Da un portale negli Appalachi, l’abisso di 180 metri per lo scantinato dei continenti

Nell’asse che si estende tra il correre un pericolo in prima persona e guardare le registrazioni di chi lo ha fatto, c’è una possibilità mediana fondamentalmente figlia dei nostri tempi: essa trae l’origine dall’utilizzo creativo del dispositivo noto come action camera o per mera antonomasia, GoPro. Avete mai sospeso un trapano con un rocchetto presso il ciglio di un impressionante baratro sotterraneo? Del tipo raggiungibile, allo stato attuale, soltanto tramite la discesa di un altro buco meno profondo, chiamato per l’appunto il “pozzo di riscaldamento”. Laddove l’accessibilità del suddetto risulta pur sempre essere inficiata dai 38 metri di profondità, comunque nulla di eccessivamente difficile o gravoso, se messi a confronto con i 178 del suo fratello maggiore, il singolo pertugio verticale privo d’ostruzioni più profondo di tutti gli Stati Uniti e pari al doppio dell’altezza complessiva della Statua della Libertà. Un’esperienza normalmente riservata a pochi speleologi, visto il requisito di riuscire a calarsi tramite l’impiego di una corda pesante un minimo di 20 Kg, frequentemente distanziata dalle ruvide pareti di roccia calcarea, mentre l’acqua gelida ti cade addosso da diversi ruscelli e fori scavati dall’erosione nel fianco della montagna. Il Pigeon Mount, per essere precisi, parte della catena montuosa degli Appalachi e situato nel Nord-Ovest della Georgia; benvenuti, dunque, a Ellison Cave. Che l’oscillante pratica dimostrazione del suo livello di sfida, ottenuta per terza mano dallo strano esperimento di Nate & Ben, gli “Action Adventure Twins” possa per sempre scoraggiarvi dal fare un tentativo. Non è questo il tipo d’impresa cui sia possibile approcciarsi con mente aperta e il tipico ottimismo delle cose nuove. Piuttosto il culmine di un lungo addestramento e la perfetta esecuzione di una serie di manovre. Almeno tre persone, dal 1999, hanno finito per perdervi la vita, andando incontro allo stesso infausto destino: restare impigliati nella suddetta corda, così che il suddetto flusso li portasse lentamente, inesorabilmente al congelamento. Una dipartita particolarmente spiacevole, capace di prolungare l’agonìa per lunghe ore, nella comunque piena consapevolezza che nessuno potrà giungere a prestare soccorso in tempo. Non per niente la caverna è uno di quei siti, non certo infrequenti nei selvaggi Stati Uniti, ove campeggia un cartello di pericolo recante l’inquietante dicitura “ATTENZIONE! Questo luogo vuole uccidervi. Scendente soltanto nel caso possediate la seguente serie di abilità… (Segue elenco)”. Benché affiancata, a una distanza non così lontana, dalla targa in bronzo commemorativa per immortalare coloro che l’hanno scoperta. Riuscite a immaginare un caso maggiormente problematico di segnali contrastanti? O la traslazione in senso speleologico del rinomato istinto all’autodistruzione, identificato con il francesismo (r)appel du vide

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Il terremoto che ha ingrandito la Nuova Zelanda

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Basta osservare un atlante storico per rendersi conto di come i paesi, spesso, cambino i reciproci confini. Per un vasto ventaglio di ragioni: politiche, diplomatiche, per uno scambio di favori o addirittura in funzione di operazioni militari, le loro forme sugli atlanti sono fluide e mutevoli come quella dell’acqua spostata tra diversi recipienti. Ma c’è un tipo di nazione che, per quanto possono decidere gli umani, resta immutabile attraverso le generazioni. Stiamo parlando delle isole, circondate dalla barriera di tipo paesaggistico più invalicabile per eccellenza, ovvero il mare. Eppure nonostante le premesse, tutto ciò che può succedere in teoria, nel corso della storia si è verificato. Antica oppure, come in questo caso, assolutamente contemporanea ed attuale: difficilmente, ne avrete sentito parlare molto a lungo in Tv. I recenti eventi politici ed economici, per non parlare delle catastrofi del tipo geologico che hanno colpito i nostri stessi connazionali italiani, hanno sottratto notevole spazio nei telegiornali al drammatico terremoto di magnitudine 7,8 che ha colpito lo scorso 14 novembre l’Isola del Sud della Nuova Zelanda, causando danni per miliardi di dollari e, nonostante le terribili potenzialità distruttive, soltanto due malcapitate vittime, di cui una per attacco di cuore. Un evento distruttivo, del tipo che siamo costretti a tollerare come clausola dell’imperfetta condizione umana, ma proprio per questo, latore della stessa energia geologica della creazione. Sarebbe difficile crederlo, se non ci fossero le testimonianze: due minuti dopo la mezzanotte, gli abitanti dei territori costieri presso la cittadina di Kaikoura e da lì verso nord, fino all’estremità settentrionale di Capo Campbell, hanno iniziato a sperimentare molto da vicino gli effetti del’evento tellurico, con epicentro 15 Km sotto Culverden, nell’entroterra poco più a sud. Ma in aggiunta a questo universale terrore, ne hanno dovuto affrontare un altro, specifico delle caratteristiche del loro territorio: un boato impressionante, proveniente dalla direzione dell’oceano, che sembrava riecheggiare della furia dei Titani risvegliati. Perché in un certo senso, era proprio questo ciò che stava succedendo: nel giro di esattamente tre minuti, alla velocità di 3 Km al secondo, una spaccatura nella stessa crosta del pianeta Terra si è ampliata, lungo circa 85 Km di costa. Un lato della stessa, quindi, ha cominciato a salire.
È uno scenario assolutamente surreale, quello che ci viene presentato nel presente video del GNS Science, l’istituto geologico nazionale, in cui l’addetto visita la scena del dopo-terremoto, mostrandosi dinnanzi ad parete rocciosa che supera in diversi punti l’altezza della sua testa. Non prima di averci fatto capire, esattamente, dove si trova: ovvero in riva al mare, e rivolto verso di esso. In un luogo dove, fino a pochi giorni fa, si divertivano i bagnanti e lanciavano i surfisti. Soltanto che le onde, a partire dal giorno fatidico, erano state ricacciate indietro dalla natura stessa, di 15-20 metri. Per tutto l’intero angolo nord-occidentale dell’Isola del Sud. Chiaramente, non si tratta di un fenomeno frequente. Anche noi italiani, che ben conosciamo la furia di questo tipo di tremori, siamo maggiormente propensi a considerare le spaccature che essi possono arrecare agli edifici artificiali costruiti dall’uomo, piuttosto che al paesaggio stesso che generalmente, a meno di sconvolgimenti ancor più significativi di quello di Kaikoura, resta pressoché invariato. Tutto il contrario di quello che è capitato nel caso in oggetto, e questo per le particolari condizioni geologiche della regione. Pensate che gli scienziati della Geonet, l’ente internazionale che si occupa di studiare i terremoti, hanno definito questo evento come uno dei più complessi mai registrati sulla terra ferma. In primo luogo, perché presentava in realtà di due epicentri assolutamente distinti, incluso quello originariamente tralasciato a Waipapa Bay. Ma soprattutto per il posizionamento dell’intera Nuova Zelanda, che si trova all’estremità meridionale del temuto Anello di Fuoco del Pacifico, la concatenazione di vulcani che racchiude l’intero oceano più vasto della Terra. Ragione per cui, come avviene per le pecore, c’è un’altra cosa che qui non è mai mancata: le faglie.

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