600 metri quadri in 140 ore: i parametri di un data center nato dalla stampa tridimensionale

Recita un famoso detto americano, utilizzato anche in ambito militare dai Navy Seals “Lento è fluido e fluido, è veloce.” Così come in edilizia, risparmiare sui materiali può significare spendere di più alla fine, per risolvere i problemi in corso d’opera, tamponare i barcollamenti, effettuare l’opportuna manutenzione. Non si tratta di sillogismi bensì conseguenze molto pratiche del cosiddetto triangolo della gestione del progetto: “Veloce, economico, efficace: scegline due” giacché vi sono compiti per cui non è possibile trovare scorciatoie; a meno di riscrivere, sostanzialmente, le palesi regole immanenti della situazione. Eliminando alla radice ostacoli, ancor prima di tentare d’aggirarli. Molti meno potranno essere gli imprevisti, ad esempio, in un lavoro d’importante caratura se le persone coinvolte dovessero essere di meno. Il che suscita l’imprescindibile domanda: chi sarà, a quel punto, ad occuparsi delle mansioni? Automatizzazione, la risposta. Robotizzazione il punto fermo. “Tridimensionale” l’aggettivo attribuito in modo per lo più arbitrario alla necessità di fare bene le cose. Che è poi quel tipo di effettivo termine ad ombrello, come virtuale, artificiale e innumerevoli altri utilizzati in modo comprensivo nei confronti di un’industria. Destinata, come non sempre capita, a lasciar diffondersi cerchi concentrici nell’increspata superficie del commercio contemporaneo. Strutture costruite, neanche a dirlo, con una sorta d’efficace “miscela” cementizia. Gentilmente offerta nel presente caso dalla Heidelberg Materials, compagnia del centro urbano omonimo, situato nello stato del Baden-Württemberg, ove alcun bisogno può sussistere ancor più di questo: l’anelito moderno, a più livelli, per edifici privi di finestre ma efficientemente refrigerati. Ovvero Data Center, l’imprescindibile forziere dei computer, punto di partenza delle informazioni o l’energia di calcolo impiegata per la grande maggioranza di quel mondo parallelo ed online. Ma costruito in modo differente, caso vuole, da qualsiasi altro che sia stato inaugurato nel presente ambito globale. Proprio perché in termini di mero utilizzo, l’unica forma economicamente sensata per simili strutture di un singolo piano è il rettangolo. A meno che per realizzarle ci si trovi a utilizzare lo strumento che costituisce al tempo stesso capocantiere, bassa manovalanza ed architetto intento a supervisionare. Da ogni punto di vista rilevante, un ugello sopra dei binari perforati. La puntina del giradischi, ove un simile strumento sia piuttosto figlio del bisogno di portare a compimento la materialistica sinfonia. Di un palazzo nato dal bisogno di risolvere l’idea…

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Una prospettiva storica sul nuovo trionfatore tredicenne al gioco del Tetris

Il carattere di un anno viene spesso definito dall’estendersi di eventi significativi, in grado di dare un carattere all’estendersi della costante concatenazione di eventi. Il che può essere talvolta soggettivo, sulla base delle cose ed argomenti che ciascuno è incline a considerare, per i suoi trascorsi, gli interessi e le inclinazioni personali, davvero importante. Soltanto non può essere capitato tanto spesso, persino all’interno di ambienti estremamente specifici o settori di nicchia, che un fondamentale cambiamento di paradigma possa verificarsi tre giorni dopo l’ingresso in un nuovo ciclo solare, per il fondamentale contributo di qualcuno che, allo stato attuale dei fatti, ne ha vissuti già soltanto poco più di una decina. Così giusto ieri, il 4 di gennaio hanno squillato i corni degli araldi digitali: il player possibilmente avviato a una brillante carriera professionale, Blue Scuti (al secolo Willis Gibson) aveva “vinto” a Tetris, ottenendo un risultato che non soltanto era stato ricercato dalla comunità di coloro che avevano dedicato una parte significativa della propria esistenza al gioco, ma esulava addirittura di gran lunga dai margini originariamente previsti nel 1985 dal creatore Alexey Pajitnov ed i programmatori della versione usata in ambito competitivo di quel videogame, quella uscita 4 anni dopo per l’ultra popolare sistema NES di Nintendo. Il che potrebbe anche significare, contrariamente alle aspettative che derivano dalle premesse, qualcosa di totalmente contrario alle comuni aspettative. In quanto determinato, nell’effettiva realtà dei fatti, da una singola stringa difettosa nel codice sorgente di questo passatempo che, in una maniera o nell’altra, potrebbe aver influenzato l’intera storia del media digitale interattivo. Già perché “vincere” o “battere” Tetris significa, essenzialmente, mandarlo in tilt. Comprometterne il fondamentale funzionamento, causando un blocco irrecuperabile che necessita il riavvio del sistema! Qualcosa di assolutamente contrario al principio stesso del gaming competitivo in epoca moderna, basato su margini precisi imposti all’effettiva abilità dei partecipanti. Eppure paradossalmente, in qualità di limitazione pseudo-fisica inerente, molto più estrema di quanto alcun progettista avrebbe mai potuto esplicitamente integrare nelle proprie soluzioni procedurali. Il che trova riscontro d’altra parte in un ampio ventaglio degli originali giochi arcade degli anni ’70 ed ’80, concepiti per funzionare a gettoni all’interno d’istituzioni come bar, pub o sale d’intrattenimento e antecedenti al concetto stesso di una schermata finale. I quali avrebbero semplicemente garantito la conclusione della partita, e conseguente inserimento del token successivo, tramite l’aumento esponenziale della velocità dei propri singoli componenti, fino all’oggettiva impossibilità di sopravvivenza. Un momento calcolabile in maniera matematica nel caso di Tetris per il Nintendo, come il livello 29, a causa dei limiti artificialmente imposti nello spostamento e rotazione dei pezzi durante la loro ultra-rapida discesa gravitazionale, e conseguente accumulo senza la possibilità di farli scomparire in assenza del corretto accatastamento. Una barriera presumibilmente invalicabile che il mondo avrebbe visto invece superare già nel remoto 2011, quando l’infinita sveltezza delle mani dell’allora trentaquattrenne Thor Aackerlund (e la mente che riusciva a guidarle) trovò finalmente un modo per spingersi oltre…

