L’utopica monorotaia Cabinentaxi, sistema di trasporto autonomo degli anni ’70

Effimeri sono i progetti, e così le grandi costruzioni che non svolgono funzioni chiare in modo quotidiano o quasi. Ogni cosa, nell’odierna società industrializzata, è il prodotto di specifiche necessità evidenti. Venute meno le quali, basterà la mera brezza del mattino a trasportare via i piloni, le componenti strutturali, persino i complicati dispostivi. Altrimenti, come spieghereste l’esperienza di Tim Traveler, viaggiatore ed autodefinito nerd di YouTube, all’ingresso in uno sgombro campo nei dintorni della cittadina tedesca di Hagen, incuneato tra una strada di scorrimento ed i binari di una ferrovia del tutto convenzionale. Importante qualifica quest’ultima vista l’effettiva natura di ciò che in mezzo all’erba campeggiava, appena una generazione e mezzo fa, soverchiando ogni albero e le poche abitazioni situate sotto la linea dell’orizzonte. Dal punto di vista morfologico, una gigantesca pista per le automobiline. Ma da quello sostanziale o filosofico, una ferrovia sopraelevata. TUTTA la ferrovia, nei suoi complessivi 1,9 Km interconnessi in tre stazioni, dove passeggeri largamente immaginari avrebbero potuto, un tempo, raggiungere le proprie case o luoghi di lavoro non del tutto esistenti. Questa l’idea in parole povere, delle compagnie Demag e Messerschmitt-Bölkow-Blohm, pronte a sottoscrivere il sogno irrealizzabile di una città pulita, priva di traffico in cui il pendolarismo sarebbe potuto diventare uno dei momenti più rilassanti e tranquilli dell’intera giornata. Grazie all’utilizzo della sempre utile, mai meno che intrigante, assolutamente irrinunciabile monorotaia.
Tralasciando adesso l’entusiasmo sventurato di una storica puntata dei Simpson da parte degli abitanti della scapestrata città di Springfield, ci fu d’altra parte un’epoca in cui questa particolare interpretazione del trasporto di massa veniva interpretata come il futuro dei contesti urbani e la perfetta soluzione di ogni tipo di problema. E quel periodo iniziò poco dopo la metà del secolo scorso, quando in maniera non del tutto casuale il pianificatore urbano newyorchese Donn Fichter impiegò ben 14 anni della propria vita, dal 1950 al ’64, per giungere alla pubblicazione del saggio speculativo Individualized Automatic Transit and the City, destinato a diventare la bibbia di coloro che, più di ogni altro, aspiravano a ridisegnare la tipica pianta metropolitana e le funzionali aspirazioni di coloro che la utilizzavano per fare fronte alle proprie esigenze di spostamento. Di cui questa notevole interpretazione, in un frangente ormai da tempo restituito alla natura, fu per lungo tempo una delle più tangibili versioni visitabili e apprezzabili da amministratori, sindaci e assessori delle principali capitali europee e statunitensi. Inclini a dimostrare con imprescindibile enfasi tutto quel condivisibile entusiasmo, per un sistema che il mondo non aveva mai neppure immaginato prima di quel momento. Ora se soltanto uno di loro avesse scelto, in ultima analisi, di acquistarlo…

