La lunga vita sotto l’isola scozzese dei lombrichi giganti

Il tentativo superficiale di tornare ad un particolare stile di vita, ormai perduto nella polvere dei secoli, avrebbe regalato un certo numero di soddisfazioni a George Bullough. Facoltoso ereditiere di una vasta fortuna maturata nel campo tessile da suo padre John, proprietario tra le altre cose di un’intera landa emersa, parte dell’arcipelago delle Ebridi Interne. Quella stessa Isola di Rùm dove il rampollo, disponendo di risorse finanziarie assai vaste, decretò nel 1897 che fosse costruito un solido castello in stile Tudor denominato Kinloch, con tanto di merlatura e torri di guardia, utilizzando principalmente arenaria rossa dell’isola di Arran. Quindi assunse localmente più di 300 servitori e giardinieri specializzati, che decise di pagare un extra affinché indossassero come divisa il kilt. E si adoperò affinché sua moglie, appassionata botanica e coltivatrice di rose, potesse disporre di uno spazio molto vasto in cui dar seguito ai propri interessi. Se non che il terreno acido, e tutt’altro che fertile dell’isola, si rivelò da subito poco soddisfacente in tal senso. Ragion per cui l’amorevole consorte non vide altra possibilità che far importare dall’Ayrshire 250.000 tonnellate di terriccio d’alta qualità, completo del proprio pregevole sostrato di humus, per così dire, vivente. Ciò in quanto non è possibile trasferire una simile quantità di materiale, senza trasportare assieme ad essa una parte significativa dell’ecosistema importato dai confini della vicina Inghilterra. Ed in modo rilevante svariate centinaia, se non migliaia, di lombrichi.
Il segno e la misura di un ponderoso tipo di opulenza, collegato alla fertilità che queste lande non avevano mai posseduto, ma anche la creazione di condizioni senza precedenti nell’interazione forzata tra uomo e natura. Tale da produrre, orrore e meraviglia allo stesso tempo. Per più di un secolo ancora questi luoghi nonostante tutto verdeggianti, trasformati già dai tempi del grande esproprio successivo alla battaglia di Culloden del 1746 in riserve private di caccia e luoghi “proibiti” per lo più inaccessibili al vulgus, restarono sostanzialmente incontaminati permettendo la continuità di una vita relativamente tranquilla. Una vivace popolazione di cervi rossi, dall’organizzazione sociale molto interessante, continuò a moltiplicarsi fino al raggiungimento della cifra corrente di circa 900 esemplari. La berta minore atlantica (Puffinus puffinus) continuò a nidificare senza dover fare i conti con significative o frequenti invasioni delle proprie alte scogliere elettive. Ma nel sottosuolo, non visti per generazioni, i vermi continuarono segretamente a prosperare. Finché nel 2016, contemporaneamente alla pubblicazione di uno studio scientifico dell’ecologo e biologo Kevin Richard Butt dell’Università del Lancashire, svariati tabloid britannici non cominciarono a pubblicare articoli con porzioni maiuscole: “BREAKING: Trovati in Scozia lombrichi delle dimensioni di giovani VIPERE”. Messaggio enfatico incapace di costituire, contrariamente a come potremmo essere giunti ad abituarci, un’iperbole di nessun tipo…

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Casa, mostri e meraviglie dell’artista che credeva nel libero arbitrio

