Ci sono innegabili vantaggi nel combattere assieme ad un gruppo che ricorda lo stesso addestramento, ha condiviso ogni esperienza fino all’attimo saliente del confronto col nemico in un contesto davvero rilevante. Fino a 900 uomini, un intero battaglione, che conoscono le rispettive debolezze e punti di forza, capaci di riconoscersi dalle specifiche caratteristiche delle proprie uniformi. Questo è il concetto, a ben pensarci, dei corpi di spedizione o d’avanguardia, come quelli utilizzati durante il drammatico 6 giugno del 1944 in Europa, per la liberazione della Normandia e tutto quello che sarebbe venuto a seguire. Eppure ripensando a quell’operazione, ed alla maniera in cui molti dei soldati finirono separati dalle proprie unità, per la complessità logistica di organizzare questo tipo di operazione, verrebbe anche da chiedersi: possibile che ci fosse un modo migliore? Chiedetelo ai giapponesi, nella travagliata progressione dei tre anni antecedenti di guerra, e potreste aver trovato una risposta inaspettata. Da parte di una macchina bellica come quella dell’Impero del Sol Levante, più volte soggetta a difficoltà significative nel trasferimento delle proprie truppe o risorse tra le isole distanti dell’Oceano, ove giacevano in paziente attesa i temuti sommergibili americani. Vi sono effettivamente varie teorie sul perché storicamente, un popolo capace di produrre tale tipo di vascelli fallì più volte nel riuscire a contrastarli adeguatamente: secondo alcuni la dottrina navale del paese, di concezione eccessivamente recente, non sapeva comprendere le regole della moderna guerra multi-livello. Altri hanno affermato che il codice stesso dei guerrieri del distante Oriente, il famoso Bushido, non concepisse il gesto di tendere agguati a navi disarmate da rifornimento o trasporto. O è ancora possibile che semplicemente l’ammiraglio Yamamoto, supremo comandante del conflitto, fosse incline a spendere le sue risorse altrove, trascurando il pericolo maggiore affrontato dai suoi uomini ancor prima di trovarsi in battaglia. Fatto sta che già nelle prime fasi della guerra la Dai-Nippon Teikoku Kaigun (Marina Imperiale del Grande Giappone) poteva contare sull’impiego di numerosi ed imponenti idrovolanti, utilizzati per spostare cargo particolarmente preziosi, evitando totalmente il rischio di finire a tiro dei siluri nemici. Aerei come il Tipo 97 e il Tipo 2, con un equipaggio rispettivo di 9 e 13 persone, pesantemente armati e capaci di decollare ed atterrare pressoché ovunque. Tanto che verso la metà del 1943, in base a informazioni raccolte successivamente, si decise di contattare la compagnia produttrice Kawanishi della prefettura di Hyogo affinché creasse un nuovo tipo di velivolo, capace di eliminare completamente la necessità di affidarsi ai convogli. In assenza di un soprannome effettivo, tuttavia, il semplice numero di serie KX-3 non permetteva in linea di principio di presumere la portata rivoluzionaria di una simile idea: un’alta coda, una monumentale carlinga. Due ali ampie 180 metri, ovvero pari alla lunghezza di un incrociatore da battaglia di quel paese e la capacità del tutto senza precedenti di portare un carico di 500 tonnellate. Abbastanza da cambiare ed invero definire, per quanto possibile, il destino di un’intera battaglia…
razzi
Libellule a reazione: l’alato sogno biomimetico del tardo Reich
Nella visione prototipica di un tale scenario, il pilota veterano dagli occhi color cobalto sarebbe salito a bordo grazie all’uso di una ripida scala a pioli. Dalla “base” di decollo nascosta in una piccola radura della Foresta Nera, circondato dal febbrile lavoro della propria orgogliosa ed elegante equipe. Un gruppo di tecnici affiatati in uniformi nere come la pece, intenti a preparare in vari modi al decollo quello che sarebbe potuto sembrare a tutti gli effetti un razzo da impiegare per il bombardamento della capitale inglese. Se non che all’accendersi dei suoi motori, collocati insolitamente al termine di tre massicce “ali” o “rotori” l’oggetto poco incline all’identificazione avrebbe cominciato a roteare febbrilmente su se stesso, tratteggiando un arco acuto nel terso cielo della madrepatria. alla velocità di 1.000 Km orari I suoi cannoni minacciosi scintillanti di orgogliosa furia guerriera. E pronti a dirigersi cercando, parallelamente al suolo fino all’altitudine di 15.000 metri, la candida e fluorescente scia del motore nemico.