L’effettivo funzionamento della creazione ingegneristica tedesca, definita in modo molto descrittivo Cabinentaxi (Cabintaxi per i parlanti anglofoni) era d’altra parte un qualche cosa di assolutamente affascinante e totalmente risolutivo, in molte circostanze ipotetiche della sua installazione futura. Così proposto nell’installazione dimostrativa a partire dal 1973, esso risultava molto meno costoso rispetto alla posa in essere della stragrande maggioranza delle linee metropolitane, trovando collocazione sopra, invece che sotto o fianco delle strade asfaltate per uso da parte dei pedoni e gli automobilisti di superficie. Potendo fare affidamento su un singolo binario sospeso, dove le “cabine” potevano spostarsi a seconda delle scelte fatte in fase d’installazione, sopra, sotto o agganciate lateralmente a un simile percorso relativamente leggiadro. L’infrastruttura in se d’altronde, notoriamente l’elemento meno esteriormente gradito e spesso giudicato impraticabile per simili proposte nel mondo dei trasporti, era mediamente meno stretto ed alto di quello di qualsiasi altra monorotaia costruita fino a quel momento, complice anche l’utilizzo di soluzioni tecnologiche innovative. I singoli vagoni indipendenti, offerti in questa fase di prototipo con versioni da 6, 12 o 18 passeggeri, erano perciò spinti da un’accoppiamento di motori lineari asincroni, alimentati rigorosamente dall’energia elettrica, e con un elevata rapidità di accelerazione e frenata. Doti niente meno che fondamentali visto come fossero capaci di marciare a notevole vicinanza di uno dall’altro, con appena un secondo e mezzo di distacco dal paraurti al predellino posteriore dell’apparecchio antistante. Senza particolari margini per l’errore umano poiché, invero, non sarebbe stato affatto la mano umana, a guidarli. Descritta occasionalmente come la versione orizzontale di un complesso sistema ascensoristico, la creazione Demag/MBB veniva dunque fornita completa di una logica informatizzata, assolutamente all’avanguardia per gli anni ’70, capace di leggere ed interpretare il punto di partenza e la destinazione desiderata da ciascuno dei passeggeri che salivano a bordo. Trasportandoli, con il minor numero di fermate possibili o addirittura nessuna, da un punto A ad un punto B all’interno della rete ferroviaria definitiva. Tale approccio, reso possibile dal cervello elettrico presente all’interno di ciascuna cabina, coadiuvati da un processore centrale situato al capolinea, rappresentava a tutti gli effetti il mitico Graal del trasporto pubblico, definito dallo stesso teorico Donn Fichter come il Personal Rapid Transit: l’unico strumento che avrebbe permesso agli abitanti cittadini di abbandonare l’automobile, entrando in una nuova fase di civiltà in alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Come potrete facilmente immaginare, all’implementazione delle prime dimostrazioni pubbliche al cospetto della stampa e gli altri media, sembrò subito che il progetto Cabinentaxi potesse riuscire in molte delle sue significative ambizioni.

La prima ed unica città che sottoscrisse un contratto per l’installazione in tempi ragionevoli, tuttavia, fu l’americana Detroit. Almeno in linea di principio, mentre già molti detrattori dall’altra parte dell’oceano iniziarono ad esprimere i propri dubbi in relazione alla proposta tedesca. Il professore dell’Università della Pennsylvania Vukan R. Vuchic, per primo, considerò pubblicamente la proposta tedesca come un sogno logisticamente irrealizzabile su scala superiore, data la quantità eccessiva di cabine e la rete interconnessa di binari dalla complessità troppo evidente. Altri affermarono che il Cabinentaxi non avrebbe mai potuto disporre dei necessari standard di sicurezza ed accessibilità dei tempi odierni, ed a poco servì in tal senso la dimostrazione sempre nei dintorni di Hagen della versione Cabinlift, pensata esplicitamente per lo spostamento dei malati in contesti ospedalieri, con spazio interno previsto per letti di degenza e sedie a rotelle. Fatto sta che le commesse tardarono ad arrivare, mentre il sindaco di Detroit si fece indietro. E con la flessione economica verificatasi a metà degli anni ’70 nella Germania dell’Ovest, il governo decise di tagliare i fondi all’impianto sperimentale. Che dopo cinque anni di operazioni tra il ’73 ed il ’77 venne ben presto chiuso e sottoposto al procedimento di riciclo e riutilizzo senza nessun ulteriore sviluppo del suo pur notevole potenziale. Le miglia percorse complessivamente, a quel punto, erano già 400.000. Nessun altro, nelle decadi successive e fino ai giorni nostri, sarebbe andato mai altrettanto vicino al sogno del vero P.R.T. ed il risultato, caotico, rumoroso, avvelenato dallo smog è attualmente sotto gli occhi di chiunque osservi il mondo con criteri oggettivi. Il che non può esser visto da chiunque come un dispiacere, visti i vantaggi economici e commerciali per i produttori di automobili sempre più imponenti ed ingombranti. Finché non saranno le mere e imprescindibili circostanze, a farsi portatrici del vento necessario del cambiamento.

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