Sopra Parigi, nessuno poteva tenere il passo della formidabile siringa volante

Un aereo che costituisce, esso stesso, il suo motore. Avevate mai visto niente di simile? Il pilota nell’angusto spazio di una punta, al termine di un grosso cilindro incandescente con prese d’aria nella parte frontale, del tutto simile a quello che potremmo definire a pieno titolo un missile a reazione. Con le piccole ali a freccia aggiunte quasi come un ripensamento dell’ultima ora! Dopo tutto, se la spinta fosse stata sufficientemente forte, a chi sarebbe mai potuto servire qualcosa di “trascurabile” come la portanza…
Per chi considera il progresso tecnologico del Novecento come l’indiretta risultanza di uno scontro tra superpotenze, ed ordina l’importanza dei dispositivi rigidamente in base ai termini prestazionali del loro funzionamento, sarà senz’altro difficile da immaginare che il potente statoreattore, impianto responsabile di spingere gli aerei più veloci al mondo, possa essere stato “inventato” per ben tre volte da figure assai diverse tutte appartenenti alla nazione francese. La prima in via del tutto teorica nel 1657, da parte dell’autore satirico dal naso leggendario Cyrano de Bergerac (due secoli dopo protagonista del famoso dramma teatrale di Edmond Rostand) come principio di spostamento spaziale utilizzato dal protagonista del romanzo proto-fantascientifico L’Autre monde ou les états et empires de la Lune, per raggiungere il satellite terrestre mediante l’utilizzo di bottiglie legate alla vita, alimentate ad acqua ed aria compressa. La seconda con l’utilizzo di termini matematici precisi, in un’articolo sulla rivista l’Aerophile del 1907 dell’ingegnere René Lorin, tra i primi a teorizzare un motore aeronautico privo di elica o parti mobili, soltanto quattro anni dopo il primo decollo dei fratelli Wright. E per la terza volta all’inizio degli anni ’30 da parte di René Leduc, che ottenne il brevetto che avrebbe anni dopo portato al decollo autonomo del primo apparecchio dotato di tale meccanismo, destinato a infrangere una pletora di record in termini di altitudine, velocità e capacità di manovra. Tutto questo nonostante il fatto che il suo lavoro, nella storia del più potente “tubo spingente” mai creato dall’umanità, venga effettivamente citato quasi a margine e meno estensivamente degli esperimenti dimostrativi effettuati rispettivamente dagli Stati Uniti nel ’27 e l’Unione Sovietica nel ’29, con i primi destinati a produrre il loro primo velivolo effettivamente utilizzabile soltanto nel 1951, con il drone spia AQM-60 Kingfisher. Quando un “semplice” costruttore privato con sede a Tolosa ormai volava già da anni grazie allo stesso principio rivoluzionario, sebbene non gli fosse mai riuscito di ottenere l’approvazione per la produzione in serie delle sue creazioni migliori.
Ecco, dunque, ciò di cui stiamo parlando: la cosiddetta canna della stufa volante, ovvero l’oggetto dalla forma cilindrica con due ali ed una coda stabilizzante, approntato per la prima volta al tavolo da disegno nel 1933 dal veterano trentenne della grande guerra e diplomato presso la scuola elettrica di Supélec a Gif-sur-Yvette, lo stesso Messieur Leduc che riuscì soltanto tre anni dopo a presentarla innanzi ad una commissione governativa. In un periodo in cui lo stato francese era, come tutti gli altri, alla ricerca di nuove armi per l’incombente riapertura delle ostilità che aleggiava in Europa, tanto da concedergli un piccolo contratto utile a sviluppare la sua idea. Il che avrebbe portato, nelle decadi successive, ad un febbrile e reiterato lavoro su quelli che potremmo definire come alcuni degli aerei più insoliti ed efficienti della prima metà del secolo scorso…

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La società non era pronta per il primo monopattino motorizzato del Novecento

