L’alta insegna di cemento che protegge l’astronave cattolica del Minnesota

Forti mura grigie costruite sulla base del criterio di resistenza. Dove domina la forma di montanti parabolici ed interconnessi, traforati per permettere alla luce di passare attraverso. Questo è il “bunker” con la forma di possente parallelepipedo, la cui facciata principale orientata a nord avrebbe ricevuto poca luce negli orari più prossimi all’alba e al tramonto. Se non fosse stato grazie all’edificazione della propria controparte, un insolito edificio piatto e largo la cui costruzione si avvicina largamente a quella di un pannello che voleva accogliere messaggi pubblicitari o slogan politici di qualche tipo. Se non fosse per la sua natura totalmente scarna concepito per riflettere i raggi solari all’interno, dominata unicamente dalla sagoma di quattro campane. Ed al di sopra di queste, una croce tridimensionale che passa attraverso.
Siamo largamente abituati allo stereotipo statunitense, che individua cattedrali nel deserto nella guisa d’imponenti meraviglie, costruite per ragioni differenti lungo il ciglio delle lunghe arterie cementizie, strade interstatali che conducono attraverso il vasto nulla. Per essere il singolo paese maggiormente popoloso d’Occidente, in effetti questa confederazione che occupa in larghezza buona parte di un’intero continente ha larghi spazi dove la natura riesce a farla da padrona ed altre zone intermedie, per lo più rurali eppure oggetto di maestosi ed imponenti progetti edilizi. Fabbriche, centrali elettriche, centri commerciali, opere d’arte. Oppure luoghi dal significato spirituale eminente, come punti di convergenza d’intere comunità religiose destinate a crescere nel tempo. Una di questi fu senz’altro, già pochi anni dopo la sua nascita, il convento benedettino di San Giovanni, fondato a sud di St. Cloud con l’arrivo di cinque rappresentanti della congregazione americana-cassinese dalla Pennsylvania, nella cosiddetta Beautiful Valley, durante l’anno del Signore 1856. Il che avrebbe portato nel giro di un paio di decadi, mediante l’investimento di facoltosi devoti, alla costruzione del cosiddetto quadrangolo, dominato da una svettante chiesa con due campanili gemelli. In un luogo destinato a ricevere nel tempo l’appellativo di Collegeville, per la prestigiosa università cattolica che avrebbe aggiunto nel 1883 i propri edifici al decentrato complesso sul ciglio dell’Interstatale 94. Il che avrebbe visto aumentare drasticamente verso l’inizio del secolo il numero dei membri della congregazione presenti in un dato momento, motivando il progressivo acquisto di ulteriori terreni e l’edificazione di strutture architettoniche addizionali. Verso una direzione destinata a raggiungere il punto di ebollizione all’inizio degli anni ’50 del Novecento, nel momento in cui diventò letteralmente impossibile pronunciare una messa a cui fossero presenti tutte le letterali centinaia di membri attivi dell’istituto allo stesso tempo. Allorché l’intraprendente abate Baldwin Dworschak, dovendo scegliere una strada per arginare il problema, decise di percorrere una strada che praticamente nessun altro avrebbe scelto al suo posto: indire un concorso, chiamando a parteciparvi architetti di larga fama internazionale, affinché una commissione dei suoi confratelli potesse trovarsi a valutare le diverse opzioni a disposizione. Il risultato sarebbe stato qualcosa che nessuna istituzione religiosa di tale entità, fino a quel momento, aveva potuto desiderare di possedere prima di quel particolare momento…

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L’oscuro dedalo della città di Minneapolis e il rischio che costituisce per i suoi abitanti

Due città gemelle lungo il corso del Mississippi. Il suono dei secoli riecheggia sotto il guscio urbano, quello strato d’asfalto eccessivamente sottile. Ma non sono catacombe o fognature, tunnel dei contrabbandieri, scantinati a sostenere l’ombra inversa della megalopoli del Minnesota, circa tre milioni di persone raggruppate in senso amministrativo nei centri abitati Minneapolis e St. Paul. Bensì un grande vuoto che ha creato la natura, al termine dell’ultima glaciazione, quando i ghiacci quasi-eterni sono stati liquefatti dalle mutazioni della temperatura terrestre. Lasciando spazi cavi nella pietra d’arenaria americani, lungamente inesplorati da anima viva. Finché millenni a questa parte, gli antenati dei gruppi tribali degli Ojibwe e Dakota non si stabilirono al di sopra di essi. Associandoli al regno del sovrannaturale, poiché se un segreto risiedeva in tale labirinto, esso non poteva che essere appannaggio del divino. Giunti presso tali lidi quindi gli Europei gettarono le fondamenta di una nuova e inconsapevole realtà. Mentre il sottosuolo, gradualmente, finiva per essere dimenticato. Tranne per qualcuno che, persino oggi, corre il rischio necessario per scoprire sopite verità. Ed il risveglio ancora possibile, di un grande male.
La caverna di Satana, come viene chiamata dai locali, è un pertugio con l’ingresso situato presso l’isola di Nicollet, terra emersa circondata dai palazzi in mezzo al fiume nordamericano più famoso, concettualmente non così diversa dalla nostra isola Tiberina. Un lungo tunnel riscoperto ufficialmente nel 1989, quando un gruppo di coraggiosi esploratori, sollevando il tombino in un giardino privato, si inoltrato con la schiena curva per molte centinaia di metri, fino alla camera segreta dove qualcuno, in passato, aveva scolpito dozzine di volte il volto del malefico Avversario e ribelle dei Cieli. Forse per goliardia, magari per fede, quando ancora la pressione negativa dei tubi fognari adiacenti risultava sufficiente a mantenere le acque nere lontane da quel mondo sotterraneo, oggigiorno fetido al pari dell’Inferno che avrebbe dovuto idealmente rappresentare. Nulla più che un misero antefatto, dinnanzi a ciò che il più famoso membro della spedizione, l’idrogeologo del Servizio Parchi Greg Brick, avrebbe considerato per gli 11 anni successivi la missione più importante della sua carriera: ritrovare la quasi-leggendaria fonte della piccola cascata di Minnehaha, una risorsa potenzialmente utile, indubbiamente affascinante, di cui aveva parlato un articolo di giornale risalente al 1931, ponendola in fondo a quella che all’epoca veniva definita la Farmers & Mechanics Bank Cave, uno spazio sotterraneo “con la forma di una ciotola invertita” successivamente mai più discusso, poiché le autorità temevano che tra gli abitanti, sapendo quanto fosse vuoto il suolo sotto le proprie dimore, potesse diffondersi un senso di disagio o persistente terrore. Per non parlare del rischio, sempre presente, che giovani scapestrati perdessero la vita, nel tentativo di destare gli antichi segreti…

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L’inaffondabile sistema semovente per pescare nei laghi ghiacciati del Minnesota

È oggettivamente semplice notare come la specifica tolleranza di ciascuno nei confronti dell’inarrestabile ciclo stagionale sia inversamente proporzionale alla latitudine ove si risiede, rendendo i paesi inerentemente più gelidi più difficili da vivere nel corso dei lunghi ed oscuri mesi invernali. Sebbene superata una precisa soglia intellettuale, l’assenza di calore possa costituire l’anticamera per un certo tipo di situazioni ed esperienze, inerentemente caratterizzate da un elevato livello d’interesse per coloro che, negli anni, hanno imparato ad apprezzarle. Una di queste è senz’altro la pesca attraverso il ghiaccio, molto più che un semplice hobby o passatempo, bensì letterale stile di vita per coloro che possiedono la chiave d’interpretazione dei sussurri che riecheggiano nelle spoglie distese, di quella che in autunno era ancora la mera superficie di un lago. Mentre in questo finire del 2022 uno degli inverni più gelidi a memoria d’uomo cala sugli Stati Uniti settentrionali, dunque, un segreto senso d’aspettativa cessa di essere spiacevolmente insoddisfatto per le preferenze di un particolare strato della popolazione. Ed il suono di un motore non così potente, ma stranamente vicino al livello del terreno, ritorna lievemente a riecheggiare per le valli candide di un mondo nell’ovattata attesa di essere immediatamente riscoperto. Pratico, svelto, pronto all’uso. A patto di disporre di un rimorchio per portarlo fino al suo ambito elettivo d’impiego, una casa vicino alla costa di un lago incline a congelarsi, oppure la pazienza necessaria a percorrere il tragitto fino a un tale imprescindibile punto d’interesse. Entro una ventina di miglia, s’intende, poiché questa è l’autonomia concessa dal suo piccolo serbatoio all’insolito veicolo dal nome di Wilcraft, essenzialmente l’approccio inverso a quello usuale per un tipo di mezzo anfibio. Laddove non si tratta, in chiari termini, di un’automobile capace di galleggiare, quanto piuttosto una barca dotata di quattro ruote, come esemplificato dall’acronimo facente parte del suo nome che significa Water, Ice, Land (Acqua, Ghiaccio e Terra) dando esplicita espressione programmatica agli effetti possibili campi d’impiego. Tutti e tre nel corso della stessa escursione, così come capita fin troppo di frequente nel corso di una di queste complicate escursioni. Capitava in effetti da queste parti, ovvero non soltanto nello stato del Minnesota da cui proviene l’inventore del veicolo in questione, quanto in effetti l’intera fila di quelli posti a ridosso dei Grandi Laghi, il confine Canadese e al di là di questo, che annualmente pescatori sprovveduti s’inoltrassero coi propri SUV o ATV sopra la superficie solidificata di uno specchio d’acqua, con canna da pesca e trapano elettrico facenti parte della propria attrezzatura. Soltanto per scoprire, rovinosamente, come il ghiaccio non fosse poi così compatto quanto era incline a sembrare, finendo per mettere in pericolo se stessi e gli altri, o finendo nella peggiore delle ipotesi per annegare perdendo la vita. Da qui l’idea di Tom Roering, concepita per la prima volta all’apice degli anni Novanta, per la creazione di qualcosa che potesse al tempo stesso portare gli aspiranti pescatori a destinazione, proteggerli dal freddo e da loro stessi. Non permettendogli, sostanzialmente, di fare la fine di cavaliere Teutonico alla battaglia sulla superficie ghiacciata del lago Peipus. Con buona pace degli spiriti delle Nixie, Selkie, Naiadi o altri mitologici uccisori per affogamento del folklore irlandese…

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Il significato pratico e spirituale di un incontro con il lupo nero del Minnesota

La ragione per cui la natura è giudicata “semplice” o “selvaggia” va generalmente ricercata nel rapporto molto umano tra le immagini e il pensiero, ovvero l’interpretazione pratica delle diverse contingenze situazionali, che realizzano la propria essenza nel susseguirsi delle passeggiate o escursioni di ciascun giorno della nostra vita. Con i presupposti più inimmaginabili e distinti, vedi quello dichiarato dallo stesso Conrad Tan, fotografo del cosiddetto stato dei 1000 laghi, che volendo visitare il favoloso parco naturale dei Voyageurs, dice ora di averlo fatto per lo scopo di “Poter guardare un wallpaper che lui stesso aveva creato” unendo in questo modo l’utile al dilettevole, ovvero l’informatica del mondo moderno all’ancestrale fascino della natura, intesa come il tipo di soggetti, animali e inconsapevoli, che meglio riescono a far bella figura tra le fronde digitalizzate e gli altri pixel che compongono il tipico desktop dei nostri grigi PC. Il che non toglie la possibilità, a noi persone dalle più accessibili esigenze, di apprezzare il suo lavoro e incorniciarlo in quel contesto, senza preoccuparci necessariamente della provenienza o di non disturbare con il flash l’affascinante cane… Lupo che campeggia al centro dell’inquadratura frutto di una tanto approfondita competenza fotografica ed il senso imprescindibile dell’avventura.
Poiché questo non è l’animale che semplicemente incontri nel cortile, bensì la versione originaria di quel tipo di creatura, intesa come il Canis lycaon della classificazione al tempo erronea di Linneo, proprio perché almeno in apparenza ben diverso dal C. lupus di cui Cappuccetto Rosso sembrava non conoscere la ferocissima fisionomia. Ma in merito al quale, resta chiaro, colei o colui avrebbe potuto giovarsi di un più istintivo ed immediato terrore se soltanto fosse stato nero come la notte, rispecchiando nella sua tonalità la cupa fame che riusciva a connotare ogni potenziale interazione con eventuali bambine umane. E “Che occhi grandi che hai!” avrebbe potuto rispondere l’animale stesso, dinnanzi all’espressione del celebre naturalista svedese trovatosi dinnanzi a una creatura tanto rara e preziosa. Proprio perché, contrariamente a quanto si potrebbe essere inclini a pensare, il lupo nero è una creatura ben distinta con un percorso genetico particolare, che l’ha relegata al giorno d’oggi solamente in dei particolari ambienti tra cui l’Europa meridionale (incluse parti dell’Italia, tra cui il Trentino e l’Appennino Tosco-Emiliano) ed un paio di grandi parchi nazionali statunitensi: Yellowstone e i Voyageurs. Dove ormai soltanto un numero particolarmente ridotto di visitatori ancora ricorda il vero significato dell’incontro con un Lupo dello Spirito, come tendevano a chiamarlo con indubbia deferenza gli abitanti indigeni di queste due regioni, ogni qual volta lo incontravano lungo il sentiero variabilmente onirico delle proprie peregrinazioni. Un esperienza capace di rivelarsi, ogni singola volta, trasformativa…

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