L’incredibile appetito per le alghe della pecora di mare

Nell’isola scozzese di North Ronaldsay, parte del gruppo verdeggiante delle Orcadi settentrionali, il fenomeno ricorrente della bassa marea accompagna i ritmi ed influenza il comportamento dei più numerosi abitanti di quel tratto di terra. Candidi quadrupedi comunemente associati a fattorie ed allevamenti delle valli verdi site nelle aree emerse più grandi, le pecore da queste parti sono infatti inclini a cadenzare i propri ritmi circadiani e digestivi sulla base delle fasi dell’influenza lunare. Ed ogni volta che la sabbia nel bagnasciuga torna ad essere battuta dai raggi del sole, assieme all’organica abbondanza dei rifiuti trasportati dalle onde, esse ritornano a esplorare le propaggini più estreme della Terra. Impegnandosi a fagocitare, un morso dopo l’altro, i capelli aggrovigliate delle sirene.
Gli ovini in questione, membri indiscutibili della solita specie a noi precedentemente nota (Ovis aries) sembrerebbero infatti aver sviluppato un appetito e gli strumenti necessari per riuscire a trarre nutrimento dal secondo tipo di vegetazione, contrapposto agli alberi, l’erba e le piante che siamo soliti vedere nel corso delle nostre scampagnate: esse mangiano, da un tempo estremamente lungo, preferibilmente ed obbligatoriamente le alghe trascinate a riva, soprattutto quando appartenenti al genere Macrocystis o kelp, tradizionalmente usate in questi luoghi per la preparazione del carbonato di sodio o potash. Un’indubbia fonte di sostanze nutrienti e preziosissime vitamine, sebbene sbilanciate dal punto di vista dei metalli chimici ed inclini ad inibire l’assunzione da parte dell’organismo degli erbivori del necessario apporto di rame. Da cui l’alterazione pregressa, nel sistema digestivo delle nostre belanti fabbriche di lana, tale da permettergli di massimizzare l’assunzione di questa sostanza, rendendole inclini ad intossicarsi col consumo reiterato di qualsiasi altro tipo di alimentazione. Una caratteristica talmente rara in natura negli animali di terra, che l’unica altra specie sufficientemente studiata a presentarla è l’iguana marina delle Galapagos (A. cristatus) giunta d’altra parte ad un simile stile di vita per l’effetto esclusivo del proprio ambiente naturale. Laddove la North Ronaldsay sembrerebbe essere stata incoraggiata, almeno in parte dall’influenza e dalla mano operosa dell’uomo. Sebbene studi scientifici recenti abbiano ridimensionato, almeno in parte, tale narrativa. Riconfermando l’inclinazione degli animali ad adattarsi verso determinate pressioni ambientali come un’inclinazione generazionale di lungo respiro, piuttosto che la rapida e spontanea reazione a fattori trasversali dall’impostazione relativamente transitoria. Vedi la costruzione, molto amata da disegnatori di arbitrari confini, di un muro…

Rinomate, oltre che per la loro lana, anche per il gusto di una carne dal sapore insolito e descritto come “simile alla selvaggina” i rappresentanti di questa particolare razza ovina costituiscono ad oggi un’importante icona locale, molto amata dai turisti che hanno iniziato a venire da queste parti dopo l’apertura dell’aeroporto nell’ormai remoto 1934.