Qual è la vera origine del tipo di veicolo individuale dotato di due ruote, oggi maggiormente utilizzato negli ambienti urbani di tutto il mondo? Molti libri di storia dei trasporti o analisti degli scorsi secoli si affretterebbero a citare l’azienda parigina Werner, con il suo brevetto del 1897 per il veicolo denominato Motocyclette, capace di coniugare l’impianto di un motore a quattro tempi e singolo cilindro alla forma, il funzionamento e la meccanica di quello che fino a poco tempo prima sarebbe stato definito un velocipede, piuttosto che il termine dall’uso più specifico di “bicicletta”. Eppure se si osserva con occhio critico la posizione di guida ed il tipo di manovre possibili con l’iterazione più diffusa, soprattutto in Europa ed Asia, del veicolo moderno che consegue dallo stesso paradigma di mobilità e convenienza, sarà impossibile tralasciarne le differenze: in primo luogo la posizione di guida, più seduta che a cavalcioni, ed in secondo, la maniera in cui si guida e affrontano le curve di entità media o superiore, girando il manubrio con enfasi decisamente maggiore. Questo perché il motorino, o scooter che dir si voglia, deriva da un dispositivo simile ma totalmente parallelo e distinto. Pensate, a tal proposito, al tipico monopattino per bambini (o quello elettrico dei nostri giorni). Aggiungetegli adesso un sellino e BAM! Non saremo innanzi ad una Vespa o Lambretta, ma è innegabile che per lo meno dal punto di vista concettuale, ci siamo andati vicini. Un po’ come fecero, esattamente 24 anni prima, nella fabbrica newyorchese dell’azienda Autoped di Gibson Arthur e Hugo Cecil, una realtà incidentalmente tanto simile al funzionamento di un’odierna startup aziendale, da utilizzare lo stesso nome operativo del suo brevetto principale, nonché unico prodotto proposto ai clienti. Che poi sarebbe diventato anche lo slogan pubblicitario: “AUTOPEDING” un verbo fantasioso creato per indicare l’utilizzo dell’innovativo sistema di trasporto. “Per il pendolare, il messaggero, il dottore, chiunque altro desideri risparmiare. [sui costi della benzina]” Fattore particolarmente significativo quest’ultimo, visto come l’iniziale commercializzazione della meraviglia in questione, non elettrica bensì dotata anch’essa di un motore a combustione interna, fosse avvenuta proprio nel 1915, l’anno in cui le trincee cominciarono a risuonare dei colpi di fucile delle maggiori potenze europee. L’effettiva realtà della questione d’altra parte è che prima del momento in cui ogni singola città moderna iniziasse ad essere costruita in base all’esclusiva idea urbanistica dell’automobile e tutto ciò che questa comporta, c’era una quantità persino maggiore di ragioni per ricorrere all’impiego di sostegni veicolari dal più elevato livello di efficienza. Come cominciarono a scrivere gli articolisti in materia, con particolare (e sensazionalistico) riferimento alle gang di malviventi, che si trovavano perfettamente a loro agio nell’impiego di un dispositivo simile per poter sfuggire alle vetture della polizia, infilandosi all’interno di vicoli e luoghi di passaggio ancor più angusti…

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Gli anni d’oro del biplano progettato per congiungere i continenti

La fila per il terminal, l’ambiente affollato, i controlli per salire a bordo. L’assenza di servizi extra, l’attesa per i bagagli all’arrivo… C’è stato un tempo, nella prima parte del secolo scorso, in cui nessuno si sarebbe aspettato che il volo intercontinentale potesse diventare un’esperienza, per così dire, ordinaria. L’epoca in cui un sedile tra le nubi, spesso costruito in vimini per mantenere contenuto il peso, era appannaggio pressoché esclusivo di grandi personalità della politica o della finanza, persone al tempo stesso facoltose e dotate di considerevole fiducia nel fenomenale avanzamento dell’ingegneria aeronautica corrente. Con il secondo aspetto che andava a sfumare a vantaggio del primo, mano a mano che i velivoli per il trasporto diventavano più imponenti. Poiché semplicemente ancora non era stato inventato l’approccio progettuale in grado di mirare sopra qualsiasi altra cosa al profitto, massimizzando la quantità di persone stipate a bordo a discapito del comfort ed ogni altro aspetto confinante. Per un’esperienza che durava in genere diversi giorni per le tratte più lunghe, con scali notturni negli alberghi più pregevoli d’Europa e del mondo. C’era per questo un sottile senso d’insoddisfazione, da parte dell’Impero di maggior successo ed esteso nella storia, se i migliori e maggiormente celebrati dispositivi volanti provenissero principalmente dalla Germania, già capace d’affermarsi in qualità di grande polo per la costruzione di apparecchi affidabili e performanti. Almeno finché alla compagnia aerea britannica Imperial non venne in mente di contattare la Handley Page di Hertfordshire, presso il suo famoso aerodromo di Radlett, con due linee d’appalto attentamente calibrate: da una parte un aereo passeggeri ottimizzato per le tratte brevi delle loro tratte tra i diversi centri metropolitani europei. Dall’altro uno in grado di raggiungere nel modo più conveniente luoghi distanti come il Cairo, Calcutta, persino (un giorno) l’Oceano Atlantico che era stato fino a quel momento appannaggio prevalente di aviatori eroici e sprezzanti del pericolo incombente della loro stessa fine. Una tra le sfide verso cui la compagnia ancora diretta dal suo omonimo fondatore decise di rispondere mediante la costruzione di uno degli aerei più eccezionali che tale abito avesse conosciuto: il modello di un mastodontico sesquiplano declinato nelle due versioni, spinto innanzi da quattro motori Bristol Jupiter XIF da 490 cavalli ciascuno, la cui apertura alare di 40 metri superava quella di un odierno Boeing 737. Ma capace di ospitare in due cabine interconnesse prima e dopo le ali, nella sua versione HP.52 “appena” 6+12 passeggeri e 18+20 nell’alternativo H.P.42W, a discapito della quantità di bagagli che era possibile caricare a bordo. L’unico compromesso, o possibile variazione, tra le due versione di un aereo che sotto ogni altro punto di vista e nell’opinione della stampa ed i suoi utilizzatori, era semplicemente perfetto…