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Ma le anatre meccaniche digeriscono il grano ad orologeria?

Nella versione alternativa della Rivoluzione Francese presentata all’interno del recente videogame Steelrising l’assemblea degli Stati Generali riunitasi per la prima volta nel 1789 sarebbe stata il primo capitolo di un incubo di proporzioni inusitate. In una Parigi devastata dalle sommosse e ribellioni, con barricate ad ogni incrocio e la stragrande maggioranza dei cittadini rifugiatisi all’interno delle proprie abitazioni, creature mostruose soltanto in parte antropomorfe avrebbero vagato per le strade, in un vortice di archibugi, elettriche scintille e lame insanguinate. Frutto dell’unione sacrilega con le anime dei morti intrappolate dal sortilegio di una figura storica vicina al Re di Francia (probabilmente conoscete il nome di quell’occultista) le macchine pensanti di Jacques de Vaucanson hanno preso vita e sono in cerca di soddisfazione. È lo scenario del metallo che sovrasta ogni cosa, tanto spesso presentato come l’alba delle macchine, oppure la spietata rivincita di Prometeo. Ma ciò che resta forse maggiormente impresso al giocatore, al termine della disordinata e qualche volta confusionaria avventura vissuta nei panni di uno di questi stessi essere, potrebbe individuato nella sfida finale al centro di tutto questo: il vorace demone di forma vagamente aviaria, le piume della coda a dipanarsi come quelle di un ventaglio, le ali spalancate che si aprono e richiudono ritmicamente. La versione sovradimensionata di un qualcosa di altrettanto a suo agio nei laghetti della reggia di Versailles, ovvero quella che la gente chiama anatra, quando è intenta a lanciargli il pane. Fantasia? Strana iniziativa dei progettisti? Ulteriore ed ancor più curiosa reinterpretazione della Storia? Forse, in parte. Ma anche un valido riferimento a ciò che fu il più grande capolavoro di una figura effettivamente vissuta. La più perfetta rappresentazione di una serie di processi biologici mai realizzata fino a quel momento. Parlando della quale lo stesso Voltaire avrebbe scritto, non senza un certo grado d’ironia: “Tutte le grandi conquiste della Francia potrebbero oggi essere state dimenticate. Se non fosse stato per l’anatra che defeca.”
Notevole, nevvero? Stiamo dopotutto parlando di una di quelle figure di grande ingegneri e costruttori di meccanismi, per lungo tempo ignorati durante la propria vita e all’improvviso diventati popolari in epoca Barocca, quando il frutto del loro lavoro iniziò ad attirare l’attenzione dei ricchi e dei potenti, diventando il fondamento di un particolare tipo d’intrattenimento: essere soavemente, profondamente meravigliati. Così come avrebbe potuto permettergli di ritrovarsi questo decimo figlio di un fabbricante di guanti di Lione, che avendo vissuto in un prevedibile stato di relativa indigenza i primi anni della propria vita a partire dal 1709, cominciò ben presto ad essere istruito per vestire il saio sotto l’egida salvifica di Madre Chiesa. Il che avrebbe incluso, in base agli aneddoti narrati in alcune delle sue discordanti biografie redatte a posteriori, la visita reiterata alla parrocchia di riferimento mentre la madre provvedeva a confessare i suoi peccati, con conseguente lunga attesa sui genuflessori di quell’imponente edificio. Tempo perso per chiunque, forse, ma non lui, che lo trascorse studiando attentamente il funzionamento di un grande orologio esposto per la convenienza dei fedeli, che ad un certo punto sarebbe stato in grado di riprodurre con le proprie stesse mani, da assoluto autodidatta, all’interno della propria casa. Non poteva avere, all’epoca, più di 10 anni e suo padre era già morto da tre. Entrambe validi ragioni, secondo la mentalità dell’epoca, per accelerare la sua marcia educativa verso il convento…

