Leggendaria riesce ad essere quell’epoca trascorsa, risalente ad oltre un secolo prima dei nostri giorni, in cui l’uomo imparò il segreto necessario a superare le stringenti catene gravitazionali, sollevandosi liberamente grazie al volo più pesante dell’aria. Gli albori di un sentiero tecnologico, oggi esplorato in ogni valido recesso, in cui aderire a specifici linee progettuali sembra quasi obbligatorio e la creatività può esprimersi soltanto tramite una serie di approcci per lo più marginali. Il che vuol dire essenzialmente, senza nulla togliere alla fantasia degli ingegneri, che ogni “cosa” volante deve necessariamente avere due ali, una coda, una carlinga, superfici di controllo rispondenti a ricorrenti aspettative di maneggevolezza operativa. Pena lo sconfinamento, per quanto sappiamo, in quel reame di aeroplani atipici e collaterali, per loro stessa aspirazione allineati al concetto di un refolo di vento contro la direzione dominante del progresso, largamente condannati all’accantonamento dai princìpi del senso comune. Spostiamo un simile discorso agli ultimi 15, 20 anni, tuttavia e le cose sembrano rispondere a dei crismi sostanzialmente contrapposti. Con la diffusione su larga scala dei sistemi di controllo computerizzati fly-by-wire, anche al di fuori dell’ambito militare e dei costosi aerei di linea o business jet, ma soprattutto l’applicazione di quel valido principio funzionale anche alla configurazione di aeromobili ad ala rotante con multipli rotori di sollevamento. Quadri-, esa-, octo- e quanti-più-ne-hai-cotteri, mutuati dall’ambito dei mezzi radiocomandati e gradualmente trasformatisi, nell’immaginario di una pletora di compagnie startup ed altri simili ambiziose realtà aziendali, nella perfetta soluzione a quel bisogno percepito in tempi odierni, di un efficace sistema di taxi volante per riuscire a superare il traffico dei grandi centri urbani o le strategiche distanze tra i centri abitati. Ambizione con un centro principale negli Stati Uniti e la Vecchia, densa Europa ma che in questi ultimi tempi ha visto l’interesse su scala globale intensificarsi e le proposte moltiplicarsi di pari passo. Con l’ultima offerta, in ordine di tempo sotto i riflettori grazie ai validi traguardi conseguiti, concentrata geograficamente sulla cittadina di Lindsay, Ontario in Canada dove ha sede la Horizon Aircraft del duo padre-figlio Brian Robinson (ingegnere) e Brandon Robinson (CEO) creatrice di velivolo le cui caratteristiche paiono voler congiungere i migliori aspetti di ambo i mondi: quello dell’aviazione tradizionale e dei cosiddetti eVTOL, mezzi a decollo verticale caratterizzati da propulsione elettrica e la configurazione, per l’appunto, del tipico strumento fluttuante maggiormente amato dai cineamatori. A partire dalla motorizzazione stessa, appartenente in modo atipico al contesto dei sistemi ibridi, con vero carburante a bordo e la conseguente capacità di spingersi fino ad 800 Km di distanza, un vero e proprio record di categoria. Quindi per la dote inusitata di poter riuscire letteralmente a nascondere i proprio rotori multipli all’interno delle superfici portanti di un tipo maggiormente convenzionale. Diventando quando necessario, a tutti gli effetti, un “semplice” aereo da turismo, sebbene dall’estetica curiosa che ricorda vagamente il mezzo di trasporto di una classica scuola per giovani supereroi. Con un nome degno di rappresentarli: Cavorite, la mitica roccia inventata da Jules Verne, la cui principale prerogativa era quella di risultare più leggera dell’aria stessa…
decollo
Braccia forti per fischianti carriole: la strana forma dell’aereo che portava gli attrezzi a destinazione
