Lo sforzo francese nel resistere alla contro-invasione prussiana del generale Moltke nel 1870-71 fu in larga parte condannata da principio. Troppo largo era il divario, rispetto all’epoca Napoleonica, in termini di leadership, capacità logistiche, organizzazione tattica e militare. Per non parlare del devastante assedio, in termini psicologici e amministrativi, della capitale parigina. Questo conflitto per ottenere la posizione di predominio in Europa fu tuttavia anche un confronto sul piano tecnologico, con gli eccellenti fucili dotati di percussore ad ago di Johann Nikolaus von Dreyse capaci di dimostrarsi superiori, per cadenza e portata di fuoco, ai pur moderni e temibili Chassepot con otturatore dalla guarnizione in gomma. Ci furono tuttavia dei singoli momenti, nel progredire della guerra durata un solo anno, in cui la nazione sorta dalle ceneri rivoluzionarie parve trovarsi in vantaggio, soprattutto grazie a specifici accorgimenti nelle proprie dottrine operative, in buona parte dovuti all’apertura mentale di Napoleone III. Appassionato teorico dell’artiglieria, sul cui tema aveva anche redatto un manuale (non per niente, proprio a suo zio paterno viene attribuito il detto: “Dio è dalla parte del comandante con i cannoni migliori”) si dice sia stato proprio lui, a colloquio con l’ingegnere belga Joseph Montigny, ad aprire la strada per l’adozione di un’innovativa tipologia d’arma, che era stata creata con ben 10 anni d’anticipo rispetto all’iconica mitragliatrice di Richard Jordan Gatling. E quando i soldati della confederazione sotto il comando dei teutoni marciarono il 18 agosto 1870 a Gravelotte, essendo riusciti a sorprendere i corpi d’esplorazione francese, andarono incontro a un’amara sorpresa. Pur avendo cura di mantenersi oltre la portata dei fucili nemici, e soprattutto dei loro pericolosi cannoni caricati a mitraglia, essi si ritrovarono improvvisamente sotto il fuoco di una letterale pioggia di proiettili. Scagliati in micidiali rosette di 30-40 nugoli capaci di trafiggere, letteralmente una formazione di fanteria in assetto di battaglia. Gli uomini caddero allora come mosche, uno dopo l’altro, e venne registrata alle cronache un’amara sconfitta, dal costo in termini di vite umane calcolato attorno ai 20.000 tedeschi, contro poco meno della metà tra i loro agguerriti avversari. Qualcosa di molto importante si era verificato in quel momento storico: un’armata moderna aveva, finalmente, scoperto l’importanza del volume, anche a discapito del calibro, delle proprie inamovibili bocche da fuoco.
E non c’è davvero molto da biasimare, se fino a quel momento i cosiddetti Canon à balles o Mitrailleuse fossero stati utilizzati a sproposito, venendo schierati in mezzo a pezzi di un tipo e munizionamento convenzionale, trovandosi conseguentemente troppo lontani per poter avere un effetto considerevole sull’andamento della battaglia. Essi pesavano, dopo tutto, un minimo di 600-700 Kg, cui si aggiungeva l’ulteriore carico significativo dell’affusto dotato di ruote, mantenendoli ben lontani dalla necessaria maneggevolezza delle attuali armi di supporto all’interdizione delle zone di fuoco. Lo stesso concetto di mantenere un flusso di fuoco continuo, come sarebbe diventato possibile soltanto in seguito grazie ai progressi in campo meccanico, appariva allora come un sogno irrealizzabile. Mentre l’apparato in questione sparava i propri colpi tutti assieme, o in alternativa con una rapidità governata dal movimento della manovella di controllo, per poi richiedere un lungo periodo di ricarica all’esaurirsi delle 25-50 canne in parallelo all’interno del cilindro metallico di contenimento. Ma l’effetto in termini di potere di arresto, quando tutte le circostanze si allineavano opportunamente, era decisamente difficile da sopravvalutare…
munizioni
Uno entra, molti escono allo stesso tempo. Come produce la sua musica il fucile a pompa?