Essere o avere? Credere o pensare? Vivere… O immaginare? Scelte inconcludenti quando il sentimento riesce a prendere il controllo della narrativa, ovvero il filo conduttore che determina la progressione funzionale delle idee. È forse proprio questa la ragione per cui l’arte costituisce, nell’immaginazione di molti, l’abbandono della razionalità e l’ingresso tra le forme che delimitano zone contrapposte alla coscienza. E regni magniloquenti, proprio perché spiegano in maniera estesa le impreviste alterazioni del rapporto tra causa ed effetto. Ma per ogni spazio fuori dallo scibile, occorre un guardiano. Il Cerbero massiccio delle circostanze ovvero, in altri termini, il dragone. Una creatura dalla bocca spalancata ed occhi attenti, artigli usati per sorreggere il supremo simbolo del suo potere, come avviene per il Lóng dell’Asia Orientale. O per meglio dire in questo caso, due di questi oggetti: il dado bianco e quello nero. Poiché pur non costituendo un demone, la statua più famosa del Musée Robert-Tatin dedica il proprio compito alla protezione di ogni cosa buona. E ciascun principio opposto, affine al male. Questa era la vita e la profonda verità di un uomo, colui che ha dato il nome a questo luogo mentre si trovava ancora in vita. Avendo percepito l’effettiva possibilità di un lascito, un’eredità per noialtri e tutti quelli che volessero incontrare la sua personale concezione del gesto d’artista. Così come si giunse ad inserirlo, grazie ai critici, tra il novero dei massimi esponenti della corrente naïf, dedicata all’espressione spontanea e senza filtri di una specifica visione del mondo. Laddove Tatin non si considerò mai parte di alcun movimento e d’altra parte, basta approfondirne brevemente la vicenda biografica per comprenderne a pieno titolo l’effettiva ragione. Molti anni prima che si stabilisse nella villa della Loira che attualmente porta il suo nome, l’autore nacque dunque nel 1902 a Laval, da una famiglia per lo più composta di donne e il padre allestitore di fiere circensi in giro per l’intero paese. Così trasferitosi a Parigi nel 1918, fece molti lavori mentre studiava alla Scuola delle Belle Arti disegno e pittura, prima di prestare il servizio militare a Chartres. Sposato con la prima moglie a due anni di distanza, egli avrebbe dunque costituito un’impresa di costruzioni dal notevole successo, che continuò a costituire la sua principale occupazione per tutta la decade degli anni ’30. Prima d’intraprendere una serie di viaggi tra Europa, Africa e Nordamerica, appena prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale relegandolo a ruolo di geniere sul fronte della linea Maginot. Non è dunque del tutto impossibile pensare che sarebbe stata, fondamentalmente, proprio tale esperienza a cambiarlo…

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L’imperscrutabile mappa del cosmo nella culla del Buddhismo Theravada

Il mito trasversale delle Antiche Conoscenze è un filo conduttore che collega non soltanto i popoli di angoli diversi della Terra, ma anche momenti particolarmente distanti nella vicenda cronologica dell’uomo. Ci sono conclusioni empiriche che d’altro canto possono variare, sulla base del contesto e le precipue circostanze vigenti. Mentre l’utilizzo di concetti aleatori, per loro stessa e implicita natura, può permettere l’arrivo a conclusioni che potremmo definire a tutto tondo, Universali. O in altri termini dei tondi che contengono, in maniera metaforica, l’intero Universo. Proprio questo è d’altra parte il punto di partenza di un soggetto grafico come il mandala o yantra, ideale diagramma pensato per rappresentare in un sol colpo gli abitanti della Terra e tutto ciò che hanno intorno. Invenzioni risalenti all’Induismo arcaico, quando i teorici di un clero eterogeneo presero l’ambiziosa decisione di mettere in chiaro la disposizione del Creato e tutto ciò che vive, o agisce al suo interno. Il che significa da un alternativo punto di vista, che in tale approccio analitico alla disquisizione di Ogni Cosa ricorrono tematiche appropriatamente coordinate. Luoghi e punti di partenza come fili di collegamento di un pensiero profondo. Ma che dire della mente estrosa e spesso imprevedibile, degli estrosi? Coloro che mediante il tratto del proprio pennello, o i molteplici colpi del cuneo utilizzato per incidere la pietra (come in questo caso) potrebbero essersi impegnati per dar forma ad un sentiero alternativo nondimeno pertinente alla questione che intendevano tramandare. Con risultati spesso… Interessanti.
Il Sakwala Chakraya è un disco inciso del diametro di 1,9 metri su una parete rocciosa perfettamente verticale all’interno del giardino Ranmasu Uyana, parte del complesso monumentale della città cingalese di Anuradhapura, famosa per essere stata tra le altre cose la capitale del regno omonimo, durato dal 417 al 1.017 d.C. Sei secoli durante i quali, trasformandosi in un centro di riferimento culturale ed economico, vide convergere tra i suoi palazzi e residenze le considerevoli risorse necessarie a costruire alcuni dei templi più notevoli del Mondo Antico, tra cui il grande stupa destinato ad ospitare le offerte per il Buddha di Ruwanwelisaya, alto 103 metri e di un diametro di 290. Ciò che trova rappresentazione in questo sito comparativamente piccolo e considerato spesso degno di poco più di una nota a margine sulle guide turistiche, è il tipo di creazione culturalmente difficile da collocare, se non proprio e totalmente fuori da qualsiasi tipo di perimetro concettuale determinabile a posteriori. Con figure, immagini e forme geometriche dal significato poco chiaro che parrebbero d’altronde suggerire, alle menti particolarmente aperte, la possibilità di una visione delle cose diametralmente contrapposta a quelle di cui abbiamo già notizia…