La figura del polimata, altrimenti detto l’uomo rinascimentale, ha visto prolungare il mito dell’apprendimento parallelo ed i traguardi che può consentire di raggiungere una mente aperta, con la prospettiva dell’artista che apre strade per l’innovazione tecnologica precedentemente sconosciute ai propri contemporanei. C’è una cosa, tuttavia, che Leonardo da Vinci e i suoi colleghi del mondo arabo ed asiatico non riuscirono mai veramente a realizzare, sotto qualsivoglia punto di vista rilevante al suo funzionamento ideale: l’effettivo e imprescindibile volo dell’uomo. Nonostante tali e tante macchine visivamente affascinanti, simili ad uccelli di universi fantastici, per la bassa tolleranza per gli errori che questo obiettivo tende ad avere. Ed è proprio qui, in maniera inevitabile, che s’infrange il sogno della funzionalità apparente, la bellezza in qualità di pratica realizzazione di un concetto. Dove inizia il timido terreno della specializzazione. Che forse mancava, nel settore specifico, al fisiologo comportamentale Erich von Holst dell’Università di Göttingen, destinato a rimanere famoso per il suo lavoro di ricerca compiuto verso la metà degli anni ’40 sul volo degli insetti, attraverso cui riuscì a mettere in relazione gli impulsi sinaptici dei gangli cerebrali con la vibrazione ritmica delle loro ali. E le conclusioni che ne avrebbe tratto, conseguentemente, l’ala progettuale Luftwaffe nel tentativo eroico di applicare tali metodi alla progettazione di un “invincibile” aeroplano. Erano anni selvaggi quelli, d’altra parte, e nulla sembrava irragionevole di fronte alla necessità d’invertire la tendenza disperata del conflitto europeo. Con l’Armata Rossa che avanzava da Oriente e i bombardieri alleati in formazioni inespugnabili, che sorvolavano la Germania bombardando ogni fabbrica o pista di decollo che potesse capitargli a tiro. Mentre l’elite al comando, notoriamente dedita all’utilizzo assiduo di droghe psichedeliche, dipendeva direttamente dalla figura di un führer sempre più convinto del mito autocelebrativo delle wunderwaffe, le “armi miracolose” destinate in qualche modo a cambiare le sorti di una guerra prossima alla propria inevitabile conclusione. Persone come l’ingegnere Otto von Pabst e il produttore di aerei von Halem, all’epoca figure di spicco all’interno del bureau tecnologico della compagnia aeronautica Focke-Wulf di Brema, che avevano conosciuto l’opera di Holst e visto con i propri occhi i modellini che costui aveva creato, di ornitotteri e libellule in legno di balsa capaci di sollevarsi ruotando freneticamente su loro stessi. Da qui l’idea: non sarebbe stato possibile, forse, portare un’idea simile fino alle più estreme conseguenze? Di un velivolo a grandezza reale, intesa come quella necessaria a sollevare un esperto d’intercettazione con tutti gli strumenti del suo mestiere. Per trasportare, ancora una volta, l’inferno in cielo prevenendo che potesse palesarsi invece tra le strade fiammeggianti di una Germania che si era condannata da sola….
Lo strano sogno sovietico dell’aliscafo in grado di lanciare un’astronave
“Costi quel che costi” non è che un mero eufemismo, quando riferito al rapido dispendio di risorse, ingegno e finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica a vantaggio del suo programma spaziale verso la metà degli anni ’70, quando il direttore Valentin Glushko subentrò a Vasili Mishin, con l’arduo compito di colmare circa 15 anni di gap tecnologico rispetto agli Stati Uniti. Nell’assenza di motori a razzo liquidi riutilizzabili, senza esperienza nel lavorare con grasse masse d’idrogeno. Per l’assoluta e totale mancanza di progetti spaziali alati volanti, sulla falsariga dello Space Shuttle al servizio dell’Occidente. Agli albori del programma Buran, per la creazione e il lancio di un tale velivolo dal cosmodromo di Baikonur, i diversi OKB (bureau tecnologici) furono coinvolti in parallelo per la creazione di una serie di proposte parallele. Tutte abbastanza simili per quanto concerne l’ultimo stadio di questa tipologia di missione: un aereo o orbiter capace di sfuggire all’atmosfera terrestre, senza per questo dover abbandonare il proposito di poggiare il suo carrello su una lunga pista asfaltata, pronto a decollare ancora, ed ancora. Ma l’idea forse più ambiziosa di tutte, che non avremmo conosciuto fino a molti anni dopo, sarebbe partita dall’opera congiunta dei due celebri uffici di Sukhoi ed Alexeyev, finalizzata al riciclo non soltanto della parte finale del mezzo bensì ogni suo singolo componente. Un proposito che persino oggi tenderemmo a giudicare eccessivamente ottimistico; eppure perseguito, all’epoca, con un’ipotesi quasi surreale nella sua esasperata concretezza. Prima di procedere a descrivere il video sopra riportato, opera dell’animatore digitale di Youtube specializzato nella storia dell’esplorazione spaziale