Così a fondo è penetrato nel tessuto della cultura di massa il fraintendimento fondamentale di questa tipologia di armi, che lo stesso termine inglese impiegato per riferirsi ai fucili a canna liscia, shotgun viene spesso tradotto tramite l’impiego dell’apposizione “a pompa” tralasciando il palese significato di quel termine riferito alla specifica metodologia di funzionamento. Ben oltre il concetto generico di un’arma lunga caricata con cartucce cilindriche, il cui carico utile è rappresentato da un agglomerato di sfere destinate a diffondersi a raggera. Riferendosi piuttosto al sistema, brevettato per la prima volta nel 1854 a nome di un certo Alexander Bain d’Inghilterra, per permettere al cacciatore di sparare più volte in successione rapida, con un rateo comparabile a quello di un’arma automatica ma un rischio assai minore di andare incontro a contrattempi nel suo funzionamento. Che un Remington 870 come il protagonista di questo video possa incepparsi non è del resto totalmente inaudito, benché ciò capiti generalmente a causa dell’impiego di munizioni scadenti o acquistate da fornitori poco validi allo scopo. Un tempo eventualità dalla maggior frequenza, a causa dell’involucro cartaceo ed impreciso utilizzato per contenere la materia prima oggetto dello sparo.
Ce ne dimostra le ragioni, accompagnando le immagini a un’approfondita verve didascalica, Matt Rittman, già realizzatore di un’interessante serie di elaborazioni grafiche finalizzate a spiegare il funzionamento di quegli strumenti strettamente imperniati nella vita quotidiana statunitense, le armi da fuoco. Aiutandoci a scacciare, almeno in parte, le incertezze che derivano dal disinteresse latente per un meccanismo così basilare, da essere dato frequentemente per scontato. Molto nota risulta essere, d’altronde, la maniera largamente imprevedibile in cui funzionano le sparatorie hollywoodiane, in cui pistole o revolver non hanno un numero di colpi rispondente alla realtà. E chi preme il grilletto riesce a farlo con la gravitas che gli viene data dal suo ruolo nella storia, sia egli protagonista, antagonista o il deuteragonista destinato a perire nella penultima scena. Laddove ancor più folle è il tipo di utilizzo che ne viene fatto dentro il media digitale interattivo, dove non è sempre necessario, ad esempio, ricaricare. Non che il prototipico movimento, quel pompaggio diventato un punto fermo nei conflitti a corto raggio fin dall’epoca della grande guerra, abbia la dote di far materializzare magicamente un colpo in canna. Benché senza guardare uno spaccato del funzionamento di quel meccanismo, possa essere talvolta proprio quella l’impressione di base; osservate, dunque, la scorrevolezza del componente che prende il nome di carrello o forend. Al tempo stesso impugnatura e chiavetta dell’orologio, manovella del vecchio motore a combustione interna, pala del mulino posto lungo il fiume delle circostanze. Trampolino dei proiettili, lanciati all’indirizzo del bersaglio di turno…
Non pallottole ma mini-razzi: pistole adatte all’epoca spaziale
Soltanto perché una cosa viene fatta funzionare in un determinato modo, non significa che sia “l’unico adatto allo scopo”. In determinate circostanze, tuttavia, esso avrebbe costituito effettivamente l’approccio maggiormente idoneo alla finalità di partenza. In un momento imprecisato verso la fine degli anni ’60, le cronache del crimine riportano di una rapina molto fuori dal comune: un uomo, ad oggi senza un nome o un volto, tentò di defraudare degli incassi una stazione di servizio usando una grossa pistola rubata. Si trattava di un modello dall’aspetto particolarmente insolito, con forma squadrata, canna traforata e un peso decisamente inferiore alla media. Tuttavia l’uomo aveva avuto modo di provare l’arma in un poligono improvvisato, e l’aveva trovata soddisfacente e silenziosa, nonostante i colpi avessero una forma e un calibro assolutamente mai visti prima e tendessero talvolta a mancare il bersaglio. Al ritardo da parte del cassiere nel consegnargli il maltolto, dunque, il criminale fece la scelta scellerata di puntargli addosso l’arma a una distanza estremamente ravvicinata, al fine di sparargli non una, non due, bensì addirittura sei volte. Ebbene ora non ci è noto, esattamente, in quali parti del corpo l’implemento letale venne indotto a scatenare la sua furia, benché si trattasse di arti, corpo o perché no, la testa, il risultato fu lo stesso: ciascun singolo proiettile impattò senz’alcun tipo di conseguenza. Come se la vittima di un così efferato tentativo d’omicidio, in effetti, fosse un parente prossimo di Superman, l’uomo d’acciaio in persona. Naturalmente, non è questa la ragione. Semplicemente, a sua insaputa, l’assassino stava utilizzando un tipo d’arma che aveva parametri d’impiego totalmente nuovi. Inclusa una distanza minima, necessaria affinché il proiettile potesse sufficientemente ACCELERARE.