La vicenda ufficialmente narrata di questi ovini ha dunque origine dall’alto Medioevo quando, almeno così si dice, gli animali furono portati sull’isola come parte di un insediamento vichingo, per fornire sostentamento ai loro proprietari tra l’occorrenza di una scorribanda e l’altra. Il che parrebbe pienamente conforme alla loro somiglianza genetica alle pecore nord-europee, un gruppo di razze accomunate dal possesso di una coda corta e triangolare e lo sviluppo di corna ricurve. Nonché una dieta ragionevolmente conforme, così come mostrato secondo la leggenda locale in questi freddi lidi, almeno fino all’occorrenza piuttosto recente di una casistica del tutto inaspettata. Ovvero la decisione del laird (lord) locale, sanzionata dal conte delle Orcadi all’interno del suo castello, di dare la priorità esclusiva all’allevamento bovino, riservando i verdi pascoli dell’entroterra esclusivamente alla più imponente e redditizia delle classiche specie animali da fattoria. Era il 1839 dunque, così affermano gli annali, quando venne eretto un lungo e ponderoso muro a secco lungo l’intero estendersi della costa, simile ad un frangiflutti ma effettivamente finalizzato, in maniera pressoché esclusiva, ad impedire la libera circolazione dei quadrupedi al di fuori dell’area ufficialmente deputata. Così che sarebbe stato soltanto allora, dinnanzi alla prospettiva di morire di stenti, che le pecore avrebbero scoperto di poter trarre nutrimento dalle alghe lasciate indietro dall’alta marea. Cronologia alquanto improbabile quando si considera l’effettivo adattamento dei loro organismi, che va ben oltre il semplice adattamento orario della ruminanza, lasciando intendere un periodo pregresso di adattamento considerevolmente più lungo. E d’altra parte quale popolazione isolana, di fronte alla possibilità di continuare a sfruttare a tempo perso un intero gregge di pecore, avrebbe deciso piuttosto di condannarlo a trasformarsi in cibo per squali? Tanto che in effetti nel marzo del 2020 sarebbe arrivato, finalmente, uno studio dell’Università di Glasgow in grado di confermare scientificamente l’esistenza pregressa molto più lunga di questa inclinazione gastronomica animale. Grazie all’analisi degli isotopi presenti nei crani e nei denti di resti di pecore ritrovati in vari siti archeologici delle Orcadi, confermando la loro sussistenza grazie ad una dieta pressoché esclusiva di alghe almeno dal quarto millennio a.C. Il che non vuole in alcun modo sminuire l’unicità ed il valore della razza delle North Ronaldsay, attestata altrove unicamente in un singolo gregge sull’isola di Auskerry, con tutto il suo comparto di caratteristiche inerentemente primitive ed esclusive della loro identità genetica distintiva. Proprio grazie al muro che la avrebbe mantenute separate, nel corso dell’ultimo secolo, dalle specie considerate di maggior pregio delle Merino o Suffolk tenute dagli allevatori locali, mantenendo i distintivi tratti tra cui le dimensioni minute, la resistenza agli elementi avversi ed una lana rigida ma versatile, suddivisa in un doppio mantello capace di restare asciutto nella parte interna. Capacità catalogate e mantenute in alta considerazione oggi da enti come il Rare Breeds Survival Trust (RBST), il North Ronaldsay Trust e la Orkney Sheep Foundation, ciascuno operativo a suo modo al fine di tutelare l’esistenza continuativa di una razza assolutamente unica nel panorama mondiale.

Il consumo di alghe da parte delle pecore di North Ronaldsay è stata vista in epoca recente come una propensione potenzialmente utile a combattere il riscaldamento globale, qualora tale fonte di nutrimento risultasse applicabile anche agli animali utilizzati nel sistema globalizzato dell’allevamento intensivo. Esperimenti in tal senso, tuttavia, si trovano tutt’ora allo stadio preliminare.

Attività che parrebbe per qualche ragione collegata, in modo alquanto indissolubile nella mente degli abitanti locali, al mantenimento e riparazione continuativa della lunga muraglia risalente al XIX secolo, opera diventata difficile da sobbarcarsi a causa della significativa riduzione della popolazione dell’isola, passata dalle circa 500 persone di allora a poco meno di un decimo di tale cifra. Egualmente incline a tutelare, tosare ed occasionalmente cucinare questi animali per lo più lasciati allo stato ferale, sebbene manchi semplicemente la manodopera per gestirne allo stesso modo i movimenti e dar seguito agli spostamenti tradizionalmente indotti delle femmine incinte verso i prati dell’entroterra, mentre le loro controparti trovano ospitalità temporanea nei nove tradizionali punds (recinti) anch’essi parte dell’opera muraria che ha precorso di poco l’inizio dell’epoca contemporanea. In un momento del calendario, all’apice dell’estate verso i mesi di luglio ed agosto, denominato a partire dall’anno 2016 come Sheep Fest riuscendo ad attirare una certa quantità di persone dalle isole vicine, inclini ad aiutare con l’impresa continuativa nel tempo di restauro della fondamentale muraglia di North Ronaldsay. Forse la più rappresentativa opera creata dall’uomo ad essere collegata ad un insieme di fenotipi evolutivi, possibilmente accentuati proprio a partire dai momenti successivi alla sua creazione. Riconfermando l’impressione, spesso fatta passare in secondo piano, secondo cui anche la nostra intromissione possa essere capace, in determinante circostanze, d’incrementare e favorire la biodiversità animale. Un’idea più problematica di quanto si potrebbe pensare, una volta che se ne analizzano le remote ed implicite implicazioni finali.

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