Hazegrayart lasciatemi perciò descrivere le sue fonti: nient’altro che una singola lettera scritta da alcuni ex-ingegneri al servizio del governo di Mosca, pubblicata sulla rivista britannica Spaceflight nell’anno 1983. In cui si parlava di un’ipotesi tecnologica chiamata semplicemente Albatross, per uno “Shuttle Russo” che sarebbe decollato non da una comune pista dell’entroterra asiatico, né una rampa di lancio verticale. Bensì le onde relativamente calme del più grande lago al mondo, identificato sulle mappe con il nome di Mar Caspio. Accelerando gradualmente, progressivamente, finché un triplice assemblaggio dal peso impressionante avesse raggiunto i 180 Km/h, procedendo con il mettere in atto l’essenziale suddivisione…
L’ipotetica battaglia di seimila ruote sulle sabbie fiammeggianti di Omaha Beach
“Al mio segnale, scatenate l’Inferno!” O così disse un certo gladiatore al culmine di un certa campagna militare di dodici anni, mentre attraversava incautamente una certa foresta di Vindobona. Benché egli non sapesse, per ovvie ragioni, che in mezzo ai cespugli e agli alberi un certo condottiero barbaro diceva altrettanto, incoraggiando i suoi uomini a lasciar scattare la trappola tanto efficientemente approntata sopra le colline antistanti. E si può dire che quando una massa di tronchi rotolanti, intrisi di pece e dati alle fiamme, accede al rapido incremento d’accelerazione che deriva da un dislivello topografico, una posizione di vantaggio verticale sia maggiormente conduttiva ad ottime risoluzioni delle circostanze. Così come resta possibile affermare che l’esercito più forte del mondo antico stesse recitando, in tali circostanze, il ruolo non propriamente magnanimo di forza d’invasione ostile. Il che non tiene in considerazione il tipo di scorribande e conseguente spargimento di sangue dei Germani, oltre alla loro propensione storica al cannibalismo ed i sacrifici umani. Ma come tendono talvolta ad affermar gli storici “Ciò esula dalla portata dell’attuale discussione!” Qualora fossimo davvero intenzionati, quest’oggi, a concentrarci sul potere inarrestabile di ciò che rotola venendo accompagnato da fuoco e scintille. Partendo a ritroso dalla particolare interpretazione che seppe darne nel 1943 il celebre ingegnere aeronautico, inventore ed autore di romanzi Nevil Shute, all’epoca sotto-tenente del Dipartimento Britannico di Armi Miscellanee (DMWD) come risposta all’esigenza del Comando Centrale di condurre all’incirca una tonnellata di esplosivi verso una barriera di solido cemento. Quel “Vallo Atlantico” costruito dai tedeschi dopo aver completato l’invasione dell’Europa Occidentale, con la ferma intenzione di tenere fuori le forze anglosassoni, da tempo dimostratesi capaci di far valere l’alleanza finalizzata a proteggere e ripristinare i valori della democrazia. Tale cifra in termini di peso niente affatto indifferente, d’altra parte, era stata determinata come necessaria al fine di ricavare in una solida barriera di cemento un buco sufficiente a lasciar transitare un carro armato Sherman fatto sbarcare sulla spiaggia, al fine di riuscire a fronteggiare i nidi di mitragliatrici pronti a scaricare sulla fanteria tutto l’odio che si era accumulato nei lunghi anni del conflitto mondiale. Benché nessuno sapesse, effettivamente, come compiere tale impresa logistica lasciando ampio spazio di manovra, in maniera alquanto prevedibile, alla formidabile mente creativa di costui. Da qui l’idea, senz’altro attentamente ponderata, di mettere il tritolo dentro ad un cilindro, come una sorta di barile di metallo, alle cui rispettive estremità fossero state preventivamente installate due ruote rigide da esattamente 3 metri di diametro. Abbastanza, in base alle stime poste in essere, per favorire lo scavalcamento degli ostacoli situati tra la piattaforma di lancio ed il teutonico bersaglio, a patto di fornire l’implemento di una fonte d’energia adeguatamente performante. Il che poteva forse essere una motore di qualche tipo, benché Shute avesse avuto, di suo conto, un’idea potenzialmente “migliore”: perché non montare una decina di razzi per lato, lungo la circonferenza delle ruote? Ed accenderli allo stesso tempo tramite un sistema d’iniezione elettrico a distanza? E perché non scatenare, in questo modo, l’inarrestabile galoppata dell’ordigno, fino all’esplosione inevitabilmente situata al termine del suo tragitto finale? Questa era l’idea, in parole povere, alla base di quello che sarebbe stato denominato di lì a poco come “il Grande” Panjandrum, dal nome di un termine idiomatico usato per la prima volta nel 1775 dal poeta Samuel Foote, per riferirsi a qualcuno incline a sopravvalutare la sua importanza nonostante una posizione di prestigio precedentemente acquisita. Una definizione stranamente appropriata, per ciò che stava per verificarsi nei risvolti maggiormente pubblici della vicenda…