Il mito delle Gyrojet, massimo livello raggiunto in fase progettuale dalla compagnia appassionata di razzi dell’epoca dello sbarco lunare (e collaborazioni con la NASA) MBAssociates, è una di quelle storie tecnologiche che senza l’entusiasmo dei collezionisti e l’incrollabile passione statunitense rivolta a tutto ciò che spara all’indirizzo di una preda, un bersaglio o un nemico della Costituzione Nazionale, sarebbe andata persa nelle nebbie del tempo, come esemplificato dalla famosa citazione di un anonimo funzionario della DARPA (l’Agenzia dei Progetti di Ricerca per la Difesa) che disse “[…] Proprio come il Gyrojet. Se il bersaglio è abbastanza vicino da riuscire a colpirlo, non potrai ucciderlo. Se è abbastanza lontano da ucciderlo [e tira il vento, nda] non riuscirai a colpirlo…” Detto questo, simili pistole, carabine e fucili d’assalto furono prodotti in quantità tutt’altro che trascurabili e persino utilizzati durante la guerra del Vietnam, a causa di alcuni punti di forza estremamente rappresentativi: abbiamo già citato la loro silenziosità e la relativa semplicità e compattezza dell’arma, spesso costruita in una lega di zinco dal nome di Zamac. A tutto ciò aggiungete un’efficacia che aumentava, piuttosto che diminuire con la distanza, sfoggiando una velocità raggiunta dal proiettile in condizioni ideali di 1.250 fps (380 metri al secondo) ovvero circa il doppio di un equivalente munizione calibro .45 ACP. Ma erano proprio il raggiungimento di tali circostanze, a condizionare maggiormente l’effettiva adozione su larga scala delle armi basate sul principio del Gyrojet. Poiché come probabilmente già saprete, un razzo grande o piccolo raggiunge la velocità massima appena dopo l’esaurimento del carburante. Il che poteva effettivamente richiedere, per la versione di un tale implemento da 13 mm di diametro, ehm, volevo dire calibro, esattamente 0,12 secondi. Ovvero 45 centimetri, prima dei quali, l’energia cinetica sviluppata dal mini-razzo è totalmente trascurabile. Ovvero in linea teorica, la vittima della rapina succitata avrebbe potuto mettere la mano direttamente di fronte alla canna dell’arma del suo aguzzino, fermando il colpo con la sola forza delle sue mani. Il che costituiva un problema niente affatto trascurabile, per un’arma concepita per la difesa personale come una pistola. Non che le versioni a canna lunga dello stesso metodo, in effetti, fossero del tutto prive di limitazioni…
Fucili dal futuro: è finita l’epoca dei bossoli e i caricatori?
Armi capaci d’identificare geneticamente il proprietario che sparano munizioni tracciabili col GPS, dardi elettrici, biologici, intelligenti. Mirini automatici basati sulle reti neurali. Nanomacchine. Se raffrontiamo ciò che è stato capace di concepire il mondo dell’intrattenimento in materia di armi personali di piccolo calibro, rispetto agli effettivi progressi tecnologici in tale campo, è inevitabile notare come addirittura l’esercito degli Stati Uniti utilizzi, al giorno d’oggi, un fucile di precisione del 1966 (M40) una pistola risalente al 1975 (Beretta M9) una mitragliatrice leggera che è stata sviluppata nel 1976 (M249) e ovviamente l’ormai mitico fucile M16, creato a partire dal ’64 dalla mente operativa di Eugene Stoner, il personaggio di un ingegnere che, se soltanto la cultura occidentale fosse maggiormente simile a quella della Russia sovietica, avrebbe raggiunto prima della sua morte nel 1997 una fama e gloria comparabili a quelle di Mikhail Kalashnikov, l’inventore dell’omonimo fucile usato in tutti i principali paesi dell’ex-Blocco Orientale. La ragione di tutto questo in fondo è facilmente desumibile dal contesto: l’arma da fuoco prototipica, in se stessa, non costituisce una macchina particolarmente complessa. Un mirino, un grilletto, una canna. Una camera di scoppio e un qualche meccanismo utile a inserire i colpi nel meccanismo funzionale a quello scopo soltanto: consegnarli a destinazione nel centro del bersaglio scelto dall’utilizzatore, di volta in volta. Ed è così che i principali margini di miglioramento, da almeno 40 anni a questa parte, hanno trovato ragion d’essere nei campi periferici dell’affidabilità, la solidità, la modularità dei componenti. E non c’è davvero ragione, per riuscire a garantire questo, di reinventare la proverbiale ruota. Non che in molti, si siano risparmiati dal fare un tentativo.
