Una parte significativa del successo economico per la confederazione di stati all’altro lato dell’Atlantico ha radici chiaramente definite da un punto di vista cronologico e organizzativo. Situate, con coerenza, nel periodo al termine dell’Era Vittoriana, quando il progresso tecnologico e infrastrutturale avrebbe finalmente permesso il sopraggiungere delle anelate condizioni, valide a sfruttare, collegare, rendere mansueto parte di un selvaggio territorio attraverso una manciata di generazioni, in modo non dissimile da quanto aveva avuto modo di verificarsi lungo il corso di secoli, e millenni, nella vecchia Europa. Fu del tutto imprescindibile a questo punto, nel corso della cosiddetta Gilded Age, che alcune insigni menti imprenditoriali potessero riuscire a trarne significativi profitti. Fu la nascita dei primi miliardari moderni, vista con sospetto dallo stesso scrittore che inventò quel termine, Mark Twain, il quale volle farne soprattutto un uso (è importante sottolinearlo) di tipo satirico e denigratorio. Così potenti, pieni d’influenza sul piano politico e al tempo stesso disinteressati alle traversie della gente comune, il che non significa che non avessero quantità ingenti alle proprie dipendenze, risultando inclini a condividere una parte significativa della propria quotidianità con i membri del proletariato. In qualità di servi, s’intende, delle proprie pantagrueliche residenze, spesso collocate nei quartieri di maggior prestigio di città come Boston, Santa Fe, New York. E qualche volta in luoghi molto più remoti, destinati ad essere abbinati al sostanziale prototipo di quella che sarebbe stata definita in seguito una company town.
Poiché c’è molto di simile nella gestione di un villa come questa, ad una vasta e stratificata azienda, così composta di 250 stanze, 43 bagni 65 caminetti al posto di opifici o capannoni dei macchinari. Costruita in mezzo ai monti della contea Asheville in North Carolina, per assecondare i piacevoli ricordi e le vigenti aspirazioni di un singolo depositario del potere economico supremo. George Washington Vanderbilt II, esponente più giovane della seconda generazione dopo il “Commodoro” Cornelius, provenuto dall’Olanda per costruire il proprio impero ferroviario capace di estendersi da una costa all’altra del Nuovo Mondo. Tanto da garantire ai suoi rampolli, e i successivi discendenti, non soltanto sicurezza imperitura dal punto di vista economico, ma tutto il tempo e le risorse per perseguire le proprie ambizioni maggiormente caratterizzanti dal punto di vista personale. Che nel caso di costui sarebbero giunte ad includere, guarda caso, la costruzione previa acquisizione di un terreno di 125.000 acri della più vasta residenza personale nella nazione destinata a ricevere il saliente soprannome, possibilmente a sproposito, di “Versailles Americana”. La proprietà (trad. estate) di Biltmore, il cui stesso nome in lingua sembra suggerire: [we] built more! Abbiamo costruito di più… More & more…
Fu dunque al primo sopralluogo nel 1889 dell’architetto assunto per il compito, il rinomato newyorchese Richard Morris Hunt, che il giovane Vanderbilt si rese conto per finalmente della portata del suo ambizioso obiettivo residenziale. Quando gli fecero notare la condizione tutt’altro che eccelsa di quel parco destinato a diventare un giardino, assieme alle difficoltà logistiche di trasportare materiali, risorse ed adeguati arredi dall’Europa fino al remoto entroterra statunitense. Eppure proprio quest’ultimo punto, per George W. era del tutto imprescindibile data la sua passione dominante, conforme alla moda dell’epoca, per tutto ciò che riprendeva o in qualche modo evocava il gusto della monarchia Francese tra il XVI e il XVII secolo e fino a pochi anni antecedenti alla grande Rivoluzione. Ragion per cui Biltmore, analogamente a molte altre celebri case della Gilded Age, venne concepita come fedele riproduzione di uno chateau dell’area della Loira, benché fornita delle più moderne amenità ed opportune convenienze dell’Era Moderna. Così attorno alle stanze di rappresentanza principali del piano terra ed oltre l’atrio dal vasto pavimento in marmo, il committente fece incorporare salotti, la biblioteca, una sala da musica, lo spettacolare giardino d’inverno. Oltre il cui ingresso, ornato da una riproduzione dei fregi del Partenone ad Atene, piante rare s’intrecciano sotto un soffitto in vetro per lasciar entrare la luce del sole. Mentre a partire dal secondo piano, accessibile mediante una scalinata di 107 gradini che si avvolge attorno a un candelabro monumentale da 72 punti luce, si trovano le 35 stanze da letto padronali e per gli ospiti, sotto le ulteriori 21 per la nutrita, sempre operosa servitù della estate. Ma è spingendosi verso il seminterrato e i sotterranei propriamente detti, che la portata delle mansioni d’uso diventa più stravagante, con l’inclusione di una sala da biliardo dotata di passaggio “segreto” verso l’obbligatorio club per soli uomini, oltre a una piscina al coperto, la fornita palestra ed un’intera pista da bowling. Giacché in quale altro luogo i prestigiosi occupanti e i loro visitatori, che includevano ambasciatori, uomini d’affari e presidenti, avrebbero potuto intrattenersi in un distretto tanto remoto da qualsiasi insediamento di pregio?
Per quanto concerne l’arredamento della casa Vanderbilt, che era anche un collezionista d’arte rinomato, s’interessò a compiere una serie di costosi viaggi all’estero per quasi mezza decade, facendo ritorno ogni volta con nuovi e incomparabili tesori. Riportando con se tappeti, stampe, tende, oggetti decorativi della più varia e stravagante natura. Incluso, alquanto incredibilmente, l’intero affresco prelevato da Palazzo Pisani Moretta a Venezia, delicatamente trapiantato sul soffitto della sua biblioteca. Inaugurata infine nel 1895, dopo un’opera febbrile di edificazione che coinvolse copiose maestranze e la curiosità di comitive provenienti fin dalla remota New York, George W. giunse ad inaugurare il suo capolavoro a Natale di quell’anno, dando inizio ad una serie di ricevimento per familiari, colleghi ed amici. Non avendo quindi particolari mansioni gestionali per gli affari di famiglia, gestiti per lo più dai suoi fratelli maggiori, si sarebbe trasferito in seguito in pianta stabile nella spettacolare magione, assieme alla moglie Edith Stuyvesant Dresser che aveva sposato nel 1898. I due avrebbero schivato un tiro mancino del fato nel 1912, quando dopo aver prenotato una cabina a bordo del viaggio inaugurale del Titanic, cambiarono idea all’ultimo momento, secondo una leggenda grazie ad un’osservazione casuale della sorella della moglie, sospettosa senza una specifica ragione del grande transatlantico.
Oggi considerata un punto di riferimento di primaria importanza per l’architettura dell’epoca, ereditata dalla singola figlia dei due ed i successivi discendenti di questo ramo della famiglia Vanderbilt, Biltmore rimase temporaneamente in stato di usura ed abbandono finché nel 1933 non venne fondata la compagnia omonima, mirata a trasformarla in un grande museo. Il che l’avrebbe resa, nelle decadi ulteriori, un’importante destinazione turistica della sua zona. Previa notazione di un aspetto inevitabilmente degno di nota: il fatto che la villa propriamente detta, a differenza del parco, sia rimasta ancora oggi una residenza totalmente privata e priva di sussidi statali degni di nota. Il che contribuisce a renderla, diversamente dalla citata Versailles ed altri luoghi simili in Europa, un’azienda dedicata essenzialmente al profitto. Con costi d’ingresso nettamente superiori alle aspettative: 80 dollari minimi per un biglietto e fino a 165 in base alla stagione e la completezza del tour. Ragion per cui molti decidono di limitarsi a prenderne visione dall’esterno, godendosi l’atmosfera degli ordinati e distintivi giardini. A torto o a ragione? Ai posteri l’ardua sentenza. Sebbene resti del tutto legittima la domanda sul come determinati sistemi di amministrazione, rispetto ad altri, risultino inerentemente meno validi a far conoscere i traguardi più notevoli della storia di un grande paese. Giacché risulta controproducente, per riprendere la citazione shakespeariana usata dallo stesso Twain, “Indorare ciò che è già aureo metallo, dipingere un giglio, mettere profumo su una viola”. Ma ciò non tutti a questo mondo, persino oggi, sembrerebbero averlo realmente compreso.