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Il ponte olandese creato tramite l’impiego di un sistema robotico di stampa in 3D

L’individuo che cammina lungo i canali di Amsterdam ha molte cose verso cui focalizzare la propria attenzione. Le ordinate file di case tradizionali dalle finestre con infissi bianchi, con forma slanciata, vista sul canale e tetto spiovente. Le piste ciclabili il cui traffico umano sostituisce almeno in parte quello, rumoroso e maleodorante, di migliaia di autoveicoli in viaggio verso destinazioni non sufficientemente distanti. Per non parlare delle tipiche mete del turismo, dei cosiddetti “coffee” shop ed il quartiere a luci rosse De Wallen, sulle cui vetrine convergono gli occhi dei curiosi che talvolta scelgono di diventare dei clienti. Ed è proprio nei dintorni di un simile luogo ragionevolmente unico al mondo, sopra lo spazio riflettente del canale Oudezijds Achterburgwal, che quegli stessi sguardi avranno da oggi l’occasione d’incontrare la forma di una struttura estremamente inaspettata, degna di figurare a pieno titolo all’interno del design fantastico di un mondo videoludico del tutto digitalizzato: trattasi di un ponte, creato grazie all’uso di un singolo tipo di materiale: l’acciaio. La cui struttura quasi aereodinamica, nonostante questo, sembra fluire in modo naturalistico neanche si trattasse di una pianta. Benché risulti essere nei fatti la creazione diretta di quel massimo pilastro dell’industria, creature robotiche massimamente asservite alla volontà e visione pratica dell’uomo. Che non sarebbero neanche state poi così particolari, trattandosi delle tipiche braccia robotiche impiegate, ad esempio, nell’assemblaggio dei sopracitati autoveicoli, se non fosse per l’estrema finalità evidente che è riuscita a realizzarsi tramite movenze precise, frutto di una programmazione del tutto priva di precedenti. E si tratta giustamente di un record del mondo, o per meglio dire la coccarda di chi riesce ad arrivare per primo, attribuita nelle cronache dei nostri tempi a niente meno che l’azienda locale MX3D, famosa per la creazione e messa in opera di un sistema produttivo assolutamente particolare. Facente affidamento su quel software proprietario che viene chiamato sul sito della compagnia Metal XL, non dissimile nell’interfaccia a qualsiasi altro tipo di strumento per la modellazione virtuale di un oggetto in puro 3D. Ma capace d’istruire, al termine della realizzazione a schermo, macchine che diano il proprio contributo tangibile al progetto, invero percorribile, da un numero contemporaneo d’individui che potremmo definire superiore a quello di un’intera piccola piazza cittadina.
Ed è un tipo di ponte, quello che possiamo qui riuscire ad ammirare, del tutto in grado di distinguersi dall’aspetto tipico di una simile infrastruttura urbana, visto l’alto grado di sofisticazione organica dei suoi diversi componenti, ciascuno l’apparente risultanza di precise scelte artistiche da parte dell’artista creatore, quel Joris Laarman (nascita: 1979) già nome principale di mostre internazionali presso luoghi come il MoMA di New York, il V&A di Londra ed il Centre Pompidou di Parigi. Un uomo, una visione, validi strumenti utili per dargli forma. Tridente niente meno che essenziale all’epoca contemporanea dei processi, attraverso cui la semplice ripetizione di una serie di gesti non risulta più essere davvero abbastanza. Ed ogni cosa sembra succedere per via di una ragione, in un rapporto reiterato di cause ed effetti, fin troppo slegati dal bisogno di riuscire a soddisfare le necessità del quotidiano. Il ponte della MX3D del resto, così sorprendentemente privo di un appellativo ufficiale (quasi come se la sua mera esistenza fosse sufficientemente atipica da definirne l’esistenza) lungi dall’essere un’opera del tutto scevra di funzioni addizionali all’esistenza, risulta inoltre caratterizzato da una vera e propria rete sensoriale di sorveglianza, utile alla monitorizzazione in tempo reale delle forze e sollecitazioni attraverso il procedere dei giorni. Al fine di perfezionare ulteriormente, per quanto possibile, le scelte progettuali messe in atto fin dal primo momento della sua ormai remota concezione…

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