Veniamo, dunque, all’ultimo di questa serie di coraggiosi: Martin Grier è il giovane imprenditore e ingegnere della città di Colorado Springs, contea di El Paso, che lavorando per svariati anni all’interno del suo garage, ha guadagnato recentemente fama internazionale, per il successo riscosso nelle fiere di settore dal suo prototipo del fucile FDM (Forward Defense Munitions) L5, dove il numero sembrerebbe corrispondere, in maniera non-accidentale, al numero di proiettili presenti all’interno di un singolo “blocco” del suddetto sistema operativo. Già, proprio così: blocco, esattamente come quelli della Lego o il videogame Minecraft. Poiché l’idea di fondo, sostanzialmente, ruota intorno a una visione totalmente diversa di quale sia il modo migliore di abbinare, preparare e far esplodere ciascun colpo, con il primo rivoluzionario passo in avanti concettuale (o di lato?) dai tempi in cui vennero inventate le cartucce da Cristiano I, elettore di Sassonia nel tardo XVI secolo. In un campo non a caso d’intrattenimento sportivo, ovvero quello della caccia, proprio perché nei conflitti tra gli umani viene sempre preferito il metodo collaudato a quello avveniristico e difficile da prevedere. Eppure destinato, non di meno, a modificare profondamente il modo stesso in cui sarebbero state combattute le guerre future. Immaginate voi la differenza: niente più polvere per il moschetto ad acciarino, contenuta all’interno dell’apposita borraccia, seguita dalla palla e l’uso di un lungo bastone per premere ogni cosa bene a fondo nell’alloggiamento. Ma un singolo involucro di carta! Già contenente tutto il necessario. Qualcuno avrebbe addirittura potuto pensare di arrivare a caricarlo… Da dietro. E se soltanto quello stesso visionario, a un’epoca così remota, avesse potuto immaginare un progresso metallurgico tale da poter creare munizioni complete, ricoperte da uno strato metallico sottile poco meno di un millimetro (l’odierno bossolo) è ragionevole pensare che la tecnologia delle armi da fuoco avrebbe fatto un balzo in avanti di svariate generazioni. Ed è singolare che in questo momento, lo stesso suddetto Esercito, non-plus ultra di ogni organizzazione bellica mondiale, stia guardando con interesse ad un approccio funzionale che mira, sotto un certo punto di vista, ad aprire il suddetto contenitore e fare a meno della tara. Nella speranza, fondata, che ciò possa permettere di fare fuoco in modo ancor più rapido e preciso. Per non parlare di un altro aspetto decisamente interessante: sparare tutti e cinque i colpi allo stesso tempo, creando essenzialmente la prima versione a lunga gittata di un fucile a canna liscia, il celebrato shotgun.
Si chiamano colpi caseless (senza bossolo) e non sono un concetto nuovo, trovando la loro prima espressione funzionale addirittura nel 1848, quando Walter Hunt, con le sue munizioni “Rocket Ball” pensò di riempire uno spazio cavo ricavato nel retro di ciascun proiettile con polvere da sparo, dovendo tuttavia fare i conti con una potenza decisamente inferiore a quella delle armi convenzionali. Altri esperimenti, quindi, vennero compiuti dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale, e successivamente verso la fine degli anni ’60 dal produttore del Michigan di armi ad aria compressa Daisy, benché sia ragionevole affermare che la prima versione effettivamente utilizzabile in battaglia di un simile concetto sia provenuta nel 1968 dalla fabbrica della Germania Ovest Heckler & Koch, con un’arma che se comparisse in un film di fantascienza, persino oggi, sembrerebbe probabilmente ancor più avveniristica di un blaster di Guerre Stellari. Ma di problemi, ne aveva eccome…