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La vastità del parco dove nacquero le scienze botaniche a Rio de Janeiro

L’opportunità di percorrere vasti viali alberati è un’importante caratteristica delle vecchie metropoli, che dimostra la coscienza ecologica ed ambientalista maturata già al principio degli scorsi secoli, quando i progettisti moderni iniziarono a perseguire un qualche tipo d’equilibrio tra gli spazi verdi e il grigio asfalto imposto dal bisogno pressoché continuativo di movimentare grandi quantità di oggetti e persone. Soltanto non è tipico, nel mentre ci si trovi a farlo, di trovarsi nominalmente sul tragitto di un semplice “vicolo” o aleia, terminologia che fa riferimento allo spazio relativamente stretto in proporzione all’altitudine dei relativi arbusti, che raggiungono agevolmente i 38 metri. Trattandosi di magnifici esemplari di Roystonea oleracea, la palma che da queste parti fu storicamente associata al potere assoluto del re portoghese prima, e dell’imperatore successivamente salito al potere, in uno dei periodi politicamente turbolenti della travagliata storia nazionale del Brasile. La cui genesi era soltanto un potenziale, quando il principe reggente Giovanni VI di Braganza nel 1809, da un anno in queste terre per essere fuggito dalle truppe napoleoniche che minacciavano la sua capitale nel Vecchio Mondo, piantò famosamente il primo di questi semi provenienti dal giardino di Pamplemousse, situato nelle distante isole Mauritius della Guyana Francese.
Nello stesso luogo, oggi situato sotto il braccio destro dell’iconica statua del Cristo Redentore e fin quasi alle coste antistanti dell’Oceano Atlantico, dove si estendono i 140 ettari di quello che potrebbe facilmente essere definito come il giardino più biodiverso dell’intero panorama contemporaneo, avendo la fortuna di trovarsi nella tempesta perfetta di una lunga tradizione di studi accademici, con il ruolo d’importante punto di riferimento storico e situato ai margini estremi della terra selvaggia per definizione, l’ultima vera foresta ancestrale rimasta visitabile entro l’atmosfera di un mutevole e sfruttato pianeta Terra. Così come nacque non molto dopo lo sbarco regale, avendo assunto il ruolo niente meno che fondamentale di un sito di acclimatazione, requisito dai terreni del mulino chiamato Lagoa Rodrigo de Freitas, affinché la corte in esilio potesse godere delle migliori spezie provenienti dalle Indie Orientali: cannella, noce moscata e pepe nero. Nel mentre accanto gli veniva costruita un’importante fabbrica di polvere da sparo, finalizzata ad alimentare la guerra in Europa e possibilmente, un giorno, riconquistare gli ancestrali palazzi di Lisbona. Ma le cose, si sa, non vanno sempre come è stato progettato e le piante, soprattutto quando vengono dalle foreste, tendono a crescere rigogliose, in ogni circostanza o luogo in cui ne sussiste l’opportunità latente…

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