Considerate adesso attentamente, per qualche minuto, la forma tipica di un aeroplano. La perfetta imitazione pratica della natura, in cui ogni recesso, ciascun angolo riescono ad assolvere a una specifica funzione: mantenere l’oggetto in volo. Ali dal profilo calibrato molto attentamente. Una carlinga affusolata, ricordando il corpo idrodinamico di un barracuda. Il muso tondeggiante per deviare l’aria senza generare vortici tangenti alla rotta scelta dal pilota. E la coda, una piramide complessa, responsabile di mantenere il controllo in volo. La similitudine retorica che recita: “Gli aerei? Sono come le automobili, nei cieli” è dunque vera solo in parte, quando si considera il modo in cui il tipico mezzo stradale può disporre di un minimo di tre sportelli, di cui uno dedicato a caricare cose nel portabagagli, grande quanto un lato del veicolo nella maggior percentuale dei casi (le cosiddette hatchback, o berline). Confrontate in tal senso il modo in cui i bagagli vengono inseriti all’interno di un aereo di linea. Uno alla volta, con sforzo significativo da parte degli addetti e tramite l’impiego di macchinari speciali. Forse per questo la Armstrong Whitworth Aircraft, braccio (arm) aeronautico dell’omonima compagnia ingegneristica di Newcastle-upon-Tyne, Inghilterra, aveva cercato lungamente un modo per inserire e spostare in modo semplice dei pallet standardizzati all’interno di una stiva volante, giungendo verso l’inizio degli anni ’50 al brevetto del sistema Rolomat, consistente in pratici rulli di traslazione incorporati nella struttura. Quando perciò nel 1953 il Ministero dell’Aria britannico pubblicò il suo appalto definito Ordine 323, per la creazione di quello che avrebbe dovuto essere un bimotore da trasporto al servizio delle truppe di Sua Maestà, fu del tutto inevitabile l’idea di progettare un velivolo attorno a quel concetto: il carico e lo scarico senza fatica di cose ingombranti tramite l’impiego di soluzioni nuove. Due anni dopo, con l’intercorsa nomina di capo progettista assegnata all’intraprendente E.D. Keen, qualcosa di assolutamente eccezionale aveva dunque cominciato a prendere forma. Una prima iterazione, con i motori aumentati per ragioni ingegneristiche a ben quattro e molte parti riciclate da altri modelli in voga in quegli anni, dell’AW 66, che avrebbe ricevuto in seguito la definizione di Argosy (un termine desueto significante “flotta di navi”). Ma destinato a passare alla storia con il proprio soprannome particolarmente accattivante, quasi degno di un cartone animato, di Carriola Fischiante. Ed a ben vederne le caratteristiche esteriori decisamente fuori dal comune, si tendono a sviluppare chiare ipotesi sulla ragione della sua scelta…
Prima regola per l’aviatore a Boston: non trascurare i gufi che ritornano dal bianco Nord
E allora, “loro” costruirono dei luoghi adatti al popolo del cielo ma che soltanto alcune di queste creature potevano, in determinate circostanze, utilizzare. Tipico dei bipedi di terra: uno stile comunicativo assai complesso, con parole d’ordine particolari da pronunciare all’interno di strumenti che possono amplificare e trasmettere la loro voce. Luci fastidiose, suoni roboanti. Ed una spiccata ed altrettanto chiara preferenza nei confronti degli Alati dalle dimensioni superiori con ali rigide, fatte di ferro. Niente caccia delle arvicole per loro, nessuna concatenazione di predatori e prede. Soltanto l’abitudine di un tipo ereditato, a ingurgitare gli uomini e le donne che in maniera totalmente volontaria, uno dopo l’altro, entrano all’interno di quei giganteschi stomaci soltanto in parte trasparenti. Eppur chiunque, tra noi candidi visitatori, abbia scrutato quegli sguardi oltre la barriera dei rotondeggianti “finestrini” può aver scorto solamente un tipo d’espressione quietamente soddisfatta, di colui o coloro che ben sanno di essere riusciti, per la volta ennesima, ad eludere i precisi limiti dettati dallo schema implicito del mondo. Secondo cui soltanto possedendo un folto manto di piume, avresti la legittima prerogativa di venire fin quassù. Ma cosa vuoi che importi, a loro?
Fin dall’anno della propria fondazione più di un secolo a questa parte, il 1923, l’importante aeroporto di Logan per la città di Boston ha dovuto fare i conti con un significativo problema. Il suo trovarsi giustappunto sulla rotta, ed in effetti al termine di quel percorso, per letterali migliaia ogni anno di quegli splendidi e lucenti uccelli predatori, che la scienza chiama fin dai tempi di Linneo Bubo scandiacus, benché noialtri preferiamo il più evidente appellativo di gufo delle nevi o barbargianni reale. Un aggettivo, quest’ultimo, derivante dalla dimensione assai considerevole di 52-70 cm, abbastanza da farne il più imponente uccello prettamente notturno del continente nordamericano. Ed in conseguenza meramente accidentale di questo, un rischio tutt’altro che trascurabile qualora dovesse finire accidentalmente risucchiato nella turbina di un malcapitato aeroplano. Norman Smith costituisce, dunque, la persona incaricata di prevenire il verificarsi di tale letale contingenza. Naturalista veterano autodidatta che fin dal 1966 ha praticato il volontariato nell’associazione aviaria di Mass Audubun ed a partire dal 1981, chiesto ed ottenuto l’opportunità di effettuare i propri studi sistematici anche all’interno del terreno dell’aeroporto. Un luogo dove, tradizionalmente e come nel resto degli Stati Uniti, si era soliti impiegare la semplice legge dei pallini e della canna del cacciatore, onde provvedere alla regolazione degli ostacoli biologici privi di funzioni pratiche a vantaggio dell’umanità. Il che non avrebbe di certo potuto continuare come nulla fosse, sotto l’occhio attento e con l’involontaria partecipazione di un’individuo in grado di attribuire il giusto valore alla natura…
X-Wing, l’apparecchio creato per colmare il cielo sgombro tra elicottero ed aereo a reazione
In principio era il sogno: l’uomo desiderava spiccare il volo, ed avrebbe fatto qualunque cosa per riuscirci. Palloni aerostatici, viti infinite, ali e motori più pesanti dell’aria. Qualcuno pensò addirittura di gettarsi da una torre, indossando un paracadute. Con la selezione darwinista di taluni metodi a discapito di altri, e pagato il duro prezzo collegato a tale risultato, si giunse dunque ad un pensiero di livello più avanzato in cui ciascun approccio era misurato in base ai suoi valori e in certi casi, essi potevano essere combinati tra loro. Il che ci porta alla risposta che l’Aviazione statunitense riuscì a procurarsi nella seconda metà degli anni ’70, alla problematica di come mettere alla prova i nuovi tipi di rotori elicotteristici non più all’interno di un semplice tunnel del vento, ma in condizioni di utilizzo reale ovvero nei vasti spazi azzurri che separano il terreno dagli strati superiori dell’atmosfera. RSRA (Rotor Systems Research Aircraft) era il nome del progetto che vide in prima battuta coinvolte diverse aziende fornitrici, benché pochi nutrissero dubbi in anticipo sul fatto che a vincere sarebbe stato ancora una volta il principale specialista nazionale del volo con ala rotante, l’azienda aerospaziale fondata 50 anni prima da Igor Sikorsky. Che aveva già creato mezzi ibridi, ma mai portando tale filosofia progettuale fino a tali, estreme conseguenze. La prima iterazione del concetto era già stata esplorata, in effetti nel 1964 col modello S-61F, un apparecchio costituito dal classico elicottero di ricognizione navale SH-3A Sea King, modificato tramite l’aggiunta di due motori a reazione Pratt & Whitney J60-P-2, oltre a una coda più grande e stabilizzatori prelevati da un Cessna T-37. Ma benché i committenti avessero incoraggiato inizialmente un analogo reimpiego di componentistica esistente per l’RSRA, allo scopo di contenere i costi, la Sikorsky determinò ben presto che un velivolo capace di mantenersi in aria tramite dei motori jet e/o un rotore dalle caratteristiche estremamente variabili avrebbe dovuto avere delle caratteristiche aerodinamiche create ad-hoc. Il risultato di tale studio erano stati dunque l’S-72 e l’S-68, due mezzi rispettivamente dotati di pale contro-rotative ed un tradizionale rotore di coda, che esploravano la combinazione di fonti di portanza differenti, ottenendo nel contempo dei vantaggi prestazionali. Tanto che il secondo riuscì notoriamente a raggiungere la velocità notevole di 360 Km orari. Il che fu la fonte dell’idea ulteriore, di mettere alla prova l’idea di un letterale eli-aereo, creato per combinare i migliori vantaggi di entrambi i mondi, massimizzando in questo modo la sua versatilità. Che il risultato fosse destinato ad anticipare nome di una delle più famose astronavi di Guerre Stellari, fu più che altro un caso. O magari no, chi può dirlo…