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L’elevata prospettiva liquida degli addetti allo sghiacciamento aeroportuale

L’uomo nella cabina sopraelevata impugna la coppia di joystick con entrambe le mani, mentre al di là del vetro parzialmente appannato infuria e biancheggia la tormenta peggiore degli ultimi quattro mesi. Indefesso ed instancabile, il lungo collo del veicolo ai suoi comandi si piega ed avvicina all’oggetto che costituisce il nesso inconfondibile della questione, già pieno di passeggeri e bagagli: il grosso Airbus A330, posto diagonalmente nello spazio di parcheggio dell’aeroporto sul finire della gelida serata. Raggiunta l’estremità ideale dell’arco disegnato nella propria mente, l’addetto preme quindi il rigido grilletto alla sua destra fino al primo dei tre scatti designati, lasciando che un getto ad alta pressione fuoriesca dal bocchettone posto al centro della sua inquadratura. Lentamente, il jet di linea inizia a tingersi di un aggressivo color verde smeraldo…
Aspetto cruciale nella progettazione di qualsiasi velivolo più pesante dell’aria è il rapporto tra resistenza dell’aria e portanza, ovvero la capacità da parte delle ali di veicolare l’atmosfera in modo tale da costituire il cuscinetto invisibile che allontana il mezzo, e tutto il resto del suo contenuto, dal rigido suolo che impieghiamo normalmente per camminare. Il che significa, volendo avvicinarsi al nocciolo della questione, che i margini di tolleranza nella progettazione di questo tipo di apparecchi, intesi come rapporto tra peso e potenza, ma anche la specifica geometria delle superfici di controllo, sono straordinariamente precisi ed ogni deviazione dall’idea dai canoni studiati a tavolino dagli addetti allo sviluppo può costituire non soltanto un ostacolo alla loro efficienza, bensì un letterale pericolo per chi si trova a bordo, nei dintorni o al di sotto del loro intero tragitto. Qual è il problema, dopo tutto? Non è che qualcosa di liquido o semi-denso possa cadere dal cielo, rimbalzando sopra la carlinga e il paio d’ali per ore o minuti, finché il rapido mutamento della sua materia costituente verso lo stato solido possa costituire una patina ruvidamente impenetrabile e saldamente attaccata al corpo di un oggetto metallico temporaneamente in attesa di decollare… Fatta eccezione per determinate latitudini, s’intende. Poiché fin dalla concezione del volo istituzionalizzato e commerciale, venne compreso come la precipitazione atmosferica tipicamente rappresentativa dell’inverno potesse costituire un problema da risolvere mediante l’utilizzo di approcci coerenti ed affidabili. Ovvero che potessero funzionare, per quanto possibile, sempre alla stessa maniera.
Un concetto più difficile a realizzarsi dal punto di vista pratico di quanto, idealmente, si possa essere inclini ad immaginare…

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