaches, al periodo della seconda guerra mondiale, durante cui questo specifico approccio al trasporto di persone trovò ampio utilizzo nel contesto delle industrie di più ampia metratura. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed altrove, dove grandi quantità di operai e impiegati iniziarono a venire dislocati, in base alle necessità vigenti, tra uno stabilimento e l’altro dei diversi enti preposti all’approvvigionamento dei rispettivi soldati. Fino alla fine del conflitto e l’inizio di quella che potremmo definire come una vera e propria epoca d’oro delle vetture semi-articolate operative nel settore, a partire da alcune delle principali città del vasto territorio brasiliano. Dove un’imprevista collaborazione tra la Fábrica Nacional de Motores (FNM) e l’azienda fondata da un immigrato italiano della Massari SA riuscì a far fronte alla commessa della compagnia dei trasporti statale CMTC per 50 unità circolari da utilizzare nella capitale San Paolo, presto imitata da Rio de Janeiro e Porto Alegre. Le vetture destinate presto a quintuplicare il proprio numero, soprannominate affettuosamente papa-filas (code lunghe) presentavano dunque dei significativi punti di forza, primo tra tutti la capacità di trasportare fino a 150 persone in condizione di relativa sicurezza, pur trovandosi destinate ad accumulare entro un certo numero di anni una reputazione piuttosto negativa. Pare infatti che risultassero scomode in modo particolare per le vibrazioni a bordo, la difficoltà di manovra e nel reperire autisti dotati delle opportune capacità e certificazioni, esulando da ogni tipo di classificazione tramite l’applicazione di modelli pre-esistenti. In epoca coéva, altri luoghi nel mondo sembravano continuare a muoversi su una strada parallela, con ordini consistenti di veicoli del tutto comparabili di nuovo dall’Olanda e l’Australia Occidentale, oltre alla nuova Cecoslovacchia, patria del riconoscibile Karosa NO 80, un semiautobus basato sul convenzionale Škoda 706 RTO, dalla forma stondata facilmente databile al sesto decennio del Novecento. Non ci sarebbe voluto moltissimo, d’altra parte, perché al termine della vita operativa di questa primissima generazione i diversi committenti ritornassero a sistemi di trasporto maggiormente convenzionali. I sorpacitati camellos cubani, di lor conto, sarebbero avrebbero continuato ad essere impiegati molto più a lungo, per una mera situazione di necessità, diventando un tipico soggetto delle fotografie scattate dai turisti a L’Avana, sebbene gli abitanti locali tendessero a considerarli molto negativamente, come un simbolo del disagio economico ed i problemi organizzativi del loro paese. Fino alla sostituzione a partire dell’anno 2009 con una fornitura di autobus della cinese Zhengzhou Yutong, che ad oggi costituiscono la spina dorsale del servizio pubblico dei trasporti. L’inizio, da ogni punto di vista rilevante, di una nuova Era…
Visioni di un possibile mondo alternativo, in cui l’ottimo apparato cuboidale delle strade cittadine non avrebbe avuto la necessità d’imporsi, permettendo ai guidatori di esistere all’interno di una bolla separata dal caotico vociare dei propri utenti. Il che presentava, per inciso, la necessità frequente di una seconda figura professionale a bordo, per controllare la timbratura del biglietto e mantenere l’ordine in cabina. Il che contribuiva agli eccessivi costi operativi di questa sfumata ucronia. A cui andava aggiunto il timore spesso riportato, in effetti privo di un fondamento valido, che i rimorchi carici di gente potessero finire in qualche modo per staccarsi dalla motrice durante la marcia, generando una nuova e terrificante tipologia d’incidenti.
Ma la realtà è che la globalizzazione tende a trarre beneficio, persino esigere, il predominio standardizzato dei modelli. E nessuno avrebbe mai apprezzato veramente di poter prendere “l’autobus”, se quest’ultimo non fosse stato in ogni suo angolo corrispondente allo stereotipo di quel concetto preponderante. “Non siamo pecore” oppure; “Non siamo balle di fieno. Non siamo semplici ingranaggi di un sistema che stritola l’Ego dell’individuo.” Strano, come più gli oggetti assolvano a funzioni semplici, maggiormente la gente finisca per affezionarsi alla loro forma!