Nell’autunno del 1906, come conseguenza del quinto peggior disastro naturale ad aver mai colpito gli Stati Uniti (e di gran lunga il peggiore a non avere un’origine meteorologica) la brava gente ancora gravemente scossa della Città Dorata si ritrovò ad affrontare un dilemma di rara e significativa entità. Come assicurare la sicurezza di molte migliaia dei suoi abitanti, ancora costretti a vivere all’interno di tendopoli create per rispondere alla grave crisi degli alloggi, conseguente dalla distruzione di una percentuale stimata dell’80% dei suoi edifici? Di certo, lo spirito del mutuo soccorso aveva aiutato fino a quel momento e il clima della California era stato d’aiuto, ma il progressivo abbassarsi della temperatura non stava facendo altro che accelerare l’inevitabile: c’era bisogno di un approccio abitativo migliore e sarebbe stato meglio, se possibile, muoversi in tal senso prima dell’aumento esponenziale dei disagi e potenziali problematiche per il benessere comunitario. Dal che l’iniziativa, in prima battuta teorizzata dal membro della commissione finanziaria della Croce Rossa, il Dr. Edward T. Devine, di stanziare tra i 3 e i 4 milioni dollari di aiuti pubblici al fine di costruire un nuovo tipo di ricoveri semi-permanenti, da affittare e vendere ad un prezzo calmierato utile a garantirne la distribuzione il più possibile democratica tra coloro che ne avevano maggior bisogno. Un approccio così distante dallo stereotipo del capitalismo permanentemente alla ricerca di possibili occasioni di guadagno, che tuttavia piacque a tal punto al sindaco Eugene Schmitz ed il suo comitato speciale, costituito da 50 rappresentanti e suoi concittadini, che in breve tempo vennero coinvolte personalità dalla qualifica rilevante, affinché l’idea potesse trasformarsi in una concreta verità. Dovete considerare a tal proposito come l’epoca vigente fosse ancora ben lontana dal potersi affidare a soluzioni prefabbricate o catene di montaggio parzialmente automatizzate, rendendo perciò opportuno l’immediato impiego di ampie maestranze finemente addestrate al fine di garantire rapidità, standardizzazione, qualità del prodotto finale. Le due persone chiave del progetto furono per questo fin da subito il maggiore generale Adolphus W. Greely per la parte tecnica, e dal punto di vista dell’ergonomia e design, niente meno che John McLaren, l’esperto ed eccentrico orticoltore di origini scozzesi, già da una quindicina d’anni a capo dell’Ente Parchi cittadino nonché assoluto supervisore del Golden Gate Park. Uno dei luoghi designati, in maniera imprescindibile, come punto d’assemblaggio e schieramento delle nuove abitazioni, assieme agli attuali spazi verdi di Dolores, Precita, Camp Richmond, Columbus Square e il Presidio. Luoghi dove venne infine concordata la messa in opera di un gran totale di 5.610 case, che sarebbero giunte ad ospitare all’apice del loro impiego all’incirca 17.000 persone. Nello spazio oggettivamente ridotto di 4,2 x 5,4 metri per ciascuna famiglia, tuttavia efficientemente protetto dagli elementi e costruito in base ai migliori crismi possibili con la tecnologia dell’epoca. Tanto che in molti avrebbero successivamente dichiarato di aver visto migliorare esponenzialmente la qualità delle proprie condizioni abitative a seguito del terremoto, sebbene nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare l’aumento drastico di valore a cui sarebbero state destinate le proprie anguste capanne, capaci al giorno d’oggi di sfiorare, e qualche volta addirittura superare, il milione di dollari cadauna…
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La Casa Bianca di Guiyang e l’incredibile densità del suo villaggio metropolitano
Basta guardarsi attorno per capire come almeno una parte del futuro teorizzato per l’inizio del terzo millennio abbia finito per sfumare verso epoche decisamente remote: nessuna automobile percorre i nostri cieli, un’utopia economica non è riuscita a realizzarsi grazie all’opera instancabile di operosi androidi, Marte e gli altri pianeti del Sistema Solare ci sembrano ancora più lontani di quanto accadesse un mezzo secolo dalla data odierna. Il che ci avvicina, in misura maggiore di quanto sarebbe stato ottimisticamente prevedibile, all’ansiogena visione di una società asservita ai desideri delle grandi multinazionali, condizionata dalle divisioni sociali ed il degrado della società civile ipotizzato dal particolare genere della letteratura cyberpunk. All’interno del quale, un punto cardine è la visione della città opprimente, un mondo di cemento sovrappopolato e dominato dalle insegne al neon, dove un cielo distante (del colore, guarda caso, di un televisore sintonizzato su un canale morto) offre l’unica evasione concessa dalla perdita di ogni connessione alla presenza inconfutabile di un principio naturale retrostante. Ciò che nessuno dei creativi collegati a questo ambito sembrava aver previsto, tuttavia, è la presenza in mezzo a tutto ciò di un ideale Central Park, oltre un laghetto e qualche timido alberello decorativo, di un’amena magione dalle proporzioni approssimative di un centro commerciale, unite al costo stimato di 40 milioni di dollari e l’aspetto di un esempio prototipico prelevato dal dizionario enciclopedico dell’architettura vittoriana. Siamo a Guiyang (贵阳) dunque, una città da oltre cinque milioni d’abitanti. Di fronte ad un agglomerato di tetti spioventi e vistosi abbaini, colonnati che alludono a epoche classiche, finestre sovrapposte con la forma di un arco. E la vistosa cupola di vetro innanzi all’ingresso, che ricorda una stazione o luogo d’incontro dell’inizio del Novecento. Di una struttura rigorosamente chiusa al pubblico per diversi anni dopo il suo completamento, avvenuto contestualmente a tutto ciò che la circonda nell’anno 2019, alimentando strane leggende ed altrettante speculazioni immaginifiche da parte degli abitanti del gremito quartiere, fino all’attribuzione da parte della stampa del suo possesso al magnate delle costruzioni Xiao Chunhong, a capo del gruppo Honglicheng incaricato oltre 10 anni fa dallo stato cinese di porre in opera lo stesso imponente complesso urbano all’interno del quale, secondo alcune teorie, avrebbe poi deciso di stabilirsi nello stile del sindaco baffuto della Monopoli dei giochi di compagnia. Profondamente affascinato come pochi altri, piuttosto che interiormente destabilizzato, dal concetto di un singolo quartiere capace di superare abbondantemente la popolazione complessiva dell’Islanda, all’interno della sua pletora di torri alte in media 45-47 piani. Con fino a nove famiglie su ciascuno ed un totale di circa 500.000 anime guidate dalle proprie aspirazioni, desideri e un effettivo scopo autonomo dell’esistenza, pur condividendo buona parte del proprio indirizzo di residenza. Un modo di vivere certamente difficile da immaginare eppure, come possiamo iniziare a comprendere dai molti reportage in-situ reperibili su Internet, meno terribile di quanto potremmo essere stati educati a pensare…
Il principale intralcio filosofico al successo di un super-palazzo elicoidale a Taiwan
L’impressione di un grande centro urbano dell’Asia Orientale, in base allo stereotipo acquisito, lascia intendere un’impressionante densità demografica, spazi angusti ed alti alveari abitativi, non dissimili dal concetto ingegneristico di un’essenziale arcologia de facto: edifici vasti simili ad ambienti naturali separati, per il clima interno, l’economia vivente, le regole d’interazione tra i diversi fattori pendenti. Il che può avere basi nella verità dei fatti, per luoghi futuribili come la capitale Taipei, di una delle isole più facoltose, economicamente influenti dell’intera zona rilevante, l’isola nota ai primi esploratori come Formosa e al giorno d’oggi particolarmente problematica nel sistema di relazioni internazionali geograficamente contigue. Ma Taiwan, alimentata dal profitto dei commerci con l’Occidente e l’innegabile primo piano nel campo dell’industria tecnologica globalizzata, è anche è soprattutto patria di una quantità di miliardari superiore alla media, direttori, proprietari e capi di altrettante aziende con bilanci annuali simili a quelli di una nazione indipendente di media entità. Persone caratterizzate da un certo livello di stile di vita, benché fondamentalmente dedite al lavoro sopra ogni altra cosa, almeno finché non raggiungono l’età di un tardivo e ingresso nell’epoca del pre-pensionamento. Da qui l’idea, finanziata dalle compagnie di sviluppo immobiliare multinazionali Viking Group e DTM, di costruire nel quartiere Xinyi, a poca distanza dal centro cittadino e l’iconico grattacielo a cassettoni sovrapposti del Taipei 101, un nuovo tipo di residenza di lusso, egualmente caratterizzata da praticità, convenienza e stile. Il che tende a sottintendere come principio, nell’epoca corrente, un certo grado di attenzione alla natura e sostenibilità, valori per la prima volta mantenuti in alta considerazione nello schema generale della società multilivello. E forse anche per questo, niente meno che centrali nella produzione pregressa dell’architetto belga Vincent Callebaut, già promotore di concetti come il Dragonfly, orto verticale da costruire sull’isola di Manhanttan, ed il Lilypad, una piattaforma galleggiante per ospitare i profughi fuggiti dai paesi che verranno progressivamente sommersi a causa del mutamento climatico terrestre, ponendosi tra i principali proponenti di una nuova branca dell’architettura, definibile come biomimetica o ispirata alla vita stessa. Concetti accompagnati da un accurato e razionale studio di fattibilità, che trova una dimostrazione quanto meno parziale nell’effettivo aspetto completo dell’Agora Garden, alias Giardino di Tao Zhu Yin, con riferimento al nome postumo della celebre figura di politico, stratega ed economista Fan Li, vissuto in Cina nel sesto secolo a.C. all’apice del periodo di conflitti noto come primavere ed autunni. Considerato dagli storici come uno dei primi a dimostrare pubblicamente la percorribilità dell’altruismo, reinvestendo una parte delle sue risorse finanziarie nel miglioramento delle condizioni lavorative del popolo e i suoi sottoposti. E chissà che cosa avrebbe potuto pensare costui, di fronte all’aspetto strabiliante dello svettante condominio ultimato nel 2019, caratterizzato dal suo nome ed una forma che la critica internazionale ha definito a più riprese “chirale”, essendo in grado di riprendere, all’inverso, l’aspetto della molecola di acido desossiribonucleico, più comunemente definita con l’acronimo D.N.A…
Il popolo che intreccia il bambù per vivere all’interno di cesti giganti
L’ambiente, la cultura, i materiali disponibili e le tradizioni più che secolari costituiscono la congiuntura tramite cui popolazioni definiscono le modalità manuali per esprimere il proprio senso della convenienza e necessità operativa. In questo particolare senso, l’artigianato è non soltanto un mezzo di espressione primaria, ma talvolta l’effettiva manifestazione di uno stile di vita, l’energica modalità di dare forma e in qualche modo superare le asperità del vivere quotidiano, derivanti dallo stesso primordiale istinto di sopravvivenza umano. Logica secondo cui, tra tutte le creazioni della gente indivisa, forse la più singolarmente imprescindibile ed universale resta quella di un’abitazione ideale, somma realizzazione al culmine di plurimi tentativi pregressi di miglioramento ed ottimizzazione dei approcci possibili approcci tecnologici a propria disposizione. Approcci come quello, fondamentale per l’etnia tribale dei Dorze, della tessitura ed intreccio su una scala distintamente variabile, dal singolo oggetto ed accessorio per l’abbigliamento, fino all’equivalente in Africa Orientale di un grattacielo. Fino a 12 svettanti metri, nel momento in cui viene completata, la tradizionale dimora della keeththa o kaara sta in effetti alla più tipica capanna delle highlands etiopi come una magione dal designer di larga fama ad una semplice villetta a schiera di una vasta periferia urbana. Eppure non soltanto la sua costruzione è parte del corpus culturale alla base e fondamento della cultura collettiva dei locali, ma essa è percepita come parte di un’eredità facente parte del patrimonio collettivo, anche quando molti tendono oggigiorno a preferirgli una più conveniente dimora costruita in terra battuta e con il tetto di lamiera costruita secondo metodi d’importazione europea. Soluzione… Relativamente valida, ma che difficilmente sopravvive per gli oltre 80-90 anni di strutture come queste, garantendo inoltre un ricircolo dell’aria da piccoli fori nella parte superiore, tali da impedire l’ingresso di quantità eccessive di mosche, zanzare ed altri insetti molesti. E questo senza neanche entrare nel merito di come una casa di siffatta natura possa costituire un piacere per gli occhi di chiunque ami l’armonia esteriore nel suo legittimo contesto d’appartenenza, garantendo un’obliqua e trasversale fonte di guadagno grazie al mercato contemporaneo del turismo.
Basta in effetti giungere a destinazione nella cosiddetta Dorze Town, situata all’altitudine di circa 3.000 metri sopra la città di Arba Minch, negli immediati dintorni del lago Margherita, per essere trasportati all’interno di un mondo fuori dal tempo, che potrebbe appartenere ad epoche distanti nell’itinerario indefesso di chi è sempre stato in grado di ottenere tutto il necessario dal suo legittimo ambiente di provenienza. Dove osservare i tessitori al lavoro, con il tradizionale telaio manuale di un’antica tribù guerriera, le cui stoffe variopinte furono per lungo tempo alla base di commerci particolarmente redditizi, così come quelli praticati dall’attuale e fuori contesto negozio di souvenir. Costruito di suo conto, come tanti altri edifici del posto, secondo un preciso ed assolutamente imprescindibile piano regolatore…