Se nel corso di una passeggiata in mezzo alla natura, vi capita di scorgere incastrata tra le rocce o i rami un semplice cilindro di metallo, con il logo di una bibita frizzante, aspettate prima di raccoglierla per trasportarla fino al cassonetto più vicino. Osservate, prima, se c’è un buco. E in che direzione è rivolto quest’ultimo, poiché se innanzi c’è un paesaggio, monumento o altra meraviglia inamovibile del territorio, allora caro escursionisti, ciò che state osservando è l’arte in corso di creazione. Per il tramite di uno strumento al tempo stesso semplice, e moderno: una camera oscura portatile, del tipo normalmente usato (?) ai fini concreti della solarigrafia. Ce lo spiega tramite i suoi gesti Ian Ruhter, fotografo di South Lake Tahoe (CA) celebre per le sue molte opere premiate e le mostre di portata internazionale. Ma anche gli approcci eclettici che ama descrivere su Internet per i suoi molti seguaci, ivi incluso il furgone dell’UPS che ha acquistato e riconvertito in una fotocamera gigante con laboratorio chimico sul retro, andando in giro per tutti gli Stati Uniti per mettere in pratica l’antico metodo di sviluppo di lastre mediante l’utilizzo del collodio di nitrocellulosa. Passaggio in questo caso totalmente superfluo, viste le notevoli caratteristiche della tecnica che sta impiegando, per come è stata formalmente inventata dai polacchi Kula, Jesionek, Noniewicz e Smołenski alla fine degli anni ’90, consistente nell’impiego diretto di una carta impressionabile all’alogenuro d’argento. Di un tipo non dissimile dal tipico supporto della vecchia fotografia analogica, benché dotata di un grado d’impressionabilità decisamente inferiore alla media. Ragion per cui la lattina in questione, dopo essere stata forata, ricoperta all’interno con un foglio di quel materiale ed attentamente richiusa, è rimasta in posizione per un tempo approssimativo di una settimana. Al tempo stesso il punto debole, nonché la forza di quest’arte insolita, il cui scopo è non soltanto quello di riprodurre una figura invertita del paesaggio in negativo, mediante il sistema del riflesso stenopeico, ma anche i successivi passaggi dell’astro diurno nel cielo antistante. In una sorta di time-lapse dal basso contenuto tecnologico, cionondimeno memorabile sia nei metodi che il risultato finale una volta sottoposto a scansione digitale ed incremento del contrasto tramite l’impiego di programmi di grafica. Nient’altro che l’ennesima, ingegnosa idea, ripresa e in questo modo attualizzata da un esperto utilizzatore di strumenti risalenti agli albori dell’Era contemporanea…
esposizione
Lego Cyberpunk: una metropoli di mattoncini oltre l’immaginazione artificiale
La lucentezza imperturbabile di elementi meccanici, strumenti tecnologici, componenti veicolari avanzati. Per non parlare dei caratteristici occhiali a specchio, fin da subito ricorrenti nelle opere facenti parte di quel nuovo genere narrativo. Nell’ottenimento di una superficie riflettente, normalmente associata alla tonalità del cromo, elemento della tavola facente parte del gruppo 6 (metalli d’importanza industriale) pur trovando applicazioni relativamente limitate nella stratificata civiltà del mondo contemporaneo. Perché mai, dunque, il materiale simbolo della cultura cyberpunk non dovrebbe essere riconosciuto nella plastica? Prodotto polimerico preponderante e irrinunciabile, spina dorsale delle plurime visioni contrastanti di un’epoca possibile, fin troppo prossima, in cui la natura è stata superata dall’anelito ad avere tutto e subito, in quantità di molto superiore alle aspettative. Sto parlando della plastica capace di formare involucro dell’informatica e di altri oggetti, telecamere, persone… Ovvero la sostanza, intesa come innumerevoli mattoni dell’esistenza, capace di costituire la struttura stessa del tentacolare dio urbano. L’esiziale megalopoli, che poi QUASI sempre è Tokyo o uno dei suoi derivati, in grado di costituire il personaggio più importante che accomuna la totalità dei film, romanzi, videogiochi di questo settore. Di certo la conoscete, o altrettanto probabilmente potrete prenderne atto dall’opera del tutto priva di precedenti esposta nel corso di due soli giorni alla fiera di Chicago di una settimana fa, incentrata sulle costruzioni-giocattolo ideate per la prima volta nel 1949 in Danimarca, prima di trasformarsi nella pura e imprescindibile antonomasia di quel settore merceologico all’interno del mercato globale. LEGO che permette d’insegnare ed acquisire un tipo di creatività tattile propedeutica a moltissime altre cose, nei giovani come negli adulti, come esemplificato dall’ormai celebre dicitura “Adatto per bambini dai 9 ai 99 anni”. Coloro che potrebbero finire a vivere, un giorno, in luoghi come Neo Hashima di Stefan Formentano, il nome principale associato ad uno dei progetti più imponenti, ed indubbiamente memorabili, ad aver partecipato ad uno di questi eventi. Sotto ogni aspetto rilevante una città, nella consueta scala 1:42 fornita dalle figure antropomorfe della compagnia produttrice, raggiungendo una dimensione complessiva pari a circa 10 metri di lato e 2,7 d’altezza. Benché l’individuazione di un singolo autore potrebbe portare al fondamentale fraintendimento del progetto, trattandosi di un’impresa collaborativa frutto delle mani di 70 partecipanti provenienti da molteplici paesi, portati sotto una bandiera dall’intento collettivo nel creare qualcosa di assolutamente innovativo, che potesse dirsi a tutti gli effetti